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Madri, nonne, femmine, sexy.
Si può diventare madri e, persino, nonne, senza rinunciare ad essere femmine e, persino, sexy.
Sempre che lo si sia mai state prima.
Ci sono, invece, (molte) donne che, quando diventano madri (non parliamo di quando diventano nonne) rinunciano alla loro femminilità e sensualità, perché se ne sentono in colpa.
Quasi che, restando femmine e sensuali, togliessero qualcosa ai loro figli e nipoti, al loro essere madri o nonne.
Senza capire che i loro figli (specie quelli maschi) le amerebbero di più se le vedessero “femmine” e sensuali.
© Giovanni Lamagna
Quando la nostra rabbia ha radici lontane, molto lontane.
Quando stiamo male, spesso proviamo rabbia; e la prima cosa che facciamo è quella di prendercela con gli altri, di indirizzare la nostra rabbia contro gli altri.
In primis con quelli che abbiamo a tiro, che ci stanno più vicini.
Come se fosse (solo e in primis) colpa degli altri se stiamo male; e se, perciò, siamo arrabbiati; come se essi fossero la “causa prima” del nostro malessere.
Mentre in realtà non è così, non è oggettivamente così.
In realtà – se volessimo essere del tutto sinceri e radicalmente onesti – noi ce la dovremmo prendere (anche, anzi soprattutto) con noi stessi.
Perché nessuno ci impone di stare con le persone che abbiamo d’attorno.
Se ci stiamo, evidentemente è perché ne traiamo delle convenienze.
Solo che la rabbia ci annebbia la vista e ci fa vedere, invece, solo le cose negative e non anche quelle positive, che – nonostante tutto – ci fanno preferire la compagnia di alcuni a quella di altri e, a maggior ragione, alla totale solitudine.
Quando siamo arrabbiati dovremmo prendercela innanzitutto con noi stessi, che ci siamo infilati e messi in certe situazioni.
Comprese quelle che ci hanno portato ad avere rapporti (in certi casi, addirittura convivere) con le persone verso cui proviamo rabbia.
Tutt’al più, dunque, dovremmo prendercela con il nostro passato (specie con quello legato alla nostra infanzia) che ci ha reso così come siamo (per una grandissima percentuale) e ci ha portato pertanto a fare (spesso) scelte sbagliate, a stare con le persone e nei posti sbagliati, quelle a cui poi oggi (spesso) attribuiamo le ragioni della nostra rabbia.
Ma – anche qui – che senso ha prendersela con il passato, addirittura con le nostre radici, con la nostra infanzia?
Di questo passo dovremmo risalire addirittura ad Adamo ed Eva per trovare le cause e le origini del nostro malessere e, quindi, della nostra insofferenza.
Anche qui, forse, la cosa più conveniente (e saggia: sempre che ci teniamo a diventare minimamente saggi) è accettare il passato che ci trasciniamo appresso e, non dico farci pace, ma quantomeno imparare a conviverci.
Tanto quel passato 1) non lo possiamo più modificare e 2) non ne siamo noi i responsabili.
Nessun bambino è responsabile delle condizioni e dell’ambiente in cui è nato e cresciuto; del dolore vissuto e, quindi, della rabbia e, in certi casi, persino del rancore, accumulati negli anni della sua infanzia.
In conclusione: forse, questa presa di coscienza ci aiuterà (potrebbe aiutarci) a diventare un po’ più tolleranti e misericordiosi con noi stessi.
Ad essere meno arrabbiati con noi stessi; e, indirettamente, di conseguenza, anche con gli altri.
Specialmente con quelli che abbiamo maggiormente a tiro, coi quali spesso conviviamo, verso i quali nutriamo rancore per come sono e per come si comportano.
Non è cosa facile, sicuramente; di certo è più facile a dirsi che a farsi.
Ma che alternative abbiamo?
Tanto vale – quantomeno – provarci.
© Giovanni Lamagna
Parlare e tacere.
C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere.
In certe occasioni tacere è una colpa.
E bisogna dunque parlare, anche a costo di rendersi antipatici e impopolari.
In altre occasioni, invece, parlare può essere inopportuno o del tutto inutile.
E quindi è meglio tacere, limitarsi ad ascoltare.
Tenendosi dentro le parole che ci verrebbe istintivo pronunciare.
© Giovanni Lamagna
È l’amore e non l’odio che ci aiuta a separarci dagli altri.
Non ci si può separare veramente dai propri genitori, anche, anzi ancora di più, quando essi ci hanno fatto molto male, se non dopo averli “perdonati” e, quindi, aver ristabilito con loro un qualche legame di compassione, se non proprio di amore.
Cioè dopo aver detto loro, in cuor nostro, se non proprio con un discorso esplicito: “Ho capito che non è stata colpa vostra se mi avete fatto del male, ho capito che me lo avete fatto perché siete delle persone alle quali è mancato l’amore, quindi “povere” di amore; e per questo non siete stati capaci di darlo a me.”
Paradossalmente è l’amore e il perdono che generano la separazione, non l’odio.
L’odio porta sempre con sé rimasugli di attaccamento; è in fondo una forma di attaccamento non risolto, non superato.
Segnala, quindi, un’incapacità a separarsi veramente, cioè psicologicamente e non solo fisicamente, dalla persona che si odia e da cui ci si vorrebbe separare.
© Giovanni Lamagna
Dolori antichi.
Ci sono dolori dell’anima così forti, acuti, sordi, lancinanti, così insostenibili per noi, che non riusciamo manco a riconoscerli, a guardarli in faccia.
Tendiamo per questo a rimuoverli, a deporli sul fondo della nostra coscienza.
Anche per questo poi facciamo fatica ad elaborarli e a superarli.
Sono, in genere, i dolori più antichi, che trovano le loro radici nella nostra infanzia.
In modo particolare quelli legati al rapporto che abbiamo avuto con nostra madre o con nostro padre o con entrambi.
Verso i quali proviamo, quindi, un rancore non risolto per quello che ci hanno dato, ma in modo sbagliato, o non ci hanno dato, mentre noi lo desideravamo tanto.
E, siccome è un rancore non risolto, ci fa sentire in colpa.
Per cui al dolore per ciò che ci è mancato si aggiunge anche il dolore che deriva dai sensi di colpa.
© Giovanni Lamagna
Ci sono fatiche e fatiche, sofferenze e sofferenze, sacrifici e sacrifici.
Io ritengo che ci siano fatiche e fatiche, come sofferenze e sofferenze, sacrifici e sacrifici.
Una cosa è la fatica, il sacrificio, alle volte perfino la sofferenza, funzionali a raggiungere un determinato obiettivo, un certo scopo, che, una volta raggiunti, saranno poi per noi fonti di piacere, a volte di gioia, in certi casi addirittura di vera e propria felicità, insomma di realizzazione e appagamento, per quanto parziali, della nostra vita.
Parlo qui ovviamente di questa vita, questa vita terrena, non un’ipotetica vita futura, ultraterrena, post mortem.
In questo caso la fatica, i sacrifici, la sofferenza sono spesso ineludibili, i passaggi necessari, indispensabili, per raggiungere una condizione di vita che presumiamo, almeno nelle aspettative, superiore a quella nella quale ci troviamo prima di affrontarli.
La fatica del giovane che si vuole laureare, la fatica del lavoratore che vuole ottenere una promozione, la fatica di chi sta scrivendo un libro, la fatica e i sacrifici dell’atleta che si allena per una gara: sono questi citati (ma se ne potrebbero ovviamente fare mille altri) esempi di fatiche, di sacrifici (a volte vere e proprie sofferenze) che hanno un senso, perché sono passaggi obbligati in vista del raggiungimento di un obiettivo concreto, realistico, da raggiungere entro l’orizzonte terreno di questa vita.
Altra cosa è desiderare e perseguire il dolore, la sofferenza, il sacrificio, metaforicamente la croce, in sé, (almeno apparentemente) fini a sé stessi: mettersi, ad esempio, il cilicio o dormire sulla nuda terra; come hanno fatto alcuni mistici nel passato e forse fa ancora oggi qualcuno.
Questo può avvenire, per quello che ne capisco io, solo per due motivi: o per espiare una colpa (vera o presunta che sia) o per raggiungere un premio ultraterreno.
Anche in questi due casi, dunque, possiamo dire che la sofferenza non è un fine in sé, ma un mezzo, una via, ritenuti congrui rispetto ad un fine che si vuole raggiungere, che non è mai la sofferenza in sé.
In altre parole non si sceglie, non si “ama” la croce in sé, ma si ama e si desidera quello che ci attende dopo essere passati per la “via crucis”.
E però, in entrambi questi casi, la scelta è, comunque, quanto meno discutibile.
Infatti, la colpa non si cancella (almeno a mio avviso) con questo tipo di espiazione; il modo migliore di saldare i conti con una colpa commessa non è quello di autoflagellarsi, ma quello di cambiare vita, impegnandosi a non ricadere mai più in quella stessa colpa.
Nel secondo caso non ha senso rinunciare ai piaceri e alle gioie concreti (e certi) che sono alla nostra portata, nella vita che oggi stiamo vivendo, nella prospettiva/attesa di piaceri e gioie (incerti) che potrebbe destinarci una (solo presunta) vita futura.
Nessuna fede, infatti, ma solo un cieco fanatismo, ci dà la certezza che una vita futura, dopo la morte, compenserà i sacrifici compiuti nella vita attuale.
Solo un latente (ma a volte manco tanto latente) masochismo può spiegare una simile scelta.
© Giovanni Lamagna
Ci sono sacrifici e sacrifici!
Ci sono sacrifici (nel senso di dolori, fatiche…) che sono passaggi obbligati, se vogliamo raggiungere determinati obiettivi: non li possiamo evitare, fanno parte del nostro percorso di vita, sono intrinsecamente collegati agli scopi che ci siamo dati.
E ci sono sacrifici, invece, che ci imponiamo da soli, come una forma di espiazione per i nostri sensi di colpa; a volte legati a nessuna colpa reale, ma ad una colpa che percepiamo come tale, che qualcuno da fuori ci ha spinto a considerare tale.
I sacrifici del primo tipo, oltre che ineludibili, sono anche funzionali alla nostra crescita umana in senso lato; fisica, emotiva, intellettuale, spirituale.
Quelli del secondo tipo, invece, sono del tutto inutili; faremmo bene ad evitarceli, servono solo a deprimerci, in certi casi possono addirittura distruggerci.
© Giovanni Lamagna
Sulla “stagnazione melanconica del lutto”.
La “stagnazione melanconica del lutto” – di cui parla Massimo Recalcati a pag. 46 del suo “La luce delle stelle morte” (2022 Feltrinelli) – è, a mio avviso, una (quasi) diagnosi, il sintomo patologico acclarato in una persona di un insufficiente, carente, “amore per la vita”.
Quell’amore di cui ognuno di noi nasce dotato, in una misura più o meno adeguata, che potremmo identificare con l’istinto di sopravvivenza; o, meglio, con la “volontà di vivere”, di cui parlava Schopenhauer.
Nella persona incapace di elaborare un lutto in tempi ragionevoli si fronteggiano, competono, confliggono “l’amore per la vita” e “l’amore per la morte”: dell’esistenza di questi due amori ci ha parlato l’ultimo Freud, che li considerava e chiamava addirittura “istinti”.
In questo tipo di persona l’amore per la vita non riesce ad averla vinta sull’amore per la morte.
Il secondo blocca il fluire normale, l’affermarsi del primo, lo neutralizza e, talvolta, vince, prevale sul primo.
In tal caso il soggetto afflitto da un lutto irrisolto imbocca una strada di regressione che gli intossica l’esistenza sul piano psichico; non solo; talvolta può rovinargli persino la salute fisica.
Da cosa è causata una simile dinamica, cosa spiega una tale deriva spirituale ed umana?
Provo a dare una risposta, in base a ciò che ho spesso osservato in persone afflitte da tali problematiche.
Il soggetto di cui stiamo qui parlando non può accettare in buona sostanza che l’altro sia morto e che lui sia, invece, ancora vivo; si sente in colpa per questo e, quindi, bisognoso di espiare; espiare vuol dire morire in qualche modo con l’altro, assieme a lui.
Lo stesso fenomeno (anche se in forme più blande e meno tragiche) può verificarsi anche di fronte alla “semplice” sofferenza (quindi non la morte) dell’altro.
In questo caso il soggetto predisposto alla “stagnazione malinconica del lutto” non può accettare che la sua vita goda dei piaceri e delle gioie che una vita normalmente (salvo rari casi eccezionali) è in grado di donare.
Allora deve fare in modo di angustiarsi, di rovinarsi l’esistenza – anche quando non ce ne sarebbero le ragioni personali oggettive – per poter condividere il dolore, il patire dell’altro.
Sarebbe, infatti, per lui insostenibile stare bene o anche solo non stare male mentre l’altro sta male e soffre; se ne sentirebbe insopportabilmente in colpa.
Colpa che può essere lenita, in qualche misura, solo dalla sofferenza propria, dalla condivisione sulla propria pelle della sofferenza dell’altro.
Quasi a conferma dell’antico proverbio, che, come tutti i proverbi, una qualche verità la dice: mal comune è mezzo gaudio.
© Giovanni Lamagna