Archivi Blog

Perché, nonostante tutto, desideriamo vivere?

Perché, nonostante tutto, desideriamo vivere? Tutti, chi più e chi meno, poveri e ricchi, sani e malati, belli e brutti, intelligenti e stupidi.

Nonostante che numerosi e illustri filosofi, soprattutto in questi ultimi due secoli, ci abbiano indotto a pensare che la vita è solo dolore e noia, sofferenze e malanni, un triste capriccio della natura.

Forse la risposta sta nel fatto – per quanto banale esso possa sembrare – che non è per niente vero quello che illustri filosofi hanno sostenuto; penso, per fare solo tre esempi, a Leopardi, a Schopenhauer e a Cioran.

Forse la vita non è solo dolore e noia, dispiaceri e sventure, come tanti filosofi – soprattutto moderni e, ancor più, contemporanei – si sono convinti a credere e hanno provato a convincerci.

La vita è anche gioie e piaceri, è anche avventure e scoperte.

Anzi forse, nonostante tutto, i secondi, per ognuno di noi, prevalgono sui primi.

Ne possiamo concludere che, quindi, la vita – checché ne pensino i Leopardi, gli Schopenahuer e i Cioran – vale la pena di essere vissuta, nonostante si concluda con la morte, che – non a caso – la maggior parte di noi si augura arrivi il più tardi possibile.

D’altra parte quegli stessi pensatori hanno confermato tale verità coi fatti, in contraddizione con le parole da loro dette e scritte.

Infatti, se pensavano veramente e fino in fondo le cose che affermavano sulla vita, perché hanno preferito tenersela cara, fino alla morte naturale, e non togliersela anticipandone la fine; come pure, se fossero stati coerenti con le loro teorie, avrebbero potuto fare?

© Giovanni Lamagna

Paura e desiderio nei rapporti

21 maggio 2015

Paura e desiderio nei rapporti.

Ci sono persone che nei rapporti (anche e, forse, specie in quelli più significativi) passano più tempo e consumano più energie a schivarsi, a nascondersi, a fuggire dall’altro che ad aprirsi, a mettersi in gioco, a farsi mettere in discussione dall’altro.

E lo fanno in diversi modi, tutti tipici, sintomatici, abbastanza trasparenti per chi ha l’occhio appena un po’attento e addestrato a riconoscerli: evadono discorsi appena iniziati, quando diventano un poco più approfonditi e impegnativi; parlano di altro o di altri e non di sé o di quello che riguarda il rapporto in cui sono coinvolti; si danno impegni (per carità, encomiabili, altruistici, generosi) a volte perfino faticosi e impegnativi, ma non hanno mai (o quasi mai) tempo da dedicare a momenti più piacevoli e rilassati di intimità (ad esempio, sessuale).

Queste persone nel rapporto utilizzano sempre (o quasi sempre) una maschera o (peggio) una corazza, per cui si mantengono sempre a una certa distanza (potremmo dire di sicurezza), in modo da non essere coinvolti mai fino in fondo, da non mettersi mai completamente a nudo.

Non sanno cosa si perdono!

Verrebbe da chiedersi, allora, perché continuano a stare nel rapporto, ad essere interessate ad esso, perché ne avvertano il bisogno (a volte perfino ossessivo e compulsivo), se poi (come istanza fondamentale) se ne difendono, in qualche modo se ne tengono a distanza.

La risposta sta, secondo me, nel fatto che il rapporto (anche questo tipo di rapporto) comunque corrisponde a un bisogno, se non a un vero e proprio desiderio: il bisogno di sicurezza, di protezione, di compagnia, di vicinanza, di conferma, di rassicurazione, di riconoscimento, di esorcizzazione della paura della solitudine.

Ovviamente, ridotto solo a questo, non soddisfa l’altro bisogno implicito che c’è in ogni rapporto: il bisogno della scoperta, della ricerca in comune, dell’arricchimento reciproco, della crescita di sé attraverso l’altro, del cambiamento e dell’innovazione.

Ogni rapporto, infatti, oltre che dare rassicurazione (anzi proprio perché dà rassicurazione) contiene in sé anche una sfida implicita: la sfida ad uscire dal proprio guscio, dalla propria corazza protettiva, a gettare la maschera, alla ricerca del proprio Sé più vero, a trasgredire (nel senso letterale dell’andare oltre), a non accontentarsi di ciò che si era e di ciò che si è.

Ecco cosa si perdono le persone che nel rapporto si rintanano, come in una cuccia, invece di trovare il coraggio e l’energia per uscire allo scoperto: rinunciano alle avventure, alle scoperte (e, quindi, alle gioie) sempre nuove che la vita non mancherebbe certo di offrire loro, se vincessero le paure che le attanagliano, che le paralizzano.

Alle volte (mi verrebbe di dire: spesso) i nostri rapporti non ci aiutano e non ci spingono a superare queste paure, ma anzi le confermano, le cronicizzano, talvolta addirittura le consolidano, acuiscono.

Ci andiamo a cercare le persone che, anziché aiutarci e stimolarci in un cammino di crescita e di liberazione, fanno proprio il contrario: ci confermano, ci fermano, ci “fissano” nei nostri antichi complessi, mantenendo aperte (anziché guarirle) e, in certi casi, addirittura aggravandole le nostre antiche ferite.

Alle volte facciamo questo addirittura con la scelta del nostro terapeuta. Ci andiamo a cercare un terapeuta che, anziché prenderci di petto e “aggredire” i nostri problemi, le nostre nevrosi, ci gira attorno senza mai coglierne il cuore, asseconda in questo modo le nostre difese e le nostre resistenze, ne diventa complice, invece di aiutarci, stimolarci a “vederle” e a liberarcene.

Agisce (solo) come una madre amorevole e premurosa: ci “accarezza” , ci conforta, ci rassicura, ci conferma (tutto è ok!), ci dà (finalmente!) l’affetto che ci è sempre mancato e che non riusciamo a trovare fuori (dal setting terapeutico).

Per cui la terapia diventa una lagna infinita e interminabile. Un rimestare continuo, senza nessun costrutto ed elaborazione reali, gli antichi vissuti. Una terapia sostanzialmente inutile, anzi (forse) persino dannosa.

In questo caso i rapporti (anche quello psicoterapeutico) realizzano la loro funzione, il loro “compito”, solo a metà. Sono rapporti in cui prevale (o è presente solo) la dimensione materna, privi o poveri della dimensione paterna.

Sono rapporti, quindi, monchi, bambini, che non riescono a crescere, a realizzare tutto il loro potenziale.

Giovanni Lamagna