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Viaggio nell’inconscio.
Il viaggio nel nostro inconscio – in quella parte profonda di noi, che è sconosciuta persino a noi stessi e che spesso ci fa dire parole e compiere azioni che sfuggono al controllo della nostra consapevolezza e decisione – sarebbe di gran lunga quello più interessante e avventuroso che ci sia data la possibilità di compiere.
Altro che viaggi all’estero, in Africa e in Asia, nelle zone più esotiche del pianeta!
Dovremmo solo abbandonare le nostre difese psicologiche a farlo.
Superare i nostri timori e le nostre paure a diventare veramente noti a noi stessi.
E perfino un po’ più padroni in casa propria.
Cosa che rende le nostre resistenze, difese e paure (a intraprendere questo viaggio) davvero paradossali.
© Giovanni Lamagna
Verità e amore.
Arrendersi alla verità, alla “oggettività delle cose”, a quello che Freud chiamava “il principio di realtà”, è un po’ come arrendersi ad un amore.
Ecco perché molti hanno delle resistenze a farlo.
Perché la verità (come l’amore) irrompe nella nostra vita e la mette a soqquadro.
In alcuni casi la sconvolge dalle radici, le chiede una vera e propria conversione ad “u”.
© Giovanni Lamagna
La nostra ambivalenza nei confronti della pulsione sessuale.
Nel quarto capitolo de “Il disagio della civiltà” Freud elenca molti motivi che dimostrano la tendenza della civiltà a limitare la vita sessuale delle persone.
Mi pare però che non ne abbia elencato uno che a me sembra fondamentale e forse è addirittura quello principale.
A mio avviso nei confronti della pulsione sessuale gli esseri umani hanno un atteggiamento ambivalente.
Da un lato ne sono fortemente attratti; perché, “avendo sperimentato che l’amore sessuale (genitale) … procurava (loro) il massimo soddisfacimento”, arrivano a identificare nel piacere sessuale il modello di riferimento di ogni altro piacere; e quindi della stessa felicità; per cui tendono a porre “l’erotismo genitale al centro della vita stessa”. (p. 237; Bollati Boringhieri; 2019)
Dall’altro ne diffidano, ne hanno quasi timore e persino panico; proprio perché la pulsione sessuale è dotata di una tale forza (e, mi verrebbe di dire, persino violenza) che gli uomini evidentemente temono di esserne travolti, perdendo il controllo di sé stessi; col rischio paventato di dissiparsi e quasi disintegrarsi, psicologicamente, se non fisicamente.
Questo sembra spiegare, d’altra parte, perché, da sempre, “eros” è associato a “thanatos”.
E perché i francesi (ma non solo i francesi) denomino l’orgasmo con l’espressione “petit mort” (piccola morte), come a significare che nell’orgasmo il soggetto in qualche modo si dissolve, perde i suoi confini o quantomeno la consapevolezza di essi, esattamente come quando sopravviene la morte.
La conseguenza di questo asserto è – a mio avviso e sia detto a latere del ragionamento fin qui svolto – che l’ambivalenza nei confronti della vita sessuale può essere superata, forse, solo da chi ha instaurato un buon rapporto con la morte, da chi ha fatto pace con la morte.
E chi possiamo dire ha fatto pace con la morte?
Solo chi ad un certo punto della sua vita ha avuto il coraggio di guardarla bene in faccia e di accettare e amare la vita, nonostante la morte.
Anzi di godersi le gioie che la vita – pur alternandole a molte e indubbie sofferenze e persino angosce – è in grado di donare.
In altre parole, chi è in grado di godersi la vita nonostante l’incombere della morte.
In altre parole ancora, forse solo chi ha imparato ad affrontare la morte, il “timor panico” che si accompagna all’idea della morte, non avrà paura di abbandonarsi senza resistenze alla “piccola morte”, a quel “sentimento oceanico”, di pura estasi, che l’orgasmo comporta.
Al contrario chi, per una ragione o per l’altra, con l’idea della morte (e col “timor panico” che essa comporta) non ha ancora fatto i conti molto probabilmente avrà delle resistenze a vivere una vita sessuale senza troppe ambivalenze.
Anzi, in certi casi estremi e nevrotici, ne avrà persino un vero e proprio rifiuto.
Paradosso dei paradossi, visto che, come sostiene giustamente Freud, l’amore sessuale procura il massimo soddisfacimento possibile per un essere umano e che l’erotismo sessuale è normalmente associato all’idea stessa di piacere.
© Giovanni Lamagna
Alti e bassi in amore
A pensarci bene, che gli amori – anche i più grandi e potenti amori– soffrano di alti e bassi è – direi – un fatto fisiologico.
Perché un amore – allo stesso modo che una relazione terapeutica – mette in atto un transfert (un movimento di identificazione più o meno profonda con il partner), ma anche quello che potremmo definire un controtransfert (cioè un movimento che si oppone al transfert), dandogli in questo caso un significato diverso da quello che gli diede Freud.
Il rapporto con la persona amata – così come quello con lo psicoterapeuta – è dunque fatto (potremmo dire, quasi costitutivamente) di amore e odio.
Perché la persona amata ci costringe a guardarci più a fondo di quanto non eravamo abituati a fare da soli, a prendere atto (in maniera più chiara e consapevole di quanto non avessimo fatto fino ad allora) della nostra realtà psicologica (ovviamente imperfetta), e ci chiede (non esplicitamente il più delle volte, ma certe volte anche esplicitamente) dei cambiamenti.
E qui scattano molto spesso le nostre resistenze; che si manifestano attraverso forme di contrarietà, di conflitto, di aggressività, persino di odio, nei confronti del nostro partner, più o meno intense, a seconda della forza delle nostre resistenze al cambiamento, che ci viene, in modi – ripeto – più o meno espliciti, richiesto.
Perché la nostra natura è, per definizione, ambivalente: vuole cambiare, ambisce ad evolvere, a crescere, ad elevarsi (istanza biofila), ma allo stesso tempo non vuole cambiare, è affezionata a quello che è, trova più comodo e rassicurante farci restare immobili, fermi, protetti dalla tana delle nostre abitudini e dei comportamenti consolidati (istanza necrofila).
Persegue in molti casi l’utopia/illusione di poter cambiare senza cambiare nulla; e ciò ovviamente è fuori dalla realtà.
Mentre la presenza del nostro partner in amore ci ricorda continuamente il cambiamento necessario: in un certo senso egli è arrivato nella nostra vita proprio per questo, per segnalarci questa necessità e impedirci di continuare nell’inganno.
Come sarebbe, molto probabilmente, accaduto se non lo avessimo mai incontrato e come succederebbe se rompessimo la relazione che abbiamo instaurato.
Per questo, nel momento in cui il nostro partner ci chiede dei cambiamenti e noi non siamo ancora (o per nulla) disposti a realizzarli, diventiamo aggressivi nei suoi confronti o lo evitiamo, scappiamo, tendiamo a sfuggire la sua presenza.
Proprio come succede in psicoterapia, quando di fronte ai cambiamenti che ci vengono richiesti dallo sviluppo dell’analisi, scattano le nostre resistenze ed arriviamo (persino) ad odiare il nostro terapeuta, che ci rappresenta, ci pone davanti (spesso per il solo fatto di esserci) la prospettiva di cambiamento che dovremmo mettere in atto, se vogliamo sbloccare certi nodi che abbiamo dentro (magari da una vita) e vogliamo evolvere, andare avanti psicologicamente più spediti, sfuggendo alla cosiddetta, famosa “coazione a ripetere”.
© Giovanni Lamagna
Le fasi di un rapporto: nascita, crisi, rottura.
Ogni rapporto nasce per realizzare non una fusione (che sarebbe cosa impossibile e, forse manco auspicabile) ma almeno una integrazione dei percorsi di vita, un rimescolamento, negli auspici un arricchimento, delle identità delle due persone che si incontrano.
Quando questa integrazione non riesce (perché una delle due persone – o tutte e due – frappongono ostacoli e resistenze, faticano a mettere in discussione se stesse, non riescono in altre parole ad uscire dal loro ego individuale per realizzare un noi), il rapporto fallisce.
Si determina, allora, dopo la prima fase di apertura spontanea, caratterizzata a volte perfino da entusiasmo ed euforia, un allontanamento reciproco, che all’inizio è quasi impercettibile, poi gradualmente diventa sempre più vistoso, fino a giungere, in alcuni casi, anche alla rottura.
© Giovanni Lamagna
Cosa ci insegna la pandemia in corso
A me sembra che, al netto delle tantissime discussioni politiche e scientifiche che ci sono state in questi lunghi mesi, stringi, stringi la pandemia in corso voglia insegnare, a noi uomini di questo tempo confuso, incerto, caotico, due cose principali, essenziali:
1) stavamo correndo troppo, a ritmi che non erano e non sono consoni alla nostra natura, a ritmi che ci destabilizzano, ci nevrotizzano, sconvolgono i nostri equilibri mentali, affettivi, emozionali, perfino fisici; di qui l’invito, anzi il comando, l’imposizione, che ci vengono dalla crisi in corso: dovete rallentare; e per rallentare dovete fermarvi, anzi – in alcuni casi – chiudere proprio bottega, almeno per un po’;
2) presi dal senso di onnipotenza, che ci ha dato l’enorme progresso scientifico e tecnologico di questi ultimi due secoli, abbiamo come rimosso la consapevolezza della morte, abbiamo illusoriamente cancellato (quasi) ogni rapporto con essa, abbiamo smarrito quindi il senso della nostra finitudine e con questo il senso stesso della nostra vita, che – come dice Massimo Recalcati – è “contingenza illimitata”.
Sapremo cogliere questi due insegnamenti? La mia impressione al momento è che faremo di tutto per non apprenderli neanche questa volta, come ha dimostrato la sbornia estiva, dalla quale un po’ tutti, chi più e chi meno, ci siamo lasciati prendere e dalla quale solo ora ci stiamo – anche se angosciosamente – risvegliando.
E però ho la vaga impressione (non escludo sbagliata) che questa volta la Realtà sarà un po’ più dura della nostra “capa tosta”, cioè della nostra incapacità o non volontà di capire, che ci costringerà a sbattere più e più volte contro un muro che non vogliamo ancora vedere, che ci imporrà di cambiare le nostre abitudini al di là delle nostre buone o cattive intenzioni, delle nostre maggiori o minori consapevolezze.
E che, alla fine, dopo aver fatto moltissime e tenacissime resistenze, dovremo fare buon viso a cattivo gioco e “convertirci”, nostro malgrado, a un nuovo modo di vivere. E non perché saremo diventati più buoni. Ma semplicemente perché la Realtà non ci concederà più alternative, non ci offrirà più scappatoie; come invece, bene o male, ha fatto finora.
© Giovanni Lamagna
Le tre fasi principali di una psicoterapia
Una terapia psicologica, di qualsiasi natura e scuola essa sia, ha un suo protocollo, una sua procedura fondamentali, che sono essenzialmente simili, se vuole risultare efficace.
Essi sono fatti di alcune tappe essenziali, che ricorrono (ripeto) in ogni psicoterapia, che sia riuscita ad affrontare i problemi del soggetto in terapia e in qualche modo, nella misura umanamente possibile, a risolverli.
1).La prima tappa è quella di entrare in contatto col desiderio profondo del soggetto, di prenderne visione il più possibile piena, di portare quindi allo scoperto tutto ciò che fino ad allora era stato da lui(lei) rimosso, sotto l’oppressione di una Legge non scritta, ma ben presente, anzi conficcata, nella sua coscienza.
La prima tappa è, quindi, essenzialmente e per sua natura sovversiva, destabilizzante, di ribellione alla legge e di liberazione della libido, ovvero del desiderio profondo.
In questa fase la psicoterapia è (e non può non esserlo) essenzialmente trasgressiva. Il “paziente” che non riesce a compiere questa trasgressione si ferma subito, fallisce la sua analisi; ancor prima di cominciarla.
Egli può affrontare questa prima fase (a dire il vero, anche le altre due, ma soprattutto questa prima fase) solo grazie al sostegno del suo terapeuta, che è (diventa) per lui(lei) un nuovo padre e una nuova madre, grazie al famoso meccanismo del transfert, per cui il paziente trasferisce sul suo terapeuta tutti suoi desideri e le paure/resistenze che contrastano con questi desideri.
2) La seconda tappa è quella di guardare in faccia fino in fondo la Legge che fino ad allora opprimeva il desiderio, gli impediva di affiorare, gli impediva perfino di riconoscersi.
E’ questo un percorso che potremmo definire autobiografico, che mira a ricostruire le fasi attraverso le quali si è costituita la Legge nel corpo, nel cuore e nella mente del soggetto in analisi.
Questo percorso non può non riandare alla prima infanzia, alla fanciullezza e poi all’adolescenza del soggetto, alle sue figure primarie di riferimento: in primis ai suoi genitori o, in assenza, alle eventuali figure sostitutive di questi.
Per ricostruire e riconoscere il tragitto attraverso il quale è venuta a costituirsi la Legge, che ha oppresso ed, in alcuni casi, addirittura castrato, annullato, ucciso il desiderio.
In questa fase il soggetto impara ad esercitare il suo discernimento, a distinguere ciò che è giusto ed è sano, perché ha un fondamento razionale, della Legge che gli è stata autoritariamente inculcata (quindi da accettare) e ciò che è falso, insano, perché irrazionale, immotivato, inutilmente castratore del desiderio (quindi da respingere e rifiutare).
3) Così un poco alla volta inizia la terza ed ultima fase dell’analisi, quella che si spera la concluda positivamente.
Il soggetto, dopo aver visto e riconosciuto il suo Desiderio, dopo aver sfidato la Legge esterna, quella che gli era stata imposta da autorità esteriori, si rende conto che la Realtà, il Mondo esterno gli pone di fatto dei limiti, pone dei limiti al suo desiderio.
Prende consapevolezza, dunque, che il suo desiderio non è e non può essere onnipotente, ma che deve confrontarsi con la dimensione del Limite, questa volta reale e non fantasmatico.
E allora comincia a porre dei confini ai suoi desideri, che tenderebbero a debordare, a diventare assoluti, cioè sciolti da ogni limite.
In questa operazione o fase la Legge rinasce e si oppone al Desiderio, ma è una Legge ben diversa dalla Legge alla quale il soggetto si era ribellato nella prima fase dell’analisi: non è più una Legge esterna, esteriore, dettatagli dagli Altri, ma è una Legge tutta interna, interiore, che si dà lui stesso e autonomamente.
Se questa operazione va a buon fine, nel senso che Desiderio e Legge finalmente si incontrano (non più scontrano) e fanno pace, allora l’analisi può dirsi conclusa.
Anche se l’analisi, come dice Freud in uno dei suoi ultimi libri, nello splendido “Analisi terminabile e interminabile”, non può mai dirsi veramente conclusa.
Essa dovrà anche in seguito alla conclusione della psicoterapia affrontare altri momenti dialettici di scontro tra Desiderio e Legge, tra i quali la ricomposizione/pacificazione non sarà mai raggiunta una volta e per tutte.
Con la conclusione dell’analisi il soggetto avrà però appreso il metodo, il modo per affrontare i nuovi problemi e i nuovi momenti di inevitabile e mai del tutto risolta conflittualità.
Momenti che ci si augura avranno perciò caratteristiche meno drammatiche e violente della prima volta in analisi.
© Giovanni Lamagna
Paura e desiderio nei rapporti
21 maggio 2015
Paura e desiderio nei rapporti.
Ci sono persone che nei rapporti (anche e, forse, specie in quelli più significativi) passano più tempo e consumano più energie a schivarsi, a nascondersi, a fuggire dall’altro che ad aprirsi, a mettersi in gioco, a farsi mettere in discussione dall’altro.
E lo fanno in diversi modi, tutti tipici, sintomatici, abbastanza trasparenti per chi ha l’occhio appena un po’attento e addestrato a riconoscerli: evadono discorsi appena iniziati, quando diventano un poco più approfonditi e impegnativi; parlano di altro o di altri e non di sé o di quello che riguarda il rapporto in cui sono coinvolti; si danno impegni (per carità, encomiabili, altruistici, generosi) a volte perfino faticosi e impegnativi, ma non hanno mai (o quasi mai) tempo da dedicare a momenti più piacevoli e rilassati di intimità (ad esempio, sessuale).
Queste persone nel rapporto utilizzano sempre (o quasi sempre) una maschera o (peggio) una corazza, per cui si mantengono sempre a una certa distanza (potremmo dire di sicurezza), in modo da non essere coinvolti mai fino in fondo, da non mettersi mai completamente a nudo.
Non sanno cosa si perdono!
Verrebbe da chiedersi, allora, perché continuano a stare nel rapporto, ad essere interessate ad esso, perché ne avvertano il bisogno (a volte perfino ossessivo e compulsivo), se poi (come istanza fondamentale) se ne difendono, in qualche modo se ne tengono a distanza.
La risposta sta, secondo me, nel fatto che il rapporto (anche questo tipo di rapporto) comunque corrisponde a un bisogno, se non a un vero e proprio desiderio: il bisogno di sicurezza, di protezione, di compagnia, di vicinanza, di conferma, di rassicurazione, di riconoscimento, di esorcizzazione della paura della solitudine.
Ovviamente, ridotto solo a questo, non soddisfa l’altro bisogno implicito che c’è in ogni rapporto: il bisogno della scoperta, della ricerca in comune, dell’arricchimento reciproco, della crescita di sé attraverso l’altro, del cambiamento e dell’innovazione.
Ogni rapporto, infatti, oltre che dare rassicurazione (anzi proprio perché dà rassicurazione) contiene in sé anche una sfida implicita: la sfida ad uscire dal proprio guscio, dalla propria corazza protettiva, a gettare la maschera, alla ricerca del proprio Sé più vero, a trasgredire (nel senso letterale dell’andare oltre), a non accontentarsi di ciò che si era e di ciò che si è.
Ecco cosa si perdono le persone che nel rapporto si rintanano, come in una cuccia, invece di trovare il coraggio e l’energia per uscire allo scoperto: rinunciano alle avventure, alle scoperte (e, quindi, alle gioie) sempre nuove che la vita non mancherebbe certo di offrire loro, se vincessero le paure che le attanagliano, che le paralizzano.
Alle volte (mi verrebbe di dire: spesso) i nostri rapporti non ci aiutano e non ci spingono a superare queste paure, ma anzi le confermano, le cronicizzano, talvolta addirittura le consolidano, acuiscono.
Ci andiamo a cercare le persone che, anziché aiutarci e stimolarci in un cammino di crescita e di liberazione, fanno proprio il contrario: ci confermano, ci fermano, ci “fissano” nei nostri antichi complessi, mantenendo aperte (anziché guarirle) e, in certi casi, addirittura aggravandole le nostre antiche ferite.
Alle volte facciamo questo addirittura con la scelta del nostro terapeuta. Ci andiamo a cercare un terapeuta che, anziché prenderci di petto e “aggredire” i nostri problemi, le nostre nevrosi, ci gira attorno senza mai coglierne il cuore, asseconda in questo modo le nostre difese e le nostre resistenze, ne diventa complice, invece di aiutarci, stimolarci a “vederle” e a liberarcene.
Agisce (solo) come una madre amorevole e premurosa: ci “accarezza” , ci conforta, ci rassicura, ci conferma (tutto è ok!), ci dà (finalmente!) l’affetto che ci è sempre mancato e che non riusciamo a trovare fuori (dal setting terapeutico).
Per cui la terapia diventa una lagna infinita e interminabile. Un rimestare continuo, senza nessun costrutto ed elaborazione reali, gli antichi vissuti. Una terapia sostanzialmente inutile, anzi (forse) persino dannosa.
In questo caso i rapporti (anche quello psicoterapeutico) realizzano la loro funzione, il loro “compito”, solo a metà. Sono rapporti in cui prevale (o è presente solo) la dimensione materna, privi o poveri della dimensione paterna.
Sono rapporti, quindi, monchi, bambini, che non riescono a crescere, a realizzare tutto il loro potenziale.
Giovanni Lamagna