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Legge di castrazione e processo di soggettivazione.

Ogni processo di soggettivazione (in altre parole: la nascita e la crescita di un soggetto adulto) ha origine – come ci ricorda Massimo Recalcati – da un lutto.

Cioè dalla presa d’atto (dolorosa, frustrante) che il nostro desiderio (innanzitutto quello sessuale) non può essere soddisfatto dal nostro genitore di sesso opposto, a causa della legge di castrazione (tradotto: divieto) che ci viene imposta dal genitore del nostro stesso sesso.

Grazie alla castrazione (ovviamente simbolica) e alla elaborazione del lutto che ne consegue ciascuno di noi ha la possibilità di nascere come soggetto, che a questo punto cerca altrove – in un luogo diverso da quello materno o paterno – la soddisfazione/gratificazione del proprio desiderio.

© Giovanni Lamagna

Psicologicamente adulti e fisicamente adulti.

Diventare psicologicamente adulti è cosa ben diversa e distinta dal diventare fisicamente adulti.

Significa sganciare il proprio desiderio dal desiderio dell’Altro, non dipendere più dal desiderio dell’Altro, non far coincidere in maniera simbiotica il proprio desiderio col desiderio dell’Altro.

Come tende a fare, invece, il bambino, anche quando pronuncia dei “no”, che sono espressioni di capriccio e non di vera autonomia/indipendenza.

Il bambino, infatti, dipende totalmente (fisicamente e psicologicamente) dal desiderio dell’Altro; in primis da quello dei suoi genitori o di figure altre, che in questo caso diventano sostitutive di quelle genitoriali.

© Giovanni Lamagna

Parola scritta e crescita umana.

“Se il linguaggio è un trauma per l’uomo perché lo separa dalla propria esistenza immediata e naturale – aliena la vita animale nella vita umana – …” e se “… la parola è un trauma per il linguaggio perché introduce nel campo universale e anonimo del Codice della lingua l’elemento assolutamente singolare ed evenemenziale della parola…” (Massimo Recalcati; “Le nuove melanconie”; pg. 136), ho l’impressione che l’invenzione, l’uso, l’apprendimento, la pratica della parola scritta costituiscano un ulteriore trauma (positivo) per il singolo soggetto e per il genere umano nel suo complesso.

Perché la parola scritta lo “costringe” ad oggettivare il suo pensiero e, quindi, a prendere ancora più consapevolezza di sé stesso, mettendo una distanza ancora maggiore tra sé stesso e l’Altro da sé, come nessuna parola semplicemente orale riesce a fare.

Non a caso con l’invenzione della parola scritta diciamo che inizia la storia; quella che la precede, quando dominava la sola parola orale, è solo preistoria.

Con l’invenzione della parola scritta l’Uomo fa un’ulteriore e significativo balzo in avanti nella sua evoluzione dalla vita animale a quella umana.

Con l’apprendimento della scrittura il singolo uomo fa un ulteriore balzo in avanti nel suo processo di crescita; non solo intellettuale, ma umana nel suo complesso.

© Giovanni Lamagna

Genere umano e “branchi”.

Ognuno di noi è portato a riconoscersi in un certo tipo di persone e a non riconoscersi in altre.

Ci sono caratteristiche (spesso del tutto inconsce) che ci accomunano a certe persone e ci rendono distanti (a volte molto distanti) da altre.

Gli esseri umani tendono, quindi, a formare tantissimi, svariati sottogruppi (più o meno estesi) all’interno dell’unico gruppo che costituisce il genere umano.

Più o meno allo stesso modo col quale gli animali tendono a formare branchi, talvolta (anzi spesso) in lotta (a volte anche feroce) tra di loro.

© Giovanni Lamagna

Felicità e sicurezza.

Freud, ne “Il disagio della civiltà”, ha fatto un’affermazione, che è diventata famosa: “L’umanità ha sempre sacrificato una parte della sua felicità per un poco di sicurezza in più”.

Io, personalmente, rinuncerei volentieri ad una parte almeno delle mie confortevoli sicurezze per godere di un poco di felicità in più.

Credo che la maggioranza degli uomini si accontenti di un livello di felicità inferiore a quello che sarebbe alla sua portata, per garantirsi un livello di sicurezza eccessivo, esagerato.

E, quindi (in fondo) anche inutile, superfluo.

© Giovanni Lamagna

Noi e le idee.

Non bisogna inseguire troppo i pensieri, le idee.

Anche quelli che per un attimo ci sono apparsi e poi un attimo dopo si sono dileguati, come scomparsi nel nulla.

Meglio non farsi prendere dall’ansia, meglio attenderli, aspettare che siano essi a venire da noi.

Tanto, se sono pensieri che hanno un vero valore (almeno per noi), prima o poi ritorneranno, riaffioreranno dal buio della dimenticanza.

“Il rimosso ritorna sempre”.

© Giovanni Lamagna

Il figlio e l’eredità del padre, l’allievo e la lezione del maestro.

Di fronte ad un padre che ci lascia la sua eredità (materiale o simbolica), di fronte ad un maestro che ci lascia la sua lezione (teorica e di vita), bisogna, certo, accettare, accogliere, incamerare, introiettare con gratitudine, riconoscenza, sia l’una che l’altra.

Ma il figlio giusto e l’allievo giusto non si fermano a questo.

Il figlio giusto non deve semplicemente mettere in cassaforte “l’eredità” ricevuta, con il rischio di farla deprezzare, ma deve piuttosto investirla e farla fruttare, moltiplicare, con un interesse, un profitto.

L’allievo giusto deve in qualche modo “tradire” la lezione appresa, elaborandola, modificandola, rettificandola, per trasmetterla a sua volta come “sua e nuova” lezione, facendosi maestro di altri allievi.

© Giovanni Lamagna

Il principale compito dell’uomo.

Penso che il compito più importante per ogni uomo, per ciascuno di noi, sia quello di passare da uno stato di sostanziale incoscienza ad uno stato di sempre maggiore coscienza.

In fondo che cos’è l’età evolutiva, ovverossia il percorso che dall’infanzia ci conduce alla fanciullezza e poi, attraverso l’adolescenza, alla giovinezza e infine all’età adulta, se non un graduale passaggio da uno stato di sostanziale incoscienza ad uno stato di coscienza matura?

Il problema è che per la maggior parte degli uomini questo percorso evolutivo si arresta ad un certo punto, quando si raggiunge la cosiddetta “età adulta”, in buona sostanza quando si finiscono le scuole o (per chi ci arriva) l’Università.

Come se esso consistesse semplicemente o principalmente in un percorso conoscitivo, cioè di acquisizione di conoscenze che ci vengono dall’esterno.

Mentre esso dovrebbe essere in primo luogo e fondamentalmente un percorso di crescita nella consapevolezza di sé.

Percorso che indubbiamente ha bisogno anche della conoscenza, cioè dell’apprendimento di nozioni esterne, il cosiddetto patrimonio culturale che l’Umanità ha acquisito fino al momento in cui siamo venuti al mondo.

Ma ancora di più abbisogna di “virtute”, della capacità di accompagnare la conoscenza alla virtù, cioè al saper vivere.

Come giustamente ci ha insegnato il nostro padre Dante: “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza” (“Divina commedia”, Inferno; XXVI, vv.119-120).

E cos’è la virtù se non la capacità di discernere il bene dal male, ovverossia il corretto vivere, il “buen vivir”; una sempre maggiore consapevolezza (e non solo conoscenza), una sempre maggiore capacità di vigilanza, di essere presenti a sé stessi?

Dicevo prima che solitamente questo percorso di crescita nella conoscenza e nella consapevolezza per la maggior parte degli uomini si conclude, nella migliore delle ipotesi, alle soglie della maturità, quando finisce la loro giovinezza.

Mentre, invece, dovrebbe continuare all’infinito; o, meglio, fino all’ultimo giorno della nostra vita.

Cosa che solo in pochi, in genere, comprendono e – ancora di meno – si impegnano a fare.

Lo fanno i filosofi (e neanche tutti i filosofi accademici, ma solo i filosofi che amano davvero la sapienza, che sanno cioè unire, intrecciare, vita e conoscenza), lo fanno gli artisti (perlomeno alcuni artisti, almeno in alcuni momenti della loro vita), lo fanno soprattutto e più di tutti i mistici.

Lo fanno, infine, coloro che vanno in analisi e, quando, hanno finito l’analisi continuano con l’autoanalisi, che per sua natura (come diceva Freud) è “interminabile”; e che, quindi, a mio avviso, un poco mistici sono anche loro.

Cos’è, infatti, il percorso mistico se non un percorso che porta sempre più luce dove prima c’era l’ombra, che rende l’inconscio sempre più conscio (qui la lezione di Jung è fondamentale), che da uno stato di sonno o di dormiveglia ci porta sempre più in uno stato di veglia e di vigilanza piena?

Poca importanza poi ha per me il fatto che il mistico abbia fede o no in una realtà metafisica, trascendente, che nella Storia ha assunto il nome di Dio.

Ci sono, infatti, credenti in Dio che non sono per nulla mistici, che non sanno manco lontanamente cosa sia la mistica, che non ne hanno nessuna esperienza diretta e personale.

E ci sono, invece, agnostici e persino atei che sono profondamente mistici, perché alla continua ricerca del contatto col mistero che è dentro di loro e fuori di loro, nel mondo che li circonda.

Einstein, ad esempio, era uno di questi.

E, infatti, ebbe a dire una volta in un discorso tenuto a Berlino e diventato famoso:

“L’esperienza più bella e profonda che un uomo possa avere è il senso del mistero: che è il principio sottostante alla religiosità così come a tutti i tentativi seri nell’arte e nella scienza.

Chi non ha mai avuto questa esperienza mi sembra che sia, se non morto, almeno cieco.

È sentire che dietro qualsiasi cosa che può essere sperimentata c’è qualcosa che la nostra mente non può cogliere del tutto e la cui bellezza e sublimità ci raggiunge solo indirettamente, come un debole riflesso.

Questa è la religiosità, in questo senso sono religioso.”

Ecco allora qual è, a mio avviso, il compito più importante che è davanti all’uomo, che aspetta di essere da lui realizzato!

Entrare sempre più in contatto con il mistero della vita e coglierne qualche sia pur piccolo frammento.

Questo compito non poteva essere espresso meglio da come lo ha descritto Einstein; io sottoscrivo le sue parole una ad una.

© Giovanni Lamagna

Quando ho compreso fino in fondo una cosa?

Posso dire di aver compreso veramente, fino in fondo, una cosa solo quando essa mi appare in una forma chiara e distinta.

E, ancora di più, quando sono in grado di comunicarla agli altri con parole mie chiare e distinte.

© Giovanni Lamagna

La “Verità”.

La “Verità” in sé è irraggiungibile.

Ne possiamo cogliere solo dei pallidi riflessi.

Allo stesso modo per cui la nostra vista non può sostenere direttamente e a occhio nudo la luce del sole.

Per fissarla deve ripararsi con delle lenti colorate o limitarsi a vederne la luce, che il sole emana, riflessa sulle cose.

I nostri occhi non potranno mai guardare in faccia il sole: ne resterebbero accecati.

Allo stesso modo la nostra mente non potrà mai cogliere “la Verità” nella sua interezza e integrità.

Il che non vuol dire che la Verità non esista.

Il punto è che la possiamo cogliere solo per approssimazione.

© Giovanni Lamagna