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Piccola recensione del libro “Tu, un secolo” di Raffaele La Capria (Mondadori 2022)

Che cosa mi ha portato a leggere questo libro?

Essenzialmente la figura del suo autore, di cui onestamente ho letto pochissimo, ma di cui ho sentito parlare molto e che una volta ho pure conosciuto di persona ad un incontro letterario che si svolse alcuni anni fa a Napoli a villa Pignatelli.

Mi sono fatto l’idea che La Capria fosse un uomo non solo di grande cultura, non solo di notevole capacità letteraria, ma anche di grande umanità.

Un uomo che ha avuto una vita particolarmente felice, segnata da una fanciullezza vissuta nello storico palazzo Donn’Anna, affacciato sul mare, così vicino al mare che egli era solito quasi ogni giorno, nella “bella stagione”, tuffarvisi direttamente dal suo balcone.

Il libro è una raccolta di lettere indirizzate allo scrittore da suoi amici, per la massima parte letterati come lui; qualche lettera è anche sua.

Dalle lettere emanano i sentimenti di grande affetto, amore, che in certi casi rasentano la venerazione, degli autori nei confronti di La Capria.

Si evidenzia anche un certo snobismo, tipico delle elite intellettuali, accompagnato però sempre a sobrietà e, tutto sommato, a semplicità e verità.

Mi ha fatto piacere leggerlo, incontrarlo; è stato come aver conosciuto direttamente la persona, l’uomo Raffaele La Capria: una gran bella persona!

© Giovanni Lamagna

Sul senso religioso della vita.

Ho già sostenuto altre volte la mia ferma convinzione che o come Umanità nel suo complesso (quantomeno, nella sua larga maggioranza) recuperiamo il senso religioso dell’esistere e, quindi, un atteggiamento religioso verso la vita, oppure andremo a sbattere di brutto e ci sfracelleremo, andremo incontro – presto o tardi (a mio avviso, più presto che tardi) – ad una sorta di suicidio collettivo.

Ho altresì già avuto modo di chiarire che, quando parlo di “senso religioso dell’esistere” non mi riferisco tanto (o perlomeno non solo) al sentimento di fede professato dalle religioni classiche e tradizionali, fede cioè nell’esistenza di una Entità metafisica, ultraterrena, e in una seconda vita (questa volta eterna) dopo la morte.

Ma mi riferisco piuttosto a quel sentimento religioso di cui parlava anche Einstein quando affermava: “La religione del futuro, sarà una religione cosmica. Trascenderà il Dio personale e lascerà da parte dogmi e teologia. Abbracciando insieme il naturale e lo spirituale, dovrà essere fondata su un senso religioso che nasce dall’esperienza di tutte le cose, naturali e spirituali, come facenti parte di un’unità intelligente.”

Qui vorrei pertanto meditare su che cosa sia concretamente, in termini del tutto laici e quindi esclusivamente psicologici e per niente teologici, l’esperienza di questo sentimento religioso, a quali atteggiamenti interiori e comportamenti esteriori esso corrisponda, per rintracciare ed evidenziarne le caratteristiche principali.

Prima di iniziare questa riflessione vorrei però chiarire anche una seconda cosa e, subito, in premessa: quando io parlo di senso religioso dell’esistenza, mi riferisco a qualcosa che ha a che fare più con la sfera dei sentimenti che con quella delle idee, più col cuore che con la testa.

In altre parole il sentimento religioso è per me, come tutti i sentimenti del resto, qualcosa di prerazionale o di arazionale, che nulla o ben poco ha a che fare con la ragione.

Credo che la ragione non lo possa contraddire, smentire, delegittimare; non è quindi un sentimento irrazionale o, addirittura, isterico, nevrotico, folle; ma credo che non lo possa manco avvalorare, allo stesso modo di come avvalora, dimostra, in maniera inconfutabile, una scoperta scientifica o, perfino, una “verità” filosofica.

E’ piuttosto (come ho già accennato in precedenza) un’esperienza, che si impone (o non si impone) all’uomo (o, meglio, ad alcuni uomini) con una sua evidenza apriori e non richiede quindi dimostrazioni di tipo razionale.

Può imporsi ben presto, sin dall’infanzia, quando il bambino nasce e cresce in un ambiente caratterizzato da un senso religioso dell’esistere; in questo caso tale sentimento il bambino lo assorbirà molto probabilmente dalla famiglia in cui è nato e cresciuto e dal contesto fisico, sociale e culturale che lo circonda.

O può imporsi ad un certo punto della vita, a causa di circostanze, esperienze e fattori, in genere molto forti, quasi al limite del trauma (anche se qui il trauma è da intendersi in senso positivo), che determinano una metanoia, una conversione, quindi un cambiamento radicale del modo di vedere e di vivere, della persona che ne è oggetto.

Una parola che di solito definisce questa sorta di trauma è quella di “grazia”: l’uomo raggiunto e trasformato da questa esperienza non ne ha nessun merito; comincia a sperimentare il sentimento religioso per una sorta di destino a lui benigno, senza che egli abbia fatto niente o molto poco per meritarlo; quindi per una “grazia ricevuta”.

Ovviamente (sia ben chiaro!) qui, per me, il termine “grazia” non ha e non vuole avere nessuna connotazione miracolistica e soprannaturale; per come la intendo io è una esperienza del tutto umana, terrena, laica; che ad alcuni uomini viene donata, offerta, regalata, e ad altri no (perciò “grazia”); anche se il clima psicologico, ambientale, in cui il soggetto, che ne viene raggiunto, è cresciuto, è stato allevato, certamente la favorisce, la predispone.

E veniamo finalmente al dunque: quali sono allora le caratteristiche essenziali di questo sentimento religioso, attorno alla cui definizione sto girando già da un bel po’ di parole e di frasi, senza averla però ancora articolata e resa chiara, per quanto sia possibile rendere chiara un’esperienza che si può cogliere nella sua essenza solo nella misura in cui la si esperimenta direttamente come singolo, come persona?

Cerco qui di seguito di indicarne alcune in maniera il più possibile chiara e perfino schematica.

1.La prima, anzi la più essenziale, caratteristica è data, a mio avviso, da quello che potremmo definire un sentimento di fiducia di base nella vita.

Quel sentimento che ci porta a pensare e a dire, se non sempre, almeno nella maggior parte delle nostre giornate, che la vita – nonostante tutto, nonostante i suoi dolori (fisici e spirituali), le sue paure, le sue angosce, i suoi fantasmi, che a volte ci assalgono – vale la pena di essere vissuta.

Ciò detto, si potrebbe pensare allora che tale sentimento di fiducia di base possa essere sperimentato e vissuto solo da coloro che la fortuna ha voluto godessero di una buona salute fisica e di una situazione esistenziale esteriore tutto sommato agiata, favorevole, in grado di soddisfare almeno i loro principali bisogni, quelli primari: il cibo, una casa, un lavoro, degli affetti, una buona salute fisica…

Ma l’osservazione, anche superficiale, dell’umanità che ci circonda ci dice invece che una tale supposizione non è del tutto vera; perché ci sono persone che nascono con malattie congenite, anche gravi, oppure si ammalano seriamente ad un certo punto della loro vita, persone che vivono in situazioni logistiche e materiali difficili, a volte estremamente precarie, ai limiti della sopravvivenza, e che però hanno voglia e desiderio di vivere, hanno una innata fiducia nella vita.

Mentre ce ne sono altre, alle quali apparentemente non è mancato e non manca nulla o, perlomeno, non sono mancate e non mancano le cose principali, e che però, al contrario delle prime, in teoria meno fortunate, non godono dello stesso desiderio e della stessa gioia di vivere; sono afflitte in altre parole da una sfiducia più o meno grave nell’esistenza, soffrono del male di vivere, non vedono luce nella loro vita, vivono in uno stato di fondamentale cupezza e depressione interiore.

Questo premesso, le prime sono per me persone predisposte a vivere il senso religioso dell’esistenza e spesso lo sperimentano come se fosse una condizione naturale, ovvia, scontata; le seconde no, non sanno manco dove stia di casa; anzi si meravigliano, stupiscono che altri possano viverlo e, perciò, molto spesso li irridono, quasi fossero vittime di un atteggiamento superficiale, irrazionale, alienante, illusorio, infantile, in altre parole nevrotico (Freud, ad esempio, fu una di queste persone).

2. La seconda, fondamentale, caratteristica di quello che io definisco “il senso religioso dell’esistenza” è data dall’atteggiamento di cura, potremmo anche dire di custodia, del sentimento di fiducia di base nella vita.

Questo sentimento, infatti, non è qualcosa che si può dare come scontato “vita natural durante”, una volta che lo si è sperimentato.

Una persona può nascere e vivere i suoi primi anni di presenza nel mondo con questo sentimento e poi perderlo ad un certo punto della sua vita; perderlo come, appunto, si perde (o si può perdere) la fede, quella che comunemente chiamiamo “fede in Dio” e che io invece chiamo molto più semplicemente e laicamente “sentimento di fiducia di base nella vita”.

E’ un sentimento, che, come ho già detto, viene ricevuto per grazia, quindi senza alcun merito, ma che va però curato, coltivato, perché esso si mantenga vigoroso e vitale, anche in mezzo alle prove a cui inevitabilmente il cammino della nostra esistenza ci sottoporrà.

Altrimenti è destinato a perdersi, ad essere smarrito.

E come va custodito? Con un atteggiamento di raccoglimento interiore, che accompagnerà tutte le nostre azioni e i nostri movimenti nel mondo.

Lo stesso, immagino, che caratterizzò Maria, la madre di Gesù, a partire dal messaggio dell’angelo che le annunciò la prossima nascita del figlio: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Vangelo di Luca; 1, 38).

Quello stesso atteggiamento che la caratterizzerà dopo la visita dei pastori alla mangiatoia, nella quale Gesù era nato, che, esultanti, “riferirono ciò che del bambino era stato detto loro” (Vangelo di Luca; 2, 17): “ed ella custodiva tutte queste cose, meditandole in cuor suo” (Vangelo di Luca; 2, 19).

Infatti, per vivere, sperimentare, il senso religioso della vita, non basta averlo ricevuto in dono, come grazia e senza alcun merito, ad un certo punto della propria esistenza, ma bisogna essere capaci, in seguito, dopo il momento di illuminazione iniziale, di averne cura, di mantenerlo in essere e anzi, possibilmente, farlo crescere.

Altrimenti esso è destinato gradualmente a spegnersi, rifluire, e, infine, fatalmente morire.

3. A questo punto occorre allora chiedersi: quali sono le condizioni per non disperdere questo sentimento, che ad un certo punto, lo ripeto: per grazia ricevuta, ci ha raggiunto?

La prima è quella di mantenersi in contatto con la voce interiore cha ha cominciato a parlarci, quando questo sentimento ci si è manifestato la prima volta.

In ciascuno di noi, infatti, esiste un Altro da sé, quello che qualcuno ha chiamato “il vero Sé”, una sorta di Maestro interiore, che è in grado, se ci mettiamo nella disposizione giusta, che è quella dell’ascolto, di indicarci la strada da seguire, quella più adatta alle nostre inclinazioni e alla nostra natura, quella che ci permetterà di realizzare, se la seguiremo, le nostre potenzialità, cioè i talenti di cui Madre Natura ci ha dotato.

Spesso noi manco sappiamo dell’esistenza di questa Realtà interiore, presi come siamo dal tran tran quotidiano, dal chiasso che ci circonda, dalla folla alla quale tendiamo nella maggior parte dei casi a conformarci, come fanno le pecore col loro gregge.

Se però abbiamo la fortuna di venirci in contatto e impariamo ad ascoltarne la voce, dapprima molto fioca e sottile, poi un poco alla volta sempre più chiara e distinta, capiamo, ci rendiamo conto di aver ricevuto un’enorme grazia e allora ci impegneremo a non mollarla più, a seguirne sempre più fedelmente i consigli e la guida.

4. La seconda condizione è molto legata alla prima, anzi ne è la premessa; è quella di imparare ad apprezzare il silenzio e la solitudine, almeno in alcuni momenti della nostra vita, e dedicare ad essi con costanza una sorta di rituali quotidiani, isolandoci dalla folla e dal chiasso, che di solito, almeno oggi, circonda la nostra vita.

Chi ha paura della solitudine e del silenzio, chi è incapace di sottrarsi ai rumori e a volte al vero proprio frastuono delle relazioni, dei mass media, dei contatti sui social, ben difficilmente riuscirà a mantenersi in contatto con la voce interiore – quand’anche ad un certo momento, si fosse da lui fatta sentire – e di coltivare, quindi, il senso religioso del vivere.

5. Ovviamente la pratica religiosa (anche se intesa nel senso che sto qui descrivendo) non è fatta solo di contemplazione, ovverossia di contatto e relazione col proprio mondo interiore; per quanto questa ne sia la condizione basica.

La pratica religiosa richiede, infatti, scelte e modi di agire, che comporteranno uno stile di vita, anche esteriore, che sia conseguente, coerente col proprio vissuto interiore.

Richiede una vera e propria “metanoia”, cioè la conversione ad un modo di vivere completamente diverso da quello che caratterizza la gran parte degli uomini che questo senso religioso del vivere non ce l’hanno.

Richiede la scelta di valori morali e sociali radicalmente alternativi a quelli comuni e normalmente diffusi.

6. Quali?

Innanzitutto un distacco dai beni materiali.

Non nel senso (come una certa – per me cattiva – ascesi tende a consigliare) della rinuncia radicale a tutti i beni materiali, di qualsiasi natura essi siano, in favore di una povertà assoluta.

Ma nel senso di una pratica della sobrietà, cioè del non attaccamento ai beni materiali e, soprattutto, della non avidità nella loro conquista e possesso.

La sobrietà, in altre parole, come il punto di giusto equilibrio tra la rinuncia assoluta ai beni in favore della povertà e l’avidità smodata dei beni in cerca della ricchezza.

L’uomo religioso per definizione non ambisce alla ricchezza, anche se non per questo ama o predilige la povertà.

L’uomo religioso vive una vita materiale in condizioni di sobrietà.

7. La pratica religiosa richiede altresì un certo distacco non solo dai beni materiali, ma anche dagli affetti e dalle passioni.

Non certo nel senso della rinuncia a sperimentare i sentimenti della fraternità, dell’amicizia e dell’amore erotico.

Ma nel senso di non farsi da essi dominare e travolgere in nome della brama di possesso, che genera fatalmente gelosie e invidie, sentimenti oltremodo tossici e ben poco spirituali.

L’uomo religioso è per me colui che è in grado di sperimentare pienamente e caldamente tutta la gamma dei sentimenti umani verso i suoi simili, ma non si attacca alle persone e non mira a che esse si attacchino a lui.

E’ in grado in altre parole di sperimentare la singolarità e allo stesso tempo l’universalità dei rapporti con gli altri suoi simili; senza farsene ingabbiare e monopolizzare; ma allo stesso tempo in maniera calda e profonda.

8. La pratica religiosa richiede, infine, la rinuncia alla propria volontà egoica ed egocentrica, intesa come puro arbitrio e assoluta libertà di scelta, al di fuori di ogni limite e confine.

Nel senso reso bene da alcune affermazioni bibliche, che, ben interpretate, possono essere recepite anche da uno come me che intende dare al “sentimento religioso” una valenza del tutto laica e umanistica.

Ne cito solo due: “… sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.” (Vangelo di Giovanni; 6, 38); e “… non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.” (Paolo; Lettera ai Galati; 2, 20)

Beninteso questa decentramento della propria volontà non comporterà che l’uomo religioso si faccia schiavo di qualcuno o di qualcosa; richiederà però la consapevolezza profonda che egli non è la misura di tutte le cose e l’obbligo a rispondere e ad obbedire alla voce interiore, che ad un certo punto della sua vita lo ha raggiunto e che gli indicherà e illuminerà, momento per momento, la via da seguire.

9. In altre parole lo stile di vita dell’homo religiosus – anche nel senso del tutto laico (e spero sufficientemente chiaro) che qui ho inteso dargli – sarà caratterizzato da un senso di profonda umiltà, dedizione e devozione.

Umiltà nel senso di consapevolezza di non essere lui l’autore e il padrone del proprio destino, ma di esserne solo strumento o, tutt’al più, coautore.

Dedizione ai valori della fiducia, della speranza nel futuro (di cui si sentirà responsabile costruttore in prima persona) e dell’amore fraterno e universale.

Devozione alla chiamata e alla guida interiore costituite dal Maestro spirituale che lo abita e che abita ognuno di noi, anche se e quando non ne siamo consapevoli.

© Giovanni Lamagna

Saggezza, vita spirituale e ricchezze.

Nel suo libro “I quattro maestri” (Garzanti, 2020), Vito Mancuso afferma che “un rapporto libero con il cibo, con l’alloggio e in genere con la dimensione materiale della vita appare come una condizione essenziale per il conseguimento della saggezza e della profonda felicità che ne deriva.”

E questo vale per ciascuno dei quattro maestri che sono i protagonisti del suo libro: Socrate, Buddha, Confucio e Gesù.

Gesù si distingue, però, dagli altri tre, perché oltre a farsi, come loro, portatore di un messaggio di sobrietà e di distacco ascetico dai beni materiali in nome del superiore valore dei beni spirituali, predica, anzi tuona, duramente contro la ricchezza, perfino contro i ricchi; cosa che gli altri tre, invece, non fecero mai.

Sono famose alcune sue affermazioni e invettive: “E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio.” (Marco, 10, 25); “Guai a voi, ricchi!” (Luca, 6, 24).

Né Socrate, né Buddha, né Confucio ebbero – a detta di Mancuso – una tale concezione della ricchezza e lo stesso atteggiamento duro, sanzionatorio, di Gesù nei confronti dei ricchi.

E Mancuso, anche se non lo dice espressamente, sembra preferire la posizione meno radicale nei confronti della ricchezza e per niente dura nei confronti della persona dei ricchi, che ebbero Socrate, Buddha e Confucio.

Io, invece, opto per il radicalismo di Gesù. E non credo per moralismo o per una malcelata invidia nei confronti delle proprietà materiali dei ricchi.

Mi sono esaminato sotto questo aspetto e credo di poter dire che non sono il moralismo e l’invidia a farmi condividere il radicalismo e persino la durezza di giudizio di Gesù.

E’ piuttosto l’esperienza e l’osservazione della realtà che vedo attorno a me che mi porta ad affermare che ricchezza e vita spirituale sono incompatibili: non ho mai visto, infatti, un ricco, oserei dire addirittura che non ho mai visto un benestante, cioè una persona che ha un tenore di vita che va oltre la media, condurre una vera, profonda vita spirituale.

La ricchezza e, perfino, un eccessivo benessere materiale sono un ostacolo oggettivo (avrebbe detto Marx: “strutturale”) alla pratica di un’autentica, seria, profonda vita spirituale.

Realtà che trova conferma in un’altra affermazione attribuita a Gesù: “… là dove sono le tue ricchezze, lì sarà anche il tuo cuore.” (Luca, 12, 21).

Chi ha delle ricchezze materiali ha, infatti e direi inevitabilmente, lì il suo cuore. E, quindi, non ha spazio per altre ricchezze, le ricchezze spirituali.

Chi fa la scelta della vita spirituale, di dare cioè realmente il primato ai beni spirituali, come prima cosa lascia, se ne possiede, le sue ricchezze, si spoglia di esse.

Come, infatti e non a caso, Gesù suggerisce al giovane ricco: “Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”. (Matteo; 19, 21).

Ma – prosegue lo stesso versetto del Vangelo di Matteo – “Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze”.

Che è l’esatta, esistenziale, esperienziale, conferma di come ricchezza materiale e vita spirituale, ascetica, mistica siano del tutto incompatibili tra di loro.

© Giovanni Lamagna

Ricchezza, povertà, sobrietà (2).

Io auspico (e mi batto per) una società nella quale non ci siano più né ricchi né poveri, ma ci sia una eguaglianza sostanziale (e non solo formale), senza grosse differenze di reddito, tra i suoi membri.

Auspico anzi (e mi batto per) una società nella quale la ricchezza non sia più il valore e l’ambizione dominanti delle persone che ne fanno parte, ma sia egemone, invece, il valore culturale ed etico della sobrietà.

Come ci ha insegnato, in maniera esemplare, José Mujica, Presidente della Repubblica dell’Uruguay dal 1° marzo del 2010 al 1° marzo del 2015.

La rivoluzione necessaria è, quindi, per me non solo economica e sociale, ma anche (anzi prima di tutto) culturale.

© Giovanni Lamagna

Due modi di pensare

Ci sono due modi di pensare, due finalità e, quindi, modalità di utilizzo del pensiero, che, a pensarci bene, sono radicalmente diversi tra di loro.

Il primo è il pensiero logico, il pensiero che utilizza esclusivamente gli strumenti e il metodo della logica, della mente, dell’intelletto: è il pensiero che ragiona esclusivamente in rapporto a se stesso, in “splendido” isolamento (il pensiero matematico) o tutt’al più in rapporto con e osservando il mondo esteriore, esaminandolo freddamente, sezionandolo, riducendolo a frazioni, ad atomi, riunificandolo, sottoponendolo ad esperimenti (il pensiero delle scienze naturali).

Il secondo pensiero è quello introspettivo, che mira all’analisi di sé, o quello che io definisco contemplativo (Heidegger lo chiama “meditante”), che mira, guarda al mondo altro da sé, ma non per esaminarlo, sezionandolo, squadernandolo freddamente, bensì per comprenderlo, con sguardo sintetico, intuitivo e non analitico, e soprattutto restando in rapporto con il sé, senza cioè separarsi dalle altre dimensioni della psiche, ovverossia dalle emozioni, dai sentimenti, dagli affetti.

E’ (forse) questo il pensiero che muove l’artista (soprattutto il poeta) o che muove il mistico; e che dovrebbe muovere, a mio avviso, anche il filosofo; dovrebbe, ma non sempre lo fa nella realtà.

Perché molto spesso anche il filosofo o, meglio, il filosofo accademico, il filosofo delle scuole e delle Università, mi verrebbe di dire il “presunto filosofo”, il filosofo che vive la filosofia come una professione e non come una modalità dell’esistere, preferisce adoperare il primo e non il secondo tipo di pensiero.

Umberto Galimberti, nel suo libro “Heidegger e il nuovo inizio” (Feltrinelli; 2020), a me sembra dire (a pag. 28), con parole diverse, ma concettualmente affini, riferite in questo caso al filosofo tedesco di cui sta analizzando il pensiero, più o meno le stesse cose che ho inteso dire io poco sopra.

Infatti così scrive: “Rispetto al modo di pensare della metafisica occidentale, Heidegger ha modificato radicalmente e in modo sostanziale la nozione di pensiero, nel senso che, dopo di lui, pensare assume un significato diverso da quello che ha sempre avuto nella metafisica che ha governato il pensiero dell’Occidente. Si tratta, infatti, di un pensiero che rovescia le prescrizioni di quella logica che va alla ricerca di fondamenti scientifici o di fondi a disposizione per l’operare tecnico.

Heidegger addirittura parla di un “abisso” che divide i due modi di pensare, che abitano due regioni totalmente diverse, tra le quali non è possibile costruire alcun “ponte”: “l’unico passaggio possibile è il salto (Sprung)”.

Ed io sono totalmente d’accordo con lui: i due pensieri di cui parlavo prima danno origine a due modi di vivere totalmente e radicalmente diversi.

Il primo, il pensiero scientifico/tecnologico genera un modo di vivere nel quale prevale l’esteriorità e domina, quindi, il valore degli oggetti, dell’accumulare, del consumare e dell’avere.

Il secondo, il pensiero contemplativo/meditante, genera un modo di vivere nel quale prevale l’interiorità e domina, quindi, il valore del dono, della gratuità, della condivisione, della sobrietà, dell’essere.

A seconda se in una società o in un’epoca prevale l’uno o l’altro pensiero essa può essere definita in un modo o in un altro.

La società in cui prevale il pensiero contemplativo/meditante è una società fondamentalmente umanistica, ancorata alla centralità dell’uomo e della natura.

La società in cui prevale il pensiero scientifico/tecnologico va fatalmente verso il post-umano, il post-naturale, l’artificiale e sarà perciò probabilmente definita postumanistica e, addirittura, post-naturalistica.

© Giovanni Lamagna

Ricchezza, povertà, sobrietà

Io sono contro la esaltazione della ricchezza.

Ma sono anche contro il pauperismo, cioè contro la esaltazione della povertà, come ideale di vita.

Una cosa, infatti, è la povertà spirituale, intesa come virtuoso distacco dai beni materiali.

Altra cosa è la povertà come condizione materiale, intesa come penuria di beni, anche quelli necessari a condurre una vita dignitosa per un essere umano.

Tra la ricchezza e la povertà io non scelgo nessuna delle due.

Per me sono entrambe condizioni negative, da sfuggire, non certo da perseguire.

Io scelgo la sobrietà.

© Giovanni Lamagna

Schiavi o padroni di noi stessi?

Siamo chiamati a procurarci il necessario per vivere una vita sobria e dignitosa.

Desiderare di più ci rende schiavi della nostra ingordigia.

Siamo chiamati a godere dei piaceri della vita, in primo luogo di quello sessuale.

Dobbiamo evitare, però, di diventare succubi dei piaceri, specie di quello sessuale.

Diventando schiavi di quello che Lacan definiva “godimento senza limiti”.

Siamo, infine, chiamati a realizzare la volontà del nostro Maestro interiore, cioè del nostro Alter-Ego.

Non a seguire la nostra volontà narcisista, diventando schiavi del nostro Ego.

© Giovanni Lamagna

Il ribelle e il rivoluzionario.

Il ribelle è contro lo stato di cose presente, ma non ha un’idea chiara e pienamente consapevole del modo di vivere che vuole sostituirgli.

Anzi spesso è culturalmente succube dello stato di cose presente. E, mentre lo contrasta a parole e nei gesti esteriori e superficiali, ne copia molti comportamenti e alcune scelte fondamentali.

Il rivoluzionario è anche lui, ovviamente, contro lo stato di cose presente. Ma si è formato una idea chiara e abbastanza precisa del mondo che vuole sostituirgli.

Soprattutto, comincia a praticare modelli di vita alternativi a quelli presenti e prevalenti. Anticipa in sé, nella sua vita personale e in quel poco o molto di comunità che riesce a creare attorno a sé o di cui fa parte, lo stato di cose futuro che vuole sostituire allo stato di cose presente.

Ad esempio, sostituisce nei suoi comportamenti allo stile di vita basato sull’avere, cioè sull’accumulazione sempre maggiore di beni materiali (tipico della società capitalistica), uno stile di vita basato sull’essere, che privilegia i beni spirituali e relazionali rispetto a quelli puramente oggettuali e di scambio, sostituisce ai valori della ricchezza materiale e del possesso quelli della sobrietà e del distacco.

Al modello relazionale prevalente, basato sulla competizione e, perfino, talvolta, sull’odio sostituisce quello fondato sulla cooperazione e sulla fraternità. Alla violenza risponde con la nonviolenza.

E, senza attendere la palingenesi di una società senza più classi sociali o senza più nessuna forma di sfruttamento e di guerra, in un certo senso anticipa in sé, nella sua vita privata e relazionale, la società che vorrebbe vedere realizzata all’esterno di sé, in un futuro più o meno lontano, più o meno prossimo.

Spesso il ribelle e il rivoluzionario vengono identificati nell’immaginario collettivo. Per i più il ribelle e il rivoluzionario sono la stessa cosa. Mentre si tratta di due figure o, meglio, di due modi di essere, due stili di vita molto diversi tra di loro.

Di più. Da alcuni il ribelle viene considerato il vero rivoluzionario. E il vero rivoluzionario viene considerato un moderato, se non un vero e proprio conformista, cioè uno incline ad accettare lo stato di cose presente.

In altre parole, per alcuni, il vero rivoluzionario è una persona che si è adattata. Solo perché non ama fare ricorso a parole e discorsi roboanti o a gesti ed azioni eclatanti.

Ma questo modo diffuso di considerare il ribelle e il rivoluzionario non corrisponde per niente alla realtà.

Il ribelle spesso è una persona superficiale. Che si ribella perché in una certa fase è di moda farlo. Passata la moda, rientra pienamente nei ranghi e diventa un conformista.

Si è, infatti, spesso ribelli da giovani. Perché è di moda esserlo in quella fase della vita. Ma quanti, che erano ribelli da giovani, sono diventati poi moderati da adulti o si sono adattati pienamente con l’avanzare degli anni!

Il rivoluzionario non segue nessuna moda. Anzi è contro le mode. Nasce (o, meglio, diventa, con il maturare della sua coscienza) rivoluzionario e muore rivoluzionario. Non cambia bandiera o partito con gli anni. Non diventa moderato col passare del tempo. Anzi con gli anni, talvolta, radicalizza le sue posizioni.

C’è grande differenza tra un semplice ribelle e un vero rivoluzionario. Impariamo a distinguere il grano dal loglio. Non sempre è oro ciò che luccica.

Giovanni Lamagna