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Sul film di Matteo Garrone “Io, capitano”.

Ho appena visto (ieri sera) “Io, capitano” di Matteo Garrone.

Ma quale film capolavoro?

Dov’è il capolavoro?

A me sembra – cosa che va molto di moda in questi tempi; basti pensare allo spot della Esselunga di cui tanto si è parlato e scritto recentemente – la solita utilizzazione a fini spettacolari (e commerciali) di una delle maggiori tragedie umane del nostro tempo: quella degli immigrati che cercano di sfuggire alla vita miseranda dei loro Paesi di origine, per inseguire il sogno di una vita diversa in Europa, quella che hanno intravista attraverso i loro telefonini e la televisione.

Non ci ho avvertito il pathos, la tensione narrativa delle vere opere artistiche: quelle del neorealismo italiano, tanto per intenderci, dei Rossellini, dei De Sica, del primo Fellini.

Non ci ho visto insomma il dramma reale, anche se esso ci veniva gettato in faccia a piene mani attraverso una sequenza continua di immagini molto crude, alcune di assoluta crudeltà: è rimasta una distanza tra me spettatore e la vicenda narrata.

Forse un regista come Garrone pensa che basti trasmettere immagini spettacolari di una tragedia per comunicare allo spettatore anche la sensazione, il senso profondo della tragedia?

No, non è così; realizzare cinematograficamente o teatralmente un dramma non è operazione così semplice; lo sapevano bene i grandi tragici Greci: Eschilo, Sofocle, Euripide; che, non a caso, il più delle volte alludevano agli aspetti cruenti del fatto narrato, senza bisogno di sbatterlo in faccia agli spettatori, come se ciò di per sé servisse ad aumentare il loro coinvolgimento emotivo.

La riprova forse più eclatante della scarsa partecipazione personale, spirituale, dell’autore alla vicenda narrata è data dalla scelta delle musiche, che mi pare mai avessero realmente a che fare, come tono emotivo, con le immagini che accompagnavano; erano – a me è sembrato – del tutto scollegate e, quindi, stonate; servivano solo a dare enfasi allo spettacolo (non alla tragedia) che si svolgeva sotto i nostri occhi.

Per concludere sinteticamente: a me questo film non è piaciuto per niente; ne do pertanto un giudizio nettamente negativo.

© Giovanni Lamagna

Sesso e amore.

La questione della felicità possibile per noi umani ha molto a che fare con il rapporto che ciascuno di noi ha con il sesso e con gli affetti.

Con il sesso e con gli affetti insieme, uniti e non scissi, non separati.

Non con il solo sesso, né con i soli affetti.

Mentre vedo che per molti (soprattutto per molte donne) valgono, sono importanti, soprattutto gli affetti, l’amore anche senza sesso.

Mentre per molti altri (soprattutto per molti uomini) vale soprattutto il sesso, il sesso a prescindere, anche separato dall’amore.

E questo rende la loro vita incompleta, la loro felicità monca, parziale, non del tutto soddisfacente, se non addirittura infelice.

Per me, invece, è importante sicuramente l’amore, sono importantissimi gli affetti, ma è altrettanto importante anche il sesso.

Mi viene da dire che quel poco (o molto) di felicità possibile agli umani sta nel coniugare – in una felice (e purtroppo rara) sintesi – l’amore col sesso ed il sesso con l’amore.

Il sesso senza amore è in genere (un po’) squallido; al piacere che indubbiamente dona accompagna la frustrazione del post coitum senza coinvolgimento emotivo.

Ma anche l’amore senza sesso è, per così dire, “vedovo”, incompleto, manca del sale e del pepe, senza i quali anche la migliore pietanza alle volte risulta insapore.

© Giovanni Lamagna