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Il principale compito dell’uomo.

Penso che il compito più importante per ogni uomo, per ciascuno di noi, sia quello di passare da uno stato di sostanziale incoscienza ad uno stato di sempre maggiore coscienza.

In fondo che cos’è l’età evolutiva, ovverossia il percorso che dall’infanzia ci conduce alla fanciullezza e poi, attraverso l’adolescenza, alla giovinezza e infine all’età adulta, se non un graduale passaggio da uno stato di sostanziale incoscienza ad uno stato di coscienza matura?

Il problema è che per la maggior parte degli uomini questo percorso evolutivo si arresta ad un certo punto, quando si raggiunge la cosiddetta “età adulta”, in buona sostanza quando si finiscono le scuole o (per chi ci arriva) l’Università.

Come se esso consistesse semplicemente o principalmente in un percorso conoscitivo, cioè di acquisizione di conoscenze che ci vengono dall’esterno.

Mentre esso dovrebbe essere in primo luogo e fondamentalmente un percorso di crescita nella consapevolezza di sé.

Percorso che indubbiamente ha bisogno anche della conoscenza, cioè dell’apprendimento di nozioni esterne, il cosiddetto patrimonio culturale che l’Umanità ha acquisito fino al momento in cui siamo venuti al mondo.

Ma ancora di più abbisogna di “virtute”, della capacità di accompagnare la conoscenza alla virtù, cioè al saper vivere.

Come giustamente ci ha insegnato il nostro padre Dante: “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza” (“Divina commedia”, Inferno; XXVI, vv.119-120).

E cos’è la virtù se non la capacità di discernere il bene dal male, ovverossia il corretto vivere, il “buen vivir”; una sempre maggiore consapevolezza (e non solo conoscenza), una sempre maggiore capacità di vigilanza, di essere presenti a sé stessi?

Dicevo prima che solitamente questo percorso di crescita nella conoscenza e nella consapevolezza per la maggior parte degli uomini si conclude, nella migliore delle ipotesi, alle soglie della maturità, quando finisce la loro giovinezza.

Mentre, invece, dovrebbe continuare all’infinito; o, meglio, fino all’ultimo giorno della nostra vita.

Cosa che solo in pochi, in genere, comprendono e – ancora di meno – si impegnano a fare.

Lo fanno i filosofi (e neanche tutti i filosofi accademici, ma solo i filosofi che amano davvero la sapienza, che sanno cioè unire, intrecciare, vita e conoscenza), lo fanno gli artisti (perlomeno alcuni artisti, almeno in alcuni momenti della loro vita), lo fanno soprattutto e più di tutti i mistici.

Lo fanno, infine, coloro che vanno in analisi e, quando, hanno finito l’analisi continuano con l’autoanalisi, che per sua natura (come diceva Freud) è “interminabile”; e che, quindi, a mio avviso, un poco mistici sono anche loro.

Cos’è, infatti, il percorso mistico se non un percorso che porta sempre più luce dove prima c’era l’ombra, che rende l’inconscio sempre più conscio (qui la lezione di Jung è fondamentale), che da uno stato di sonno o di dormiveglia ci porta sempre più in uno stato di veglia e di vigilanza piena?

Poca importanza poi ha per me il fatto che il mistico abbia fede o no in una realtà metafisica, trascendente, che nella Storia ha assunto il nome di Dio.

Ci sono, infatti, credenti in Dio che non sono per nulla mistici, che non sanno manco lontanamente cosa sia la mistica, che non ne hanno nessuna esperienza diretta e personale.

E ci sono, invece, agnostici e persino atei che sono profondamente mistici, perché alla continua ricerca del contatto col mistero che è dentro di loro e fuori di loro, nel mondo che li circonda.

Einstein, ad esempio, era uno di questi.

E, infatti, ebbe a dire una volta in un discorso tenuto a Berlino e diventato famoso:

“L’esperienza più bella e profonda che un uomo possa avere è il senso del mistero: che è il principio sottostante alla religiosità così come a tutti i tentativi seri nell’arte e nella scienza.

Chi non ha mai avuto questa esperienza mi sembra che sia, se non morto, almeno cieco.

È sentire che dietro qualsiasi cosa che può essere sperimentata c’è qualcosa che la nostra mente non può cogliere del tutto e la cui bellezza e sublimità ci raggiunge solo indirettamente, come un debole riflesso.

Questa è la religiosità, in questo senso sono religioso.”

Ecco allora qual è, a mio avviso, il compito più importante che è davanti all’uomo, che aspetta di essere da lui realizzato!

Entrare sempre più in contatto con il mistero della vita e coglierne qualche sia pur piccolo frammento.

Questo compito non poteva essere espresso meglio da come lo ha descritto Einstein; io sottoscrivo le sue parole una ad una.

© Giovanni Lamagna

Il contemplativo e la sapienza.

Non c’è forse frase più bella per definire l’atteggiamento interiore del contemplativo che questa: “Maria serbava in sé tutte queste cose, meditandole in cuor suo.” (Luca 2; 19).

Il contemplativo è, infatti, uno che, in un certo momento della sua vita, ha ricevuto una rivelazione e la custodisce poi in cuor suo, come un tesoro, meditandoci sopra.

E da quella prima illuminazione (custodita, coltivata e meditata) ne sgorgano, ne zampillano poi, come da una sorgente continua, cento, mille altre, cui fanno seguito pensieri e parole di sapienza.

© Giovanni Lamagna

I libri e la sapienza.

Dice Jung nel “Libro rosso” (p. 268): “Sai bene che un libro lo si può leggere molte volte… Magari lo conosci quasi a memoria, e tuttavia, se riguardi le righe che ti stanno davanti, certe cose ti appariranno nuove oppure ti verranno pensieri del tutto nuovi, che non avevi avuto prima. Ogni parola può fecondare il tuo spirito. E infine, se hai accantonato il libro per una settimana e torni a riprenderlo dopo che il tuo spirito ha sperimentato varie trasformazioni, avrai molte nuove illuminazioni.”.

È verissimo!

Questo, però, non succede con tutti i libri, ma solo con quelli che contengono parole di sapienza.

E non tutti i libri – diciamoci la verità – contengono parole di sapienza.

La parola sapiente si rinnova continuamente e, quindi, ha sempre nuove cose da dirci.

Questo non succede, invece, con la parola che è erudita, ma non sapiente.

E ciò non deve meravigliare.

Ci sono, infatti, parole sapienti che non sono erudite e parole erudite che non sono sapienti.

© Giovanni Lamagna

A proposito di I. A. (Intelligenza Artificiale).

Ci è sufficientemente chiaro che “intelligenza” non è sinonimo di “sapienza” o “saggezza”?

Ho l’impressione di no.

Se ci fosse chiara questa (in fondo banale) distinzione, forse ci sarebbe ipso facto chiaro (e, invece, vedo che per molti non lo è) che l’I. A. potrà anche superare (e, forse, persino sostituire) l’I U. (Intelligenza Umana), ma non potrà mai sostituire la sapienza e la saggezza, che sono fenomeni tipicamente e solamente umani.

A meno che l’Umanità non decida (in una maniera che certamente non sarà consapevole, ma potrà essere solo l’esito di una deriva inconsapevole) di suicidarsi, scivolando verso un’era che (non a caso) alcuni già definiscono come “post-umana”.

Allo stesso modo di come potrebbe suicidarsi abbandonandosi ad un’escalation bellica sempre più accelerata (come purtroppo sembra stia avvenendo oggi in Ucraina), scivolando ineluttabilmente (e quasi senza accorgersene) verso un conflitto nucleare e mondiale.

© Giovanni Lamagna

Gesù e la cultura.

Nel suo libro “I quattro maestri” (Garzanti, 2020) Vito Mancuso afferma che Gesù ebbe un atteggiamento di fondamentale indifferenza, chiusura, se non disprezzo nei confronti della cultura e degli uomini che di essa vengono solitamente riconosciuti come i tenutari, i possessori unici: cioè gli intellettuali.

Cita a tale proposito la ben nota affermazione di Gesù contenuta nel Vangelo di Matteo (11, 25) “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”, intendendo per piccoli non solo e non tanto i bambini, ma le persone umili e, persino, ignoranti.

Io credo, però, che qui Mancuso abbia preso un abbaglio; ed anche piuttosto grosso.

Bisogna, infatti, fare una distinzione tra il concetto di “erudizione” e quello di “cultura”, che a mio avviso coincide con la distinzione tra il concetto di “sapere” e quello di “sapienza”.

Sapienza e cultura sono una cosa, altra cosa sono l’erudizione e il sapere.

Io posso sapere un sacco di cose, essere cioè molto erudito e dotto, ma non essere un uomo colto e sapiente.

Come, al contrario, posso sapere poche cose, essere poco erudito e dotto, ma allo stesso tempo essere colto e sapiente.

Cosa fa la differenza tra l’uomo erudito e l’uomo colto; o tra il semplice sapere e la sapienza? Proverò a illustrarlo.

L’uomo erudito, che sa un sacco di cose, ha la testa molto piena, ma non ha una testa ben fatta (riprendo qui una frase molto famosa di Michel de Montaigne).

L’uomo erudito (il “dotto”) sa molte cose, ma non ne conosce il senso profondo, non ne ha trovato cioè il bandolo: le sue conoscenze sono un cumulo indistinto e insapore di nozioni, non un intreccio complesso di dati, nel quale egli è però capace di orientarsi, perché ne coglie i nessi e la profonda sintesi e unità.

L’uomo colto è invece colui che, magari, sa meno cose dell’uomo erudito (del “dotto”), però – delle cose che sa – ha colto l’intreccio, i nessi, ha assaporato il senso; ha magari (come ci ricorda anche Edgar Morin, riprendendo Montaigne) una testa meno piena dell’uomo erudito, ma sicuramente meglio fatta.

La distinzione che ho appena fatta tra l’uomo erudito e l’uomo colto la si può applicare – pari, pari – a quella tra sapere e sapienza: il sapere è un accumulo (magari molto vasto) di nozioni, ma senza sapore; la sapienza è una sintesi di conoscenze e intuizioni (magari non particolarmente numerose) e però ricche di sostanze e di sapore.

Ci sono ancora altre caratteristiche che fanno la differenza tra l’uomo erudito e l’uomo colto, come quella tra l’uomo dotto ed il sapiente.

Gli uomini eruditi, “gli uomini che sanno”, sono pieni di presunzione e di alterigia, sono spesso chiusi nel loro mondo, il mondo dell’accademia, parlano e dialogano solo con i loro pari, con gli addetti ai lavori, ignorano e in molti casi disprezzano gli altri uomini, a cui guardano con indifferenza e sussiego, dall’alto in basso.

L’uomo colto, il sapiente, è, invece, anzi resta – nonostante l’accrescersi con l’età della sua cultura e sapienza – una persona umile, potremmo dire anche uno “piccolo”, nel senso evangelico del termine, nel senso che appunto intendeva Gesù (in Matteo 11, 25), uno che fondamentalmente sa di non sapere, come diceva di sé il grande Socrate, uno che dialoga con tutti, che non si fa mai forte (e superbo) del suo sapere, ma ama condividerlo il più possibile, anche con coloro che ne sanno molto meno di lui.

Credo che Gesù provasse effettivamente indifferenza e, forse, addirittura disprezzo, nei confronti degli eruditi e dei dotti, ma che non provasse affatto gli stessi sentimenti nei confronti degli uomini davvero colti e meno che mai dei sapienti.

D’altra parte l’immagine di Gesù che a dodici anni si intrattiene nel Tempio di Gerusalemme a discutere con i Dottori della Legge, i quali si meravigliano della sua conoscenza delle Scritture, data la sua giovane età, basterebbe da sola a dissipare l’equivoco in cui è incorso, almeno a mio parere, il professore Vito Mancuso.

© Giovanni Lamagna

Amore della sapienza e sapienza dell’amore.

La sapienza che non si traduce in amore per gli altri, per il proprio prossimo, per me non è vera sapienza.

Così come l’amore che non nasce dalla sapienza, un “amore” non sapiente, per me non è vero amore.

Amore della sapienza e sapienza dell’amore devono camminare assieme.

© Giovanni Lamagna

Alcune riflessioni attorno al presunto “intellettualismo etico” di Socrate.

Nel suo libro “I quattro maestri” (Garzanti, 2020), Vito Mancuso si interroga sul cosiddetto “intellettualismo etico” di Socrate, chiedendosi se è corretto usare questa formula per definire la visione dell’etica socratica.

Domanda, a mio avviso, molto fondata, perché nella filosofia etica di Socrate sembrano entrare in stridente contraddizione due suoi insegnamenti fondamentali:

1) “… io non so nulla… Davvero sapiente è solo Dio… la sapienza umana è poca o nulla.”; in altre parole per Socrate il massimo della sapienza è sapere di non sapere nulla, avere “chiara coscienza… di non essere sapiente, né molto né poco” (dall’ “Apologia di Socrate”);

2) “Ciascuno di noi è buono in ciò in cui è sapiente ed è malvagio in ciò che non conosce.” (dal “Lachete” di Platone).

Viene da chiedersi, allora, (e Mancuso se lo chiede):

1) come è possibile essere buoni, praticare la virtù ed evitare la malvagità, se la virtù consiste nel sapere ciò che è bene e ciò che è male?

2) come è possibile sapere ciò che è bene e ciò che è malvagio, se il massimo della sapienza è sapere di non sapere nulla?

Qui, a mio avviso, la contraddizione (in realtà solo apparente) nasce dalla confusione, che di solito si fa, tra il termine “sapienza” e il termine “sapere”: per molti, anzi per i più, i due termini sono sinonimi, mentre per me (ma presumo anche per Socrate, se ho capito bene il suo pensiero) non lo sono affatto.

Provo ad argomentare questa mia tesi.

Il “sapere” è un concetto che si riferisce ad una realtà di natura quantitativa: il possesso di dati, conoscenze; in altre parole, l’erudizione.

La sapienza è un concetto che si riferisce ad una realtà di natura qualitativa: più che alle conoscenze, si riferisce al loro buon uso, in termini teoretici e pratici.

Il sapere ha a che fare con la mente, con l’intelletto, con il “pensiero calcolante”, per usare una espressione famosa di Heidegger.

La sapienza con l’anima, con lo spirito, con la psiche nel suo senso più ampio, di cui la mente, l’intelletto sono indubbiamente parte, ma solo una parte e non il tutto.

La sapienza, ammesso che abbia davvero a che fare col pensiero, è frutto semmai del “pensiero meditativo”, per usare l’espressione che Galimberti utilizza in contrapposizione al “pensiero calcolante”, oggetto della critica spietata di Heidegger.

Questo, in premessa, per dire che l’affermazione di Socrate “io so di non sapere nulla” si riferisce al “sapere” come oggetto dell’intelletto, alle conoscenze, alla erudizione.

E trova una sua giustificazione (per quanto comunque paradossale) in quanto, rispetto al patrimonio di conoscenze accumulato dall’Umanità (e quello “in mens Dei”) il nostro sapere sarà sempre poco o nullo.

Mentre le affermazioni di Socrate sulla virtù si riferiscono alla “sapienza”, come capacità di utilizzare bene le (poche o molte) conoscenze possedute, cioè alla sapienza come capacità di discernimento, che è qualità, dote, differente dal semplice sapere.

In questo senso si giustificano le affermazioni socratiche secondo cui le virtù dipendono dalla sapienza.

Io posso non essere un erudito, nel senso di uno che possiede grandi conoscenze, ma posso avere la sapienza, la capacità (di cui Socrate del resto era una testimonianza vivente) di distinguere il bene dal male, la virtù dalla malvagità.

D’altra parte solo fino ad un certo punto la sapienza dipende dal merito di chi la possiede; essa è piuttosto figlia dell’ambiente in cui si è avuto la fortuna di nascere e di crescere, delle persone sagge e sapienti, i Maestri, incontrati sul proprio cammino, in altre parole dell’educazione e della formazione ricevute.

Chi non ha avuto il dono, la grazia della sapienza non potrà nemmeno essere virtuoso; infatti, “nessuno commette ingiustizia volontariamente”, la commette solo e semplicemente perché non è in grado di distinguere il bene dal male.

Cosa che non si fa tanto o solo con la mente, la quale è capace di generare esclusivamente un sapere intellettuale.

Ma si fa con l’anima nella sua pienezza, sintesi armoniosa e quindi pacificata di pancia, cuore e cervello, da cui solamente può scaturire la sapienza.

Dagli esiti di questa riflessione credo di poter arrivare alla conclusione che la formula “intellettualismo etico”, con la quale si tende solitamente a definire l’etica socratica, è a dir poco imprecisa, se non del tutto inappropriata.

Infatti, lega il concetto di “virtù” a quello di intelletto; e, quindi, a quello di sapere come erudizione.

Mentre il concetto di virtù va riferito a quello di anima; ovvero a quello di sapienza, come capacità, non puramente intellettuale, ma spirituale, di discernere il bene dal male.

© Giovanni Lamagna

Gesù è per me un grande maestro, ma non è Dio.

Io dico che senza un Maestro (o, meglio, senza dei Maestri) non è possibile raggiungere la sapienza e, quindi, la felicità, che dalla sapienza si genera, come il frutto dal suo albero.

Io riconosco in Gesù uno dei miei Maestri più importanti, forse il più importante.

Anche a Lui (oltre che a tanti altri Maestri) devo quel poco che so e quel pochissimo che riesco a mettere in pratica.

Ma non lo considero Dio.

E’ stato ed è per me un grande Maestro, uno dei più grandi che ho incontrato sulla mia strada, ma non è Dio.

© Giovanni Lamagna

L’uomo di mondo e il sapiente.

Chi cerca il “godimento senza limiti” (avrebbe detto Lacan) o la ricchezza, il potere, la fama, la gloria (ovvero “le cose del mondo”, avrebbe detto Gesù) è nemico mortale (non può non esserlo) di chi ricerca la “sapienza”.

Il quale, per sua natura, “odia”, disprezza, invece, tutte queste cose, ovverossia “le cose del mondo”, perché il suo pensiero, il suo sguardo, il suo desiderio sono proiettati oltre, verso altro; la sua vita è dedicata all’essere e non all’avere.

Ma perché il primo odia il secondo, perché lo vede come nemico da eliminare, mentre il secondo si può “limitare” ad “odiare” le cose che il primo ama con smisurata passione e a tenersene lontano, come cose che lo lasciano indifferente?

Perché il secondo (al di là delle sue stesse intenzioni) sgama il primo, lo rivela a se stesso, ne disvela la fatuità, la frivolezza, l’inganno, su cui si fonda la sua vita, gli fa scivolare via la maschera che normalmente gli copre il volto.

Il secondo può tollerare l’esistenza del primo, non se ne sente minacciato né turbato; non ne condivide certo lo stile di vita e le abitudini, ma non pretende di scuoterlo, di cambiarlo, tutt’al più lo compatisce per le sue contraddizioni.

Il primo, invece, non può tollerare l’esistenza del secondo, perché ne è infastidito, a volte inquietato, se ne sente messo in discussione; lo deve allontanare come si allontana un tafano (il riferimento a Socrate è, ovviamente, consapevole e voluto).

Deve cancellarlo dal suo orizzonte mentale, in certi casi addirittura eliminandolo fisicamente, per non subire il suo sguardo e il giudizio, che l’altro gli getta addosso, anche senza volerlo, anche senza proporselo, per il solo e semplice fatto di esistere.

© Giovanni Lamagna

Avere e/o essere.

Ci sono quelli per i quali il valore più importante è costituito dalle cose, dalla “roba”, dal danaro.

In altre parole, come diceva Erich Fromm, dall’avere.

E quelli per i quali il valore più importante è dato dalla crescita spirituale, dalla sapienza, dalla saggezza.

Come diceva ancora Erich Fromm, dall’essere.

I due valori sono incompatibili tra di loro: se uno persegue il primo, trascurerà il secondo; e viceversa.

Perché, come disse Gesù duemila anni fa, “laddove è il tuo tesoro, lì è il tuo cuore”.

© Giovanni Lamagna