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Thomas Hobbes e la mia visione del mondo.

Voglio riportare qui alcune affermazioni, tra le più esemplificative, di Thomas Hobbes (1588-1679) per confrontarmi col suo pensiero e definire, anche grazie a questo confronto, chiaramente il mio di pensiero, sulle questioni da lui – nei passi citati – affrontate:

La condizione dell’uomo è una condizione di guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo. In questo caso, ognuno è governato dalla propria ragione e non c’è niente di cui egli può far uso che non possa essergli di aiuto nel preservare la sua vita contro i suoi nemici… Ne segue che in una tale condizione ogni uomo ha diritto ad ogni cosa, anche al corpo di un altro uomo.” (dal “Leviatano”; I, IV).

 “Vi è in primo luogo, come una inclinazione generale di tutta l’umanità, un desiderio perpetuo e senza tregua di un potere dopo l’altro che cessa solo nella morte.” (dal “Leviatano”; I, XI).

 “È vero che certe creature viventi, come le api e le formiche, vivono in società fra loro, e per questo sono da Aristotele annoverate fra le creature politiche, e tuttavia non hanno altra guida che quella del loro particolare giudizio o desiderio, non hanno la parola con la quale ognuna di esse possa indicare a un’altra ciò che ritiene di utilità comune per loro; di conseguenza qualcuno forse desidererà sapere perché l’umanità non possa fare allo stesso modo. Al che io rispondo: in primo luogo gli uomini sono in continua competizione per l’onore e la dignità, cose che quelle creature non conoscono nemmeno, e di conseguenza fra loro sorgono per questa ragione invidia e odio e infine guerre: fra quelle creature invece niente di tutto questo; in secondo luogo fra quelle creature il bene comune non differisce da quello privato, per cui essendo esse per natura spinte a cercare il loro bene privato procurano per ciò stesso il bene di tutti.” (dal “De cive”).

Molti studiosi hanno esaltato in passato ed esaltano ancora oggi il pensiero di questo filosofo britannico, considerato uno dei principali punti di riferimento del pensiero politico moderno, come esaltano quello di Machiavelli (1469-1527), col quale esso ha molte concordanze.

Io, invece, non riesco ad apprezzarlo profondamente, meno che mai a condividerlo.

La sua, infatti, mi appare una visione del tutto unilaterale e parziale dell’Umanità; apparentemente e fintamente aderente alla realtà, in realtà molto deformante della realtà.

Non ci sono dubbi che molti uomini sono come li descrive Hobbes; ma questo non vuol dire che tutti gli uomini lo siano.

Non è affatto vero, infatti, che tutti gli uomini desiderino “senza tregua… un potere dopo l’altro”.

Non è affatto vero che tutti gli uomini siano in “continua competizione”tra di loro.

Infatti, ci sono oggi e ci sono stati in passato tanti uomini e donne (la Storia ne è piena; io stesso ne ho conosciuti tanti e tante di persona) che non ambiscono affatto ad avere più potere; il fine della vita per loro non è il potere, ma altro, ben altro!

Come ci sono tanti uomini e donne che vivono in spirito di collaborazione e cooperazione (in certi casi perfino di solidarietà, amicizia ed amore) coi loro simili, senza alcuno spirito di prevaricazione o invidia o gelosia, meno che mai in un clima di odio o conflitto.

Hobbes vede e descrive solo una parte dell’Umanità, non vede e non descrive un’altra parte di umanità, che pure esiste e che, forse, è addirittura maggioritaria.

In ogni caso è quella che, nonostante tutto, da sempre tiene in piedi il mondo, impedendo che esso vada in rovina.

Perlomeno ha impedito finora che andasse in rovina.

La realtà non è solo quella che ha descritto Hobbes (“homo homini lupus”, in guerra continua l’uno con l’altro; il mondo come una giungla), ma anche quella di tanti uomini e donne che si vivono come fratelli, impegnati nella costruzione di comunità dove regna la pace e la cooperazione.

© Giovanni Lamagna

L’uomo animale razionale e quindi politico

Tra le definizioni che Aristotele dà dell’uomo – “zoon politikòn” (animale politico) e “zoon logon èchon” (animale razionale) quella che io ritengo prioritaria in ordine di importanza, nel senso che è la condizione dell’altra, è per me la seconda.

Anche gli altri animali, infatti, a loro modo sono esseri sociali, abituati come sono a vivere in gruppi, più o meno elementari o complessi, come lo sono, ad esempio, uno stormo di uccelli, un banco di pesci, una mandria di buoi, un gregge di pecore o un branco di lupi.

Cosa sono, infatti, questi gruppi di animali se non una forma più elementare e rozza del vivere sociale rappresentato dalle comunità costituite degli uomini, prima sotto forma di tribù e poi nella forma più complessa e articolata della polis?

Ciò che, invece, distingue in maniera radicale l’uomo dagli altri animali è la estrema complessità delle sue funzioni cerebrali, la cosiddetta razionalità (la mens, l’intelletto), che è presente, beninteso, anche negli altri animali, ma in forme sicuramente ed enormemente più primitive ed elementari.

Ciò significa che l’uomo è in grado (almeno potenzialmente: non è detto che ci riesca sempre e comunque) di giungere a livelli di consapevolezza a cui nessun altro animale è capace di arrivare (è consapevole, ad esempio, del suo destino di morte) ed è capace di un linguaggio estremamente ricco e articolato, che gli permette di dialogare, comunicare con i suoi simili a livelli inimmaginabili per gli altri animali.

La sua vita sociale e politica è di conseguenza enormemente più ricca e complessa di quella degli altri animali; almeno in potenza, come dicevo prima a proposito della razionalità.

Perché, certo, non ci possiamo nascondere le grandi contraddizioni, da cui questa vita sociale è spesso lacerata, che esplodono frequentemente in conflitti, a volte persino sanguinosi, come lo sono ad esempio le guerre e gli stermini a cui le guerre talvolta danno luogo.

Ma è appunto la sua natura di “animal rationale” che consente all’uomo di essere pienamente “animal sociale e politicus”.

Tanto è vero che, quando viene meno la prima, l’uomo torna ad essere animale della giungla, “homo homini lupus”.

© Giovanni Lamagna

L’essere umano e la dimensione religiosa della vita

Mi sto facendo sempre più convinto, con gli anni, che l’uomo senza una qualche forma di sensibilità e di pratica religiosa non possa stare bene, non possa vivere bene.

In altre parole, che la dimensione religiosa è strutturale, congenita all’essere umano. Così come il respirare, l’aver bisogno di cibo, del dormire.

Il bisogno religioso è dunque un bisogno fondamentale come gli altri bisogni. Ancora più del sesso, che in realtà non è manco un vero bisogno, ma qualcosa al confine tra bisogno e desiderio.

Per cui, a mio avviso, si può vivere (e anche abbastanza bene) senza sesso, mentre non si può vivere, perlomeno non si vive bene, senza soddisfare il bisogno religioso che alberga in ognuno di noi.

A questo punto però sento la necessità di chiarire bene cosa intendo io per bisogno religioso, per dimensione religiosa della vita.

Chiarisco in premessa: nulla che abbia a che fare necessariamente con l’adesione ad una determinata fede e ad una religione storicamente date. Anche se queste possono essere intese come risposte (alcune delle risposte possibili) al bisogno religioso, che – come dicevo prima – è connaturato all’uomo, nasce con lui.

Allora quali sono le caratteristiche (in positivo) del bisogno religioso?

Io direi che la prima caratteristica è data dal bisogno che ha l’uomo di trascendersi, di andare oltre il puro dato materiale dell’esistenza.

L’animale, oltre al bisogno di procurarsi da bere, del cibo, una tana o un nido (soprattutto per i suoi cuccioli), di accoppiarsi per riprodurre la sua specie, di giocare di tanto in tanto, di riposare e dormire il tempo necessario riprendere le forze, non ha altre ragioni per vivere. In altre parole possiamo dire che l’animale vive per sopravvivere.

L’uomo no. Le ragioni puramente biologiche che bastano agli altri animali, a lui non bastano. Egli ha bisogno di trovare un senso, di dare un senso alla sua vita. Ha bisogno dunque di andare oltre la pura sussistenza, oltre la dimensione puramente materiale della vita, ha bisogno dunque di trascendere la sua natura animale.

E che cosa può dare un senso e un significato alla vita dell’uomo, capaci di farlo trascendere, andare oltre il puro dato biologico?

Una prima risposta può essere questa: il successo, la fama, la gloria, il riconoscimento sociale, il potere.

Una seconda risposta è la ricchezza, la “roba”, l’accumulo e il possesso di quanti più beni materiali è possibile.

Questi fattori (il successo, la fama, il potere, il prestigio sociale, la ricchezza…) possono essere considerati a tutti gli effetti dei “valori”, cioè realtà a cui gli uomini (almeno alcuni uomini) danno grande valore Quindi in grado di fondare una vera e propria religione; una religione del tutto laica ovviamente, ma pur sempre una religione.

Religione da questo punto di vista è un qualsiasi orientamento esistenziale che si unifica, concentra attorno a dei valori fondamentali, che in una ipotetica gerarchia hanno più peso degli altri.

La religione del successo sociale e della ricchezza è una religione che assume come suo carattere fondante quello della competizione, anche esasperata, tra gli esseri umani.

Il mio successo, infatti, dipende dal tuo insuccesso, dalla tua sconfitta. Così la mia maggiore ricchezza dipende dal tuo impoverimento. Si potrebbe anche dire che questa è la religione dell’ “homo homini lupus” e del “mors tua vita mea”.

Questa religione, però, a pensarci bene non è molto diversa da quella che indubbiamente ad altri livelli e in altre forme, praticano anche gli animali. Anche tra gli animali, infatti, c’è quello che tende a prevalere sugli altri, ad accaparrarsi le femmine migliori e le porzioni di cibo più abbondanti. Anche tra gli animali insomma vige la “legge del più forte”.

La religione del successo e della ricchezza si situa quindi ad un livello basso della scala evolutiva dell’homo sapiens. E’ propria dell’homo sapiens, che si è ben poco trasceso rispetto ai primi ominidi da cui deriva per via evolutiva e in fondo anche dalle altre specie animali.

L’uomo, però, nel corso dei secoli, anzi dei millenni (non si capisce bene perché, però è questo un dato di fatto da registrare) ha sentito il bisogno di trascendersi ulteriormente, di passare da una religione fondata sui valori della lotta e della competizione ad una fondata sui valori della pace, della solidarietà, della compassione verso il più debole, della fraternità non solo verso i consanguinei che è propria di ogni specie animale, ma verso l’uomo in quanto uomo, cioè della fraternità universale…

In nome della consapevolezza che ciascuno di noi è parte di un Tutto e che, quindi, le varie parti del Tutto non possono stare bene (raggiungere il benessere spirituale, ma a volte anche quello fisico) se il bene dell’una parte va a scapito dell’altra.

In nome della consapevolezza, insomma, che la mia vita non solo non si oppone quella degli altri, ma anzi è profondamente connessa con la loro. Altro che “mors tua vita mea”! Secondo questa visione religiosa del mondo, dunque, “mors tua etiam mors mea”, mentre “vita tua etiam vita mea”.

Sono questi i valori (chi più e chi meno, coniugati in forme e modi diversi) che, non a caso, caratterizzano la maggior parte delle religioni che si sono affacciate nei vari punti del pianeta nel corso della Storia.

Ma sono ancora questi i valori che hanno caratterizzato le varie forme di religiosità laica che hanno caratterizzato alcune culture che abbiamo conosciuto, soprattutto in questi ultimi cinque/sei secoli: in modo particolare, l’Umanesimo, l’Illuminismo e il Socialismo.

Per coltivare tali valori, gli uomini hanno dovuto sviluppare quella che di solito si definisce “la vita interiore”. Che non è una vita altra e alternativa rispetto a quella bio-fisiologica, ma è una vita distinta, che non si riduce alla prima.

La vita interiore, che altro non è che la vita dello spirito, ha, infatti, bisogno, per essere coltivata, di alcune condizioni, potremmo dire anche pratiche o abitudini, così come la vita del corpo ha bisogno degli alimenti, del riparo dalle intemperie, del riposo e del sonno giornaliero e, quando si ammala, delle giuste medicine.

Quali sono le pratiche di cui ha bisogno la vita interiore? Ne elenco alcune e so di dimenticarne altre. Indico quelle che a me sembrano le più importanti. La vita interiore o spirituale che dir si voglia ha bisogno di:

-silenzio e raccoglimento, laddove l’uomo, che vota la sua vita al successo e all’accumulo di beni, preferisce il chiasso e lo stordimento del mondo esteriore;

– di letture, riflessioni, meditazione, perché la pratica di certi valori non è spontanea, ma abbisogna di un esercizio continuo che in qualche modo va contro gli impulsi spontanei e gli istinti;

– di riti individuali ma anche collettivi, che rafforzino il sentire comune e condiviso dei valori scelti a livello individuale.

Non a caso queste tre pratiche spirituali sono presenti in tutte le forme di religiosità che l’uomo ha finora conosciuto nella sua storia, perfino in quelle che non si riconoscono esplicitamente come espressione di religiosità, ma che per me in qualche modo comunque lo sono, anche se sono forme di religiosità del tutto laiche.

Per concludere e riepilogare, sono convinto che:

1) l’uomo non possa prescindere dal formarsi una sua visione del mondo, una sua weltanshaung, quindi una sua visione religiosa del mondo;

2) questa visione del mondo può essere fondamentalmente di due tipi: o competitiva o solidaristica;

3) la prima assicura (talvolta) un benessere immediato ed effimero, ma allo stesso modo (e più spesso) procura ansie e perfino angosce nel lungo periodo;

4) la seconda, invece, non garantisce il benessere immediato e materiale, ma assicura un benessere interiore di lungo respiro e molto superiore alla prima;

5) per operare secondo i principi di questa seconda visione del mondo, l’uomo ha bisogno di silenzio interiore, raccoglimento, meditazione, di riti individuali e, soprattutto, collettivi.

© Giovanni Lamagna