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Le passioni sono il motore della vita

Erasmo da Rotterdam nel suo “Elogio della follia” afferma “… le passioni non soltanto fanno da piloti per il porto della saggezza, ma si trovano anche in tutte le azioni secondo virtù, come degli sproni stimolanti a fare il bene”.

Io aggiungo: come non esistono azioni virtuose che non siano mosse da passioni, così non esistono vizi che non siano mossi da passioni.

Esistono, dunque, passioni buone che conducono alla virtù e passioni cattive che conducono al vizio.

Ma in ogni caso le azioni degli uomini sono mosse dalle passioni.

L’ideale stoico e buddhista di rinuncia alle passioni, superandole ed annullandole dentro di sé, è, dunque, non solo vano, perché fuori della realtà, ma anche (oserei dire) insano, ingiusto, sbagliato.

Le passioni sono il motore della vita: una vita senza passioni è morta anzitempo.

© Giovanni Lamagna

Rinuncia radicale ai piaceri.

Rinunciare in maniera drastica e radicale ai piaceri della vita – come fece Buddha a 29 anni – può costituire un’utile e forse necessaria fase della vita.

Può aiutarci a recuperare il dominio di noi stessi e a diventare padroni (e non più schiavi) del desiderio di godimento.

Rinunciare per sempre a tutti i piaceri della vita equivale , a mio modo di vedere,  a rinunciare ad una parte importante della vita stessa.

Nessun dio ce lo può chiedere.

E chi fa questa scelta a mio avviso non fa una scelta saggia e meno che mai santa, ma solo una scelta masochista.

@ Giovanni Lamagna

La compassione buddhista e l’amore cristiano.

Molti considerano il concetto buddhista di “compassione” e quello cristiano di “amore” quasi omologhi, come se essi si riferissero a due esperienze molto affini.

Io ritengo, invece, che non solo i due concetti siano parecchio diversi, ma che soprattutto corrispondano a due esperienze molto diverse.

La compassione è l’atteggiamento – soprattutto emotivo/affettivo – che mi porta a condividere il tuo dolore, anzi la tua stessa condizione umana, che è una condizione di fondamentale sofferenza. Provare compassione vuol dire, in altri termini, sentirmi vicino al tuo dolore, alla tua sofferenza.

L’amore è, invece, l’atteggiamento – anche questo soprattutto emotivo/affettivo – che mi porta a provare non solo solidarietà per la tua sofferenza, ma mi spinge anche a desiderare per te il massimo di felicità possibile e a darmi da fare, adoperarmi, perché tu la possa sperimentare.

L’amore, quindi, per me è qualcosa in più della compassione.

La compassione si fonda su una concezione fondamentalmente pessimistica dell’esistenza, secondo la quale la vita è essenzialmente, principalmente, strutturalmente dolore, sofferenza.

Il dolore della nascita, che avviene nelle sofferenze del parto e dà origine alle sofferenze future della vita.

Il dolore della vecchiaia, che ci fa sentire l’avvicinarsi della morte e ci fa quindi sperimentare con forza la “impermanenza”, cioè la fuggevolezza, la non durata eterna della vita.

Il dolore della malattia, causato dagli squilibri che vengono a crearsi talvolta nel nostro corpo, fino a quello finale che ne causa la dissoluzione e , quindi, la morte.

Il dolore della morte, generato dalla perdita della vita.

Il dolore causato dall’essere vicini a ciò che non “piace”.

Il dolore causato dall’essere lontani da ciò che si “desidera”.

Il dolore causato dal non “ottenere” ciò che si “desidera”.

Il dolore causato dai cosiddetti cinque “aggregati”, ovvero dalla loro unione e dalla loro separazione. I cinque aggregati sono: il corpo, le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza.

L’amore cristiano si fonda su una concezione del mondo e della vita che non è certo del tutto e banalmente ottimistica, ma non è neanche del tutto e cupamente pessimistica.

Per il cristiano che ama (e non prova solo compassione) la vita non è solo dolore, ma può essere anche gioia e, in alcuni momenti almeno, perfino felicità.

Basti citare il passo del Vangelo di Matteo 6,25-34 (il primo che mi viene in mente):

«Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un’ora sola alla durata della sua vita? E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. Ora se Dio veste in questa maniera l’erba dei campi che oggi è, e domani è gettata nel forno, non farà molto di più per voi, o gente di poca fede? Non siate dunque in ansia, dicendo: “Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?” Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno».

Non ci sono dubbi: anche in Gesù è presente un discorso che invita al distacco. Ma il distacco di cui parla il Vangelo è un distacco dalle preoccupazioni e dalle ansie della vita, pieno di fiducia nella vita. Che invita a goderne e non a disprezzarla. A non rovinarsene la gioia e il godimento a causa delle ansie e delle preoccupazioni.

Ben distante, dunque, dal distacco ascetico e cupo del Buddha, che considera la vita essenzialmente dolore e sofferenza e quindi invita i suoi seguaci a separarsene mentalmente, fino a raggiungere il Nirvana, che è assenza di sofferenza, non certo pienezza di gioia e felicità: realtà che per il Buddha non sono esperibili dall’uomo.

I due diversi modi di guardare e considerare la vita hanno delle profonde e rilevantissime ricadute nel modo con cui essi suggeriscono di guardare agli altri e di rapportarsi a loro.

Per Buddha gli uomini si devono rapportare ai loro simili con un atteggiamento di compassione per la loro sofferenza. Che vuol dire provare empatia e condivisione del loro dolore strutturale, fondamentale: non c’è altro da condividere.

Per Cristo, invece, come la sua stessa vita ha mirabilmente testimoniato, si tratta di condividere con gli altri gioie e dolori: le gioie della festa e dell’amicizia fraterna e i dolori della malattia e della morte. E in questo consiste l’amore.

Che è dunque cosa ben diversa dalla semplice compassione.

La concezione del Buddha è triste e cupa e spinge fondamentalmente alla rinuncia alla vita, alla rassegnazione, via, via sempre più consapevole, ad un destino di morte. Buddha è come se dicesse: più ci si rassegna e prepara al dolore e alla morte, meno se ne soffrirà, quando il dolore e la morte sopraggiungeranno per noi.

La concezione di Gesù è, invece, luminosa, gioiosa, perfino allegra. Anche egli parla di distacco. Ma dalle ansie e dalle preoccupazioni eccessive o addirittura inutili (potremmo perfino dire dai fantasmi di morte, cui sono legate le nostre nevrosi). Non certo dalle gioie e, perfino, dai piaceri che la vita può regalarci.

Tra i due messaggi, quello di Buddha e quello di Gesù, personalmente, preferisco (e di gran lunga) quello di Gesù.

Giovanni Lamagna

Tre tipi di approccio al sesso.

22 aprile 2015
Tre tipi di approccio al sesso.
Ci sono tre tipi di rapporto col sesso.
Il primo è quello di chi considera il sesso una cosa schifosa e ne fa del tutto a meno. O quello di chi ne ha vergogna e cerca di evitarlo o farlo il meno possibile. Non solo non ne prova piacere, ma ne ha addirittura fastidio e, in certi casi, perfino ripugnanza.
Si tratta di una situazione estrema ed oggi ridotta a pochi e rari casi. Ma comunque di una situazione ancora oggi esistente, nella quale è possibile riconoscere persone (poche magari) a noi vicine o persone di cui abbiamo o abbiamo avuto conoscenza.
Il secondo è quello di chi ha piacere a vivere il sesso, ma non osa dirlo fino in fondo, manco a se stesso, come se avesse una qualche ritrosia a dire “Il sesso mi piace!”, un qualche pudore (in altre parole: vergogna).
E’ la situazione di chi pratica il sesso, anche con una buona frequenza e costanza, ma quasi come una realtà separata dal resto della propria vita, di cui si parla con qualche ritegno e molta riservatezza, che non si vuole, insomma, dare troppo a vedere. Il sesso deve rimanere una realtà recondita, nascosta. Fa parte della pura privacy, quella che si definisce “intimità”.
E’ la situazione di chi, per fare sesso, (io dico) ha bisogno di tenere gli occhi chiusi. Metaforicamente. Ma, spesso, anche materialmente. Perché in qualche misura ne prova vergogna. Vergogna mascherata da (e presentata) come senso del pudore.
E’ la situazione di chi per fare sesso ha bisogno di essere un po’ brillo, quasi in una situazione di trance, al limite tra la consapevolezza e l’inconsapevolezza, tra la veglia e il sonno.
Per questo secondo tipo di persone il sesso, in genere, deve essere una cosa mordi e fuggi. Se non proprio una sveltina, manco una cosa che duri troppo a lungo. Altrimenti diventa difficile reggerne la tensione emotiva, legata al senso di colpa.
Per questo tipo di persone in genere la nudità è un problema; si preferisce fare sesso scoprendosi il meno possibile.
Per questo tipo di persone nel sesso prevale nettamente la dimensione affettiva e sentimentale su quella fisica ed erotica. Per queste persone il sesso deve rassicurare più che scuotere, confermare più che turbare.
Esiste, infine, il terzo tipo di rapporto col sesso: quello di chi non solo non ha paura del sesso e non lo trova ripugnante; quello di chi non solo lo trova piacevole ma ha qualche ritrosia a parlarne, come se si trattasse di una realtà in qualche misura comunque scabrosa; ma quello di chi considera il sesso una dimensione centrale della propria vita, allo stesso livello di quella emotiva, di quella sentimentale, di quella affettiva, di quella intellettuale. Non semplicemente funzionale (e quindi subordinata) a queste.
E’ il rapporto di chi trova nel sesso una dimensione unica per conoscere se stesso e l’altro. E, quindi, non solo lo vive senza alcun imbarazzo, ma ha desiderio di raccontarlo, rivelarlo, manifestarlo nel suo agire quotidiano, nei suoi gesti ordinari di ogni momento. Non come forma di (sguaiato) esibizionismo, ma come naturale manifestazione di un suo modo naturale, complessivo e profondo di essere e, quindi, anche di apparire.
E’ il rapporto di chi è erotico non solo a letto, quando fa all’amore col suo partner, ma lo è sempre, in ogni momento della sua vita. E non solo non se ne vergogna, ma ne è fiero (potremmo dire “gay”), perché si sente, in questo suo modo di essere, una persona unificata e perciò liberata.
E’ il rapporto di chi attraverso il sesso entra in maniera privilegiata in contatto con la propria natura animale. E non solo non si vuole sottrarre a questo contatto, ma lo ricerca, come occasione unica e speciale di crescita psicologica e, quindi, umana.
E’ il rapporto di chi attraverso il sesso entra in contatto con la propria natura perversa e polimorfa (come Freud definiva la sessualità umana).
Perversa non nel senso usuale, deteriore e negativo, del termine. Ma perversa nel senso che non si limita a vedere nel sesso un atto puramente procreativo (come ha previsto la natura), ma una forma di linguaggio (del tutto speciale), quindi figlio e generatore di cultura.
Polimorfa perché, proprio dal momento che il sesso è una forma di linguaggio, esso non si realizza in una sola lingua, non usa una sola ortografia, una sola grammatica e una sola sintassi, ma può realizzarsi nelle forme più varie.
Ad una sola condizione: che il linguaggio che io voglio usare sia compreso e condiviso dall’altro/a. Che ci sia alleanza, complicità con l’altro/a.
Il sesso è un linguaggio del tutto particolare, che ci consente, più e meglio della parola parlata, di scendere negli abissi della nostra natura più oscura e quindi di fare luce sulle nostre ombre più inconfessabili.
Per chi lo intende in questo modo il sesso è un’avventura speciale, ogni volta trasgressiva, perché ogni volta alla ricerca del superamento del limite, del confine già raggiunto.
In questo senso il sesso è una forma di conoscenza e di ascesi, che ha a che fare con la crescita spirituale. Gli orientali da questo punto di vista hanno molte cose da insegnare a noi occidentali.
Per questo considero la pratica tantrica la massima espressione della religiosità umana. Perché è quella che più di altre è stata capace di coniugare e conciliare gli (apparenti) opposti: corpo e anima, sesso e spiritualità, amore e trasgressione, fedeltà e infedeltà, desiderio e oblatività, egoismo e altruismo, aggressività e donazione, gioco e impegno.
Laddove, invece, molte forme di religiosità, anzi la maggior parte di esse, vivono, fondano la loro teoria (teologia) e la loro pratica (ascesi) proprio sull’affermazione della inconciliabilità di questi “opposti”. Di cui alcuni rappresentano (per loro) il bene e altri il male, alcuni le virtù e altri il peccato, alcuni la salvazione e altri la perdizione.
La spiritualità tantrica ci insegna (o, meglio, può insegnarci) che non esiste peccato, non esiste dannazione, laddove c’è un desiderio, laddove un desiderio incontra il desiderio di un altro. Che anzi il vero peccato, la vera dannazione stanno – direbbe Lacan – nella rinuncia al proprio desiderio.
Giovanni Lamagna

Brama e dolore

7 marzo 2015
Brama e dolore.
Non mi ha mai convinto la dottrina buddista sull’origine del dolore e sul modo di farlo cessare.
L’idea che il dolore nasca dalla brama, cioè dal desiderio, (e che quindi, per eliminare il dolore, basti rinunciare al desiderio) mi appare come una vera e propria aberrazione.
Una dottrina che ha a che fare con la pulsione di morte, di freudiana memoria. Cioè la pulsione che, secondo l’ultimo Freud, si contrappone alla libido.
Libido che, per quanto mi riguarda, è assimilabile al desiderio di vivere, cioè all’istinto di sopravvivenza, anzi all’istinto che spinge verso la vita.
Combattere il dolore con la rinuncia al desiderio (di vivere) per me equivale a combattere il dolore optando per la morte. Soluzione quanto meno singolare!
Come a dire a uno che ha mal di testa e desidera farselo passare: non prenderti l’aspirina; prenditi direttamente una pillola di cianuro.
Giovanni Lamagna

Il bicchiere mezzo pieno e il bicchiere mezzo vuoto

2 marzo 2015

Il bicchiere mezzo pieno e il bicchiere mezzo vuoto.

Mi dico spesso: “Perché non ti accontenti di avere il bicchiere mezzo pieno e spesso stai piuttosto a guardare al bicchiere mezzo vuoto?”

E non ci sono dubbi: in questo consiglio, in questo invito ci sono sicuramente elementi di verità e di saggezza.

Vivere nello stato d’animo della fondamentale e perenne insoddisfazione, del malcontento per quello che si ha e nel rimpianto o nel desiderio mai pacificato per quello che non si ha, non è certo un bel vivere, non aiuta certo a vivere bene, non dico felici, ma neanche contenti, neanche sereni.

E, però, … c’è un “però” … Siamo proprio del tutto sicuri che accontentarsi del “bicchiere mezzo pieno” sia il massimo non dico di felicità ma di benessere possibile e concesso all’uomo?

Qui nutro qualche dubbio. Se ci accontentassimo sempre o troppo presto del “bicchiere mezzo pieno” e non aspirassimo mai, non dico sempre ma almeno qualche volta, a riempirlo quel bicchiere o almeno fargli superare il livello che indica la metà del pieno, a quanti desideri possibili, a quante aspirazioni alla nostra portata saremmo costretti a rinunciare o avremmo rinunciato nella nostra vita?

E allora mi dico: forse la saggezza sta nel giusto mezzo.

Il giusto mezzo tra l’ingordigia bulimica e la rinuncia anoressica, tra l’ambizione sfrenata e l’apatia rassegnata.

In un mix di accettazione serena di quello che la vita fin a un certo momento ci ha offerto e noi siamo stati capaci di meritarci e il desiderio mai spento di conquistare nuovi stadi di benessere, di sperimentare nuove situazioni di piacere e di gioia.

Nell’equilibrio tra la tensione della ricerca mai conclusa una volta e per sempre di ciò che non siamo e non abbiamo ancora e la capacità di godere serenamente di ciò che già siamo e di ciò che già ci è stato dato.

Giovanni Lamagna