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Psicoterapia e conversione.

Una psicoterapia che non si ponga l’obiettivo primario di realizzare una vera e propria “conversione” della persona che vi si accinge per me non è una vera psicoterapia.

È una psicoterapia superficiale, per modo di dire: una psicoterapia all’acqua di rose.

In questo senso per me il processo terapeutico ha qualcosa di iniziatico, anzi aggiungo perfino di religioso, anche se di una religione del tutto laica e individuale, senza dogmi, chiese, sacerdoti e templi.

D’altra parte, perché una persona si decide a fare una psicoterapia, coi costi economici, di tempo e di impegno energetico che essa comporta?

Evidentemente perché sta male!

E perché sta male?

Perché evidentemente ha introiettato (in genere, sin dall’infanzia) contenuti psichici (emozioni, effetti, sentimenti, pensieri, fedi) che non hanno un sano, corretto rapporto con la realtà.

E, di conseguenza, assume abitualmente, cronicamente, comportamenti insani e fa scelte sbagliate in modo (a volte compulsivamente) reiterato.

Di fronte a un quadro simile, cosa si propone uno psicoterapeuta, quando prende in analisi un paziente?

Con tutta evidenza, a mio avviso, due cose: innanzitutto quella di aiutare la persona che si rivolge a lui in cerca di aiuto a prendere consapevolezza dei contenuti psichici che sono alla base del suo malessere.

E di conseguenza, successivamente, stimolarla, aiutarla, accompagnarla a modificare i comportamenti e le scelte sbagliate che da quei contenuti psichici insani (perché privi di un rapporto sano con la Realtà) derivano.

Questo cosa comporta, cosa implica?

Un cambiamento quasi sempre (ma io sarei portato a eliminare il “quasi”) radicale (e non superficiale) del modo di vivere precedente, degli stili di vita fino ad allora praticati.

E cosa sarebbe questo cambiamento, se non quella che una volta avremmo chiamato, semplicemente e senza alcun imbarazzo, “conversione”, nel senso religioso del termine?

Ora io sono pienamente consapevole che la conversione, in termini religiosi, va intesa come un passaggio da una vita senza fede (atea o agnostica) ad una vita nella fede (in un Dio trascendente) o da una fede religiosa precedente (ad esempio, mussulmana) ad un’altra fede religiosa (ad esempio, cristiana); con tutto quello che questo comporta in termini pratici ed esistenziali.

La conversione di cui parlo qui, invece, quella che può realizzarsi in psicoterapia e che io considero nei fatti l’obiettivo principale (dichiarato o meno) di una psicoterapia, è il passaggio da una “visione del mondo” nevrotica, perché infondata (cioè senza fondamento nella realtà; e, quindi, psicologicamente scorretta) ad una più sana, perché fondata (sul “principio di realtà”) e, quindi, psicologicamente corretta.

Si tratta di due processi senza ombra di dubbio (non voglio qui creare nessuna confusione) differenti, anzi molto differenti.

Lungi da me, quindi, l’intenzione di sottovalutarne le profonde diversità e volerli identificare, omologare.

Ma come si fa a negare che tra le due “conversioni” (quella psicoterapeutica e quella classica, religiosa) esistano anche delle profonde e altrettanto evidenti analogie?

Come, del resto, in più occasioni hanno avuto modo di evidenziare e dire a chiare lettere fior di psicoterapeuti; tre nomi per tutti: Carl Gustav Jung, Victor Frankl e James Hillman.

© Giovanni Lamagna

Le motivazioni e le dinamiche dell’esperienza mistica.

Freud nel famoso epistolario con il suo amico francese, il letterato vincitore di un premio Nobel Romain Rolland, spiega l’esperienza mistica (il “sentimento oceanico” di fusione con il Tutto, di cui gli aveva scritto Rolland) con il bisogno/desiderio regressivo di ritornare nell’utero materno, laddove l’uomo ha sperimentato – è dato supporre – le massime sensazioni di benessere e di felicità.

A me pare (come del resto a molti altri, di cui ho letto; per primo a Rolland, ovviamente, e poi a Jung, già ai tempi di Freud e in polemica con lui, e poi a Elvio Facchinelli e poi a Romano Madera, per venire a tempi più recenti) che con questa sua lettura/interpretazione il grande genio austriaco, fondatore della psicoanalisi, abbia preso una grande toppata.

Ci sono, infatti, persone che vivono cronicamente desiderose di tornare nell’utero materno, la fantasia nevrotica di uscire dal mondo esterno – nel quale le ha proiettate la nascita e nel quale sono incapaci di sperimentare il minimo benessere – per ritornare all’indietro nel guscio protettivo, nel quale, invece, hanno vissuto una condizione di (oramai perduta) felicità.

Sono però le persone nevrotiche di cui Freud si sarà occupato cento volte nel corso della sua esperienza di psicoterapeuta; persone proiettate all’indietro, con lo sguardo rivolto al passato, incapaci di guardare al futuro, anzi terrorizzate da quello che prospetta loro la vita che hanno davanti, in un movimento, in una postura che non hanno nulla a che fare con quelli del mistico.

Il mistico, infatti, fa il movimento esattamente contrario: ha maturato la consapevolezza che ogni idea/desiderio di ritorno all’indietro (simbolicamente nell’utero materno, appunto!) è del tutto impossibile, una pura fantasia nevrotica e autodistruttiva, e perciò si proietta in avanti.

Certo alla ricerca di una felicità che in qualche modo possa assomigliare a quella sperimentata nell’utero della madre, che, come dice Jung, “fu per noi il primo oggetto, con la quale un tempo noi fummo veramente una cosa sola” (“Simboli della trasformazione”; Bollati Boringhieri 1970; p. 318).

Ma in una direzione esattamente opposta a quella della persona nevrotica; lo fa guardando in avanti e non all’indietro, aprendosi al mondo nel quale lo ha proiettato la nascita e non rifuggendone, cercando l’unione col Tutto e, quindi, con tutti i suoi simili nelle loro variegate diversità e non (come fa invece il nevrotico) con l’Unico e sempre Uguale, rappresentato dalla figura materna e simbolicamente dal suo utero.

La felicità che cerca il mistico è dunque una condizione da conquistare faticosamente e non un’eredità di cui godere gratuitamente, il frutto di un’ascesa e non di una discesa, di una crescita spirituale e non di una regressione psichica, di una espansione e non di una contrazione o chiusura.

Chi è il mistico, quali caratteristiche deve avere, a quale chiamata risponde, lo descrive in maniera esemplare, come meglio, a mio avviso, non si potrebbe, il passo del Vangelo di Luca (14; 25-33), che qui riporto integralmente:

25Una folla numerosa andava con lui. Egli si voltò e disse loro: 26«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.

28Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30dicendo: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro».

31Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.

33Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.” (Testo CEI 2008).

Ora, se noi spogliamo questo testo di tutti gli orpelli legati strettamente alla biografia del Cristo e ne traduciamo in termini del tutto laici e perfino mondani il linguaggio, siamo in grado di comprendere con estrema chiarezza chi è il mistico.

Ovverossia una persona tutt’altro che attaccata al passato, meno che mai ai legami familiari, in primis a quelli di sangue.

Una persona adulta, matura, saggia, capace invece di fare progetti e dotata di un acuto senso della realtà, come non lo è invece la persona bloccata psicologicamente.

Una persona che si priva di tutti i suoi averi, compresi quelli a cui si era appigliato quando era bambino, per seguire la propria vocazione; per seguire – avrebbero detto i Greci, che Freud tanto amava – il proprio daimon.

Altro che “desiderio di ritornare alle percezioni neonatali o all’utero materno” (Romano Madera; “Lo splendore trascurato del mondo”; Bollati Boringhieri 2023)!

© Giovanni Lamagna

Guerra o pace?

Ognuno di noi (chi più e chi meno) nasce diviso, scisso, alcune volte lacerato, tra due (o anche più) parti di sé, che lottano, confliggono tra loro.

Ci sono poi quelli che impegnano la loro vita a unificarsi, a ricomporre queste diverse parti in unità, a mettere tra loro pace, in certi casi con l’aiuto di qualche psicoterapeuta, più spesso con il sostegno di un maestro o di maestri di spiritualità.

E ci sono quelli che, invece, pur avendone avuto in alcuni casi la chiamata, la sollecitazione a intraprenderlo, si rassegnano a restare così come sono nati, scissi, frammentati, in alcuni casi lacerati, schizzati, sempre in guerra con se stessi.

E’ questa, a mio avviso, la differenza fondamentale tra chi intraprende un percorso mistico e chi non lo prende neanche minimamente in considerazione.

Il percorso mistico non si caratterizza essenzialmente per essere un percorso di fede (ci sono uomini di religione che non hanno niente di mistico), ma per essere, in primo luogo, un percorso, del tutto laico e profondamente umano, di unificazione interiore.

© Giovanni Lamagna

Incontri e destino

Sono convinto che non sia il caso, ma il destino a fare incontrare due persone.

Sia ben chiaro, qui non sto parlando di un destino programmato dagli astri, meno che mai di un destino assegnato da magie e sortilegi, meno che mai di un destino deciso da una qualche volontà divina.

Sto parlando molto più laicamente del destino legato al nostro patrimonio genetico e a quel complesso di esperienze che ci hanno formato e fatto diventare quello che siamo, specie – come ci ha insegnato la psicoanalisi – nell’infanzia e nel contesto socio-ambientale nel quale siamo nati e cresciuti.

In base a questo destino ognuno di noi, chi più e chi meno, si porta inevitabilmente appresso, dentro di sé, nodi psicologici irrisolti, più o meo profondi, più o meno estesi.

E sono proprio questi nodi irrisolti (parti di noi che si devono – o dovrebbero- sciogliere, risolvere, semplificare, organizzare altrimenti, incanalare su strade diverse da quelle su cui l’educazione ricevuta ci ha portato, senza che noi lo volessimo o lo avessimo deciso…) che ci fanno incontrare determinate persone e non altre.

Le persone che incontriamo vengono quindi “scelte” inconsciamente da noi, in base a un sorta/complesso di algoritmi psicologici, di cui siamo il più delle volte del tutto inconsapevoli e, quindi, per la gran parte misteriosi ai nostri occhi, indecifrabili o molto, molto difficilmente decifrabili.

E’ a questa sorta/complesso di algoritmi psicologici che io do il nome di “destino”.

E cosa vuole da noi questo destino, quale compito ci assegna, soprattutto attraverso le persone che incontriamo sulla nostra strada?

La mia risposta a questa domanda è: vuole che sciogliamo i nodi irrisolti che ci portiamo appresso da una vita, vuole che, anche, anzi soprattutto, attraverso la relazione con le persone di cui ci innamoriamo o con cui entriamo semplicemente in relazione, facciamo un ulteriore passo avanti nella nostra crescita umana, specie in quella emotivo-affettiva.

Vuole che introduciamo un elemento di discontinuità, se non di vera e propria rottura, rispetto al nostro passato, che interrompiamo la replica continua, la coazione a ripetere, che hanno fino ad allora caratterizzato il nostro comportamento e le nostre scelte.

Per questo ci innamoriamo di qualcuno o di qualcuna o ne diventiamo amico/a.

A questo qualcuno o qualcuna arriviamo perciò grazie ad una sorta di destino o, meglio, di pensiero inconscio, che ci indica la strada per evolvere, per districare nodi che da soli non saremmo in grado di sciogliere; probabilmente manco con l’aiuto di uno psicoterapeuta.

Forse per questo il sentimento dell’innamoramento (e, in qualche caso, della stessa amicizia) è così forte e travolgente: perché nella persona di cui ci innamoriamo o diventiamo amici intimi intravediamo (ecco perché è impossibile separare l’amore e l’amicizia da un certo quota di egoismo) una via di salvezza per noi, di uscita da un vicolo cieco, la possibilità di nuove aperture da esplorare e nuovi orizzonti da raggiungere.

Ed ecco perché l’amore e l’amicizia durano fin tanto che questo processo di apertura, scioglimento, liberazione, evoluzione si mantiene attivo, vivo.

Muoiono, invece, si estinguono, si esauriscono o quantomeno di assopiscono e appassiscono, quando quel movimento, quel processo, si arenano, finiscono in qualche secca, perdono, in parte o del tutto, la loro carica propulsiva, propellente indispensabile per la nostra evoluzione psicologica.

© Giovanni Lamagna

Consulenza filosofica e psicoterapie

Gerd B. Achenbach, nel suo libro “La consulenza filosofica” (2018; Universale Economica Feltrinelli; pg. 167), sostiene che la consulenza filosofica non è una psicoterapia alternativa, ma un’alternativa alle psicoterapie.

Per quello che ne so, dell’una e dell’altra, concordo sulla prima parte dell’affermazione, non concordo invece sulla seconda.

Concordo senz’altro sulla prima parte, perché le psicoterapie e la consulenza filosofica si riferiscono a due ambiti/oggetto d’intervento completamente diversi.

Le psicoterapie agiscono in un ambito che è prevalentemente quello delle pulsioni, delle emozioni, dei sentimenti, in altre parole sulla sfera psicoaffettiva.

Lavorano quindi molto (in modo particolare la psicoterapia analitica) sull’inconscio, sulla emersione dei ricordi, con il metodo delle libere associazioni e della interpretazione dei sogni.

La consulenza filosofica, invece, almeno da quello che ne ho capito io, agisce soprattutto nella sfera mentale, intellettuale: il suo oggetto specifico di indagine sono le idee della persona che va a chiedere consulenza e la visione complessiva del mondo che, in base a quelle idee, la persona si è formata.

Le psicoterapie intervengono e sono richieste quando nella sfera psicoaffettiva di una persona c’è caos, confusione, conflitto. Lo psicoterapeuta ha la “pretesa” di aiutare il suo cliente a mettere ordine in questo caos, per fargli recuperare energia e vitalità, che il caos invece dissipa, disperde.

Il consulente filosofico “pretende” di fare nella vita psico-intellettuale delle persone un po’ quello che lo psicoterapeuta fa nella loro vita psicoaffettiva. Prova ad aiutare il suo cliente a mettere ordine nelle sue idee, ad elaborare una visione del mondo che abbia una sua coerenza interna e sia per lui soddisfacente, cioè capace di orientarlo nelle sue valutazioni, nelle sue decisioni e scelte, nelle sue azioni e nei suoi comportamenti.

Pertanto, a mio avviso, la consulenza filosofica non può essere e non è un’alternativa alle psicoterapie (al contrario di quello che sostiene Achenbach: ecco perché non sono d’accordo con la seconda parte della sua affermazione).

Se fosse vero, infatti, quello che sostiene Achhenbach, ne dovremmo dedurre che esiste una gerarchia psicodinamica tra la sfera intellettuale-valoriale e quella emotivo-affettiva di una persona; nel senso che la prima avrebbe il potere di influenzare decisivamente la prima e che una volta riordinata, sistemata e resa coerente la prima, automaticamente andrebbe in ordine anche la seconda.

Cosa manifestamente non vera e infondata, come dimostra la vita pratica di ognuno di noi: io posso avere le idee estremamente chiare su determinate questioni, ad esempio, quando devo prendere una certa decisione o fare una scelta, e poi essere del tutto incapace, paralizzato quando le devo concretamente mettere in atto.

Semmai è vero esattamente il contrario: è la sfera delle emozioni, dei sentimenti e degli affetti che influenza e condiziona quella delle idee e dei sistemi di valori, come con una felice intuizione ci ha insegnato Freud, quando ebbe a dire che “l’Io non è mai del tutto padrone in casa propria”.

Nel migliore dei casi le due sfere (quella emotivo-affettiva e quella intellettuale-valoriale) interagiscono e si influenzano a vicenda.

In conclusione, psicoterapie e consulenze filosofiche agiscono, intervengono, su due ambiti della psiche completamente diversi.

Per quanto questi ambiti – in quanto comunque parti della stessa psiche – abbiano delle interrelazioni, essi sono ben distinti e distanti. Quindi psicoterapia e consulenza filosofica non corrono il rischio di interferire o di diventare concorrenti.

Meno che mai la consulenza filosofica può sussumere le psicoterapie, come vera e propria alternative ad esse, per i motivi che ho provato ad argomentare.

Può succedere, invece, che in alcuni momenti – ma solo in alcuni – lo psicoterapeuta possa agire anche da vero e proprio consulente filosofico; e, viceversa, che il consulente filosofico possa intervenire anche – ma solo en passant – in un ambito che non è specificamente il suo, quello della sfera psicoaffettiva.

© Giovanni Lamagna

Scienza e onnipotenza

Con tutta evidenza nessun medico o psicoterapeuta ha il dono dell’onnipotenza.

Nessun medico o psicoterapeuta è capace quindi di curare e guarire qualsiasi malattia.

Ci sono patologie che – almeno in una certa fase storica, dello sviluppo medico-scientifico – risultano incurabili.

Di fronte ad esse la medicina e la psicoterapia sono costrette ad arrendersi, ad alzare le mani impotenti.

(c) Giovanni Lamagna

Malattia e salute

Sono convinto che, quando sopravviene una malattia, nessun organismo possa sperare in una guarigione se in esso gli elementi sani non prevalgono comunque, sia in quantità che in qualità, su quelli malati.

E questo vale sia per le malattie del corpo che per quelle della psiche.

Il medico o lo psicoterapeuta possono far leva sugli elementi ancora sani per sconfiggere quelli malati, ma non possono fare miracoli.

Ovverossia guarire, far tornare in salute un organismo malato, quando in lui i fattori insani hanno oramai preso il sopravvento su quelli sani.

E questo (ripeto), a mio avviso, vale sia per le malattie del corpo che per quelle della psiche.

© Giovanni Lamagna

Malattia e guarigione

Sono convinto che, quando sopravviene una malattia, nessun organismo possa sperare seriamente in una guarigione, se in esso gli elementi e i fattori sani non prevalgono ancora, sia in quantità che in qualità, su quelli malati.

E questo vale sia per le malattie del corpo che per quelle dell’anima.

Il medico del corpo, ma anche quello dell’anima, lo psicoterapeuta, possono far leva sugli elementi sani per sconfiggere quelli malati, quando i primi prevalgono ancora sui secondi.

Ma non possono, come per miracolo, guarire un organismo malato, quando in lui i fattori insani hanno oramai preso nettamente il sopravvento su quelli sani.

© Giovanni Lamagna

Vita spirituale, psicoterapia e Maestro.

Per nascere alla vita spirituale potremmo aver bisogno di uno psicoterapeuta che ci aiuti a sciogliere i nostri blocchi emotivo-affettivi, le nostre nevrosi.

Non è possibile, infatti, una vera vita spirituale, se in noi ci sono troppi e gravi problemi psicoaffettivi, molti dei quali in genere legati alla sfera sessuale, come ci ha insegnato Freud.

Potremmo aver bisogno dell’aiuto di uno psicoterapeuta, ma non è sempre necessario. Se abbiamo avuto la fortuna di nascere in un contesto familiare e ambientale sufficientemente sereno, aperto ed equilibrato.

Avremo, invece, necessariamente bisogno almeno di un Maestro, cioè di qualcuno che ci dia testimonianza diretta e incarnata di cosa è “la vita spirituale”: ce ne indichi la strada e ci accompagni almeno nel suo primo tratto.

© Giovanni Lamagna

Gli psicologi, la conoscenza dell’animo umano e la capacità di rapportarsi agli altri.

Non riconosco a nessun psicologo, a nessun psicoterapeuta il primato (ancor meno, ovviamente, l’esclusiva) della conoscenza dell’animo umano e della capacità di stabilire sane e corrette relazioni interpersonali, basate sull’empatia e il dono di sé.

Non c’è dubbio che gli studi fatti e, soprattutto, il training formativo, a cui si sottopongono la maggior parte degli psicologi e degli psicoterapeuti, prima di iniziare la loro attività professionale, costituiscano uno stimolo, anzi una condizione privilegiati e oltremodo arricchenti, almeno in potenza, per poter acquisire una conoscenza profonda dell’animo umano e per imparare a rapportarsi correttamente nei confronti dei propri simili (e non solo dei loro pazienti).

Ma questi due fattori non garantiscono di per sé e con certezza le qualità e le competenze richieste. Ci sono, infatti, psicologi e psicologi, psicoterapeuti e psicoterapeuti. Tra questi non tutti, pur avendo compiuto in piena regola gli studi richiesti e svolto in maniera formalmente ineccepibile il percorso formativo previsto, si dimostrano poi all’altezza del compito che viene loro richiesto. Molti di loro, anzi, a mio avviso, farebbero bene a cambiare mestiere.

Non solo. Ma lo studio teorico della psicologia e la pratica psicoterapeutica non sono le uniche vie attraverso le quali si può conoscere in profondità l’animo umano e imparare a rapportarsi in maniera ricca agli altri uomini. Ci sono, infatti, anche altre strade e altri modi per apprendere queste due competenze.

C’è innanzitutto il lavoro di introspezione e autoanalisi, che ognuno di noi può fare su di sé, anche senza essere un addetto ai lavori delle discipline che si occupano della psiche umana.

Ci sono, infatti, persone, a volte anche culturalmente modeste, che non hanno fatto cioè studi elevati, le quali, un po’ per indole naturale, un po’ per apertura mentale e interesse culturale (in senso lato), dimostrano di avere una straordinaria predisposizione all’autoanalisi e all’empatia interpersonale. E la coltivano con impegno e costanza.

Molto più di parecchi psicologi e perfino psicoterapeuti di professione. Alcuni dei quali non hanno né particolari capacità introspettive né speciali abilità relazionali. E non fanno neanche molto per acquisirle e svilupparle.

Ci sono poi almeno altre tre aree e attività umane, che predispongono in maniera privilegiata alla conoscenza dell’animo umano ed all’empatia nelle relazioni interpersonali.

La prima è l’arte. Soprattutto la letteratura.

Potrebbe, infatti, esistere l’artista, senza una sua particolare predisposizione a entrare in intima connessione con tutto ciò che è umano e ad esprimerlo nelle forme più diverse, ma comunque così universali, da trovare poi risonanza e consonanza emotiva negli altri esseri umani, in coloro cioè che dell’opera d’arte non sono (purtroppo!) autori, ma (solo) fruitori?

La seconda è la filosofia. Dalla quale (e non a caso) è derivata, anzi nata la psicologia. Che nei tempi antichi non era altro che una branca della filosofia.

Cos’è, infatti, l’oggetto privilegiato della filosofia se non l’uomo e tutto ciò (in primis le relazioni con gli altri suoi simili) che è alla vita dell’uomo collegato?

La terza, infine ma non ultima, è la mistica. Alla quale si collega indissolubilmente (se è mistica autentica e non malsano solipsismo) l’amore inteso come agape.

Cos’è, infatti, la mistica se non la pratica abituale e costante della meditazione e della contemplazione, cioè della vita interiore, della vita che si svolge dentro l’animo umano?

E che cos’è, infine, l’agape, se non quella predisposizione universale all’amore, che ci porta a provare amore non solo per coloro verso i quali sentiamo un’attrazione naturale e per quelli a cui siamo legati da vincoli di sangue e di carne, ma per ciascun essere umano, anche quello più abietto, perfino per il nostro nemico, così come ci ha insegnato Gesù, per il solo fatto che è un essere umano, cioè un nostro simile?

Un amore, l’agape, che non deve e non può essere, ovviamente, solo teorizzato, ma deve essere soprattutto praticato. E praticato non in una maniera qualsiasi, cioè dilettantistica e sprovveduta . Ma dopo aver appreso le capacità (anche tecniche e non solo spontanee) di entrare in sintonia con gli altri. Dal momento che non sempre è amore ciò che definiamo o siamo soliti definire “amore”.

L’amore, infatti, come ci ha spiegato bene uno splendido libretto di Erich Fromm, è un’arte. E, come tutte le arti, va appresa attraverso un duro e severo apprendistato.

Giovanni Lamagna