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Noi e la vecchiaia.

Sartre, nel suo libro-intervista “La speranza oggi” (Mimesis 2019; pag. 82), afferma: “… una persona anziana non si sente mai anziana. Io capisco dagli altri che cosa significa la vecchiaia, per colui che la guarda da fuori, ma io non sento la mia vecchiaia.”

Non mi riconosco (quasi) per niente in questa esperienza/affermazione di Sartre, pur avendo io oggi quasi la stessa età che aveva lui quando pronunciò queste parole.

Certo la vecchiaia – e in questo concordo con lui – è anche l’immagine di me che mi rimandano gli altri.

Ma (direi: purtroppo!) per me non è solo questo.

Per me è anche la percezione e la presa d’atto di tanti piccoli acciacchi, debolezze, inabilità, patologie, che fino a non molti anni fa non avvertivo per nulla.

Certo, la vecchiaia ha fatto maturare in me anche un pensiero o, meglio, livelli di consapevolezza, che non mi appartenevano quando ero più giovane.

Quindi la vecchiaia non è solo un’età di involuzione e deterioramento della salute per chi la vive e ne è soggetto.

Offre anche dei vantaggi: in primis un accumulo di esperienze che ci fanno (possono farci) più saggi di quando eravamo giovani.

Ma dire – come fa Sartre – che una persona anziana non si sente mai anziana, mi sembra francamente un’esagerazione.

Anzi – a dirla tutta – una affermazione del tutto al di fuori della realtà.

© Giovanni Lamagna

Noi, l’Altro e gli altri.

Se non ci apriamo all’Altro, non ritroveremo mai davvero noi stessi, il nostro vero Sé.

Il nostro vero Sé, infatti, è intrinsecamente duale: è fatto non solo di un Io, come si è naturalmente portati a pensare, ma di un Io e di un Tu; dunque di un Sé e di un Altro da sé.

E tuttavia – sia chiaro – l’Altro da sé non è l’altro, non sono gli altri.

Ma è l’Altro dentro di sé, con il quale l’Io si relaziona, prima di instaurare qualsiasi altra relazione fuori di sé.

Ricercare, dunque, gli altri fuori di sé senza aver prima ricercato e trovato l’Altro dentro di sé, è fuorviante, rappresenta una scorciatoia.

In questo caso gli altri sono, finiscono per essere, un surrogato inadeguato dell’Altro.

Se non troveremo prima l’Altro (dentro di noi), non saremo manco capaci di instaurare veri, sani, positivi rapporti con gli altri (fuori di noi).

Tutt’al più ci aggrapperemo agli altri, ne diventeremo dipendenti, se non succubi.

O ne diventeremo padroni, proprietari, tiranni, che è poi un altro modo (anche se paradossale) di essere dipendenti dagli altri.

L’Altro non è l’altro, ma è la pienezza dell’Io, che è (o, meglio, dovrebbe essere) già una relazione in sé: l’Io che si rapporta al Tu.

Senza l’Altro l’Io è monco, mancante, lobotomizzato.

Occorre, dunque, prima trovare l’Altro (dentro di sé), stabilire con l’Altro un colloquio interiore stabile, costante, profondo, e poi si possono cercare e trovare davvero gli altri (fuori di sé).

In questo caso non ci si aggrapperà agli altri, non si dipenderà da loro, ma ci si relazionerà a loro, in un rapporto, in un incontro, di interdipendenza (che è altra cosa dalla dipendenza) reciproca.

Un incontro che avverrà grazie a un movimento dell’uno verso l’altro, sullo stesso piano, cioè su un piano di parità, sincronicità, senza asimmetrie.

Ovverossia non dall’alto verso il basso o, viceversa, dal basso verso l’alto, come invece, purtroppo, accade spesso, se non nella maggior parte dei rapporti umani.

© Giovanni Lamagna

Contenuto e forma della morale.

Nelle affermazioni di Sartre sulla morale c’è una contraddizione fondamentale, che egli stesso sembra riconoscere a pag. 105 del suo libro “L’esistenzialismo è un umanismo” (Armando Editore; 2014).

Infatti, da una parte afferma che il contenuto della morale è variabile (in quanto l’uomo è totalmente libero, è simile all’artista, è il creatore dei suoi valori…), dall’altra afferma che una certa forma della morale è universale (concorda quindi con Kant che “la libertà vuole se stessa e la libertà degli altri”).

Ora delle due l’una: o la forma della morale è universale o non lo è.

Per me, come per Kant (e come sembra ad un certo punto anche per Sartre), la forma della morale è universale.

Ma, se è universale, allora anche i suoi contenuti non possono essere variabili oltre un certo limite, non possono essere creati ad libitum, come sembra invece dire Sartre, contraddicendo la sua affermazione sulla forma universale della morale.

Concordo, invece, con Sartre che la morale non può che definire valori generali, universali, quindi astratti, e che l’uomo, quando si trova a fare scelte concrete, deve assumersi fino in fondo la responsabilità della propria decisione, che non trova prescritta su nessuna tavola della Legge.

La norma morale arriva a dirci che bisogna amare gli altri come se stessi; o che bisogna fare agli altri ciò che vorremmo gli altri facessero a noi e che non bisogna fare agli altri ciò che non vorremmo gli altri facessero a noi.

Ma non ci dice cosa vuol dire concretamente amare gli altri e se stessi o cosa bisogna fare o non fare nella singola situazione.

Ci sono, infatti, situazioni esistenziali nelle quali l’uomo è chiamato a decidere tra due (o, addirittura, più) scelte ragionevoli e, quindi, tutte legittime.

In questo caso, allora, (e qui Sartre ha per me ragione) egli è pienamente creatore (possiamo dire) del valore della sua scelta, che non trova da nessuna parte un fondamento universale ed assoluto.

Prendiamo il caso (per fare un solo esempio, che ho tra l’altro vissuto sulla mia pelle) di un uomo che si innamora di un’altra donna essendo sposato e con figli.

Che fa, che deve fare un uomo che si trova in una tale situazione?

Sacrificare l’amore nuovo per la donna di cui si è innamorato in nome dell’amore precedente per i figli?

O sacrificare l’amore primo per i figli in nome dell’amore sopravvenuto per la donna di cui si è innamorato?

In questa scelta l’uomo coinvolto è pienamente autore, creatore del valore della sua decisione.

Non esiste una norma universale ed assoluta che in qualche modo gliela imponga.

Entrambe le scelte sono legittime, in quanto hanno un loro fondamento razionale.

Entrambe comportano dei costi, delle sofferenze, sue e di altri.

Facendone una, l’uomo si assume pienamente la responsabilità della sua scelta, non la delega, non può delegarla ad altri.

Meno che mai la trova già bella e scritta da qualche parte.

In qualche modo deve “creare” la norma che poi applicherà nella situazione concreta in cui è chiamato ad agire, a fare la sua scelta.

© Giovanni Lamagna

La VERITA’ e le verità.

Sì, per me non esiste LA (grande) VERITA’, ma solo tante (piccole) verità, quanti sono gli uomini.

Per fortuna, però, queste verità hanno tanti punti in comune, non sono assolutamente distanti e del tutto incomunicabili.

Per questo, a mio avviso, nessun uomo dovrebbe avere la pretesa di voler imporre la “sua verità” agli altri.

Ma ogni uomo dovrebbe avere solo il desiderio di confrontare la sua “piccola” verità con quella degli altri, per provare a comporre insieme una verità più “grande”, il più possibile comune, condivisa.

Non ci sono per me alternative a questo modo di convivere tra gli uomini.

O, meglio, l’alternativa c’è; ma è la legge della giungla; in altre parole, la barbarie.

© Giovanni Lamagna

Rapporti e contaminazione.

Bisogna contaminarsi nel rapporto con gli altri.

Un rapporto in cui non ci sia contaminazione reciproca non è un vero rapporto.

© Giovanni Lamagna

I tuoi figli ameranno ciò che tu ami.

Ama il sesso e i tuoi figli ameranno il sesso.

Ama gli altri e i tuoi figli ameranno gli altri.

Ama la vita e i tuoi figli ameranno la vita.

Ama lo studio e i tuoi figli ameranno lo studio.

Ama la politica e i tuoi figli ameranno la politica.

Ama la buona cucina e i tuoi figli ameranno la buona cucina.

Ama viaggiare e i tuoi figli ameranno viaggiare.

Ama lo sport e i tuoi figli ameranno lo sport.

Ama l’arte e i tuoi figli ameranno l’arte.

Ci sono buone probabilità che i tuoi figli ameranno ciò che tu ami.

© Giovanni Lamagna

Noi e gli altri: cosa possiamo fare per loro?

E’ terribile osservare come spesso le persone vadano incontro alla loro rovina psicologica, sempre maggiore, sempre più vicina, e non facciano nulla per arrestare questa deriva!

Anzi, quasi l’assecondino, ignari e perciò persino tranquilli, come se addirittura stessero perseguendo il proprio bene.

Un occhio – appena, appena un poco attento ed esperto – dall’esterno si accorge, si rende conto, del baratro verso cui stanno precipitando.

Ma guai a farglielo notare, a metterle in guardia: scateni solo la loro rabbia.

Ti guardano straniti, come se stessi parlando di altri o come se tu ce l’avessi con loro: fastidiosa cassandra!

Non ti resta allora che startene zitto ad osservare l’inevitabile disastro.

E non ti consola di certo il pensiero che le avevi avvertite.

Perché il loro disastro è anche un po’ il tuo disastro.

Noi, infatti, siamo gli altri e gli altri sono noi.

Il disastro degli altri ci riguarda, non può lasciarci indifferenti.

E’ un po’ come quando un palazzo vicino al nostro crolla: si solleva polvere e questa prima o poi ci raggiunge e copre anche casa nostra.

Tu sei salvo, casa tua non è crollata, ma sia tu che la tua casa non siete più quelli di prima.

Siete ricoperti di polvere; e, forse, le macerie della casa affianco crollata ti impediscono addirittura di uscire dalla tua o hanno oscurato la tua finestra.

Fuor di metafora, quello che succede agli altri riguarda anche noi; la loro infelicità non può – anche se cerchiamo di difendercene – lasciarci indifferenti; in qualche modo rende infelici anche noi; se non altro oscura, opacizza la nostra eventuale felicità, il nostro eventuale benessere.

Non possiamo mai stare totalmente bene, se gli altri stanno male.

Il malessere è contagioso; almeno quanto il benessere.

© Giovanni Lamagna

Cattiveria e bontà

La cattiveria (quasi sempre) è stupida.

A volte molto stupida.

Perché non riesce a guardare oltre il naso del proprio egoismo.

La bontà è (quasi sempre) più intelligente della cattiveria.

Si rende conto, è consapevole, che gli altri non sono davvero Altro da noi.

© Giovanni Lamagna

Ognuno di noi ha un suo compito da realizzare nella vita.

Ognuno di noi ha un suo compito da realizzare nella vita.

Sono profondamente, intimamente convinto che ognuno di noi nasca con un compito da realizzare. Si potrebbe anche dire, con un destino da compiere.

Che è suo ed esclusivamente suo. Perché nessun altro/a lo può realizzare al suo posto. E’ il “suo” compito, il “suo” destino nel mondo. Da quando è nato.

Si potrebbe anche dire (come alcuni dicono, dando una versione religiosa a ciò che ho appena detto in una logica e in una visione del tutto laica): la sua parola di Dio.

Ognuno di noi, infatti, nasce con delle qualità, delle doti naturali. Piccole o grandi che siano. Dice il Vangelo (anche qua venendoci in aiuto con una bella metafora): con dei talenti.

Ora questi talenti possono essere messi sotto il materasso. E, ovviamente, non produrranno interessi, profitti. Anzi potranno addirittura svalutarsi sotto il peso dell’inflazione.

Che, in questo caso e fuor di metafora, è data dall’aumento e dall’aggravarsi dei problemi che si presentano inevitabilmente davanti ad ognuno di noi nel corso della vita rispetto agli anni della nostra infanzia, quando siamo quasi privati di ogni responsabilità e fatti oggetto di cura e di attenzione da parte delle persone che ci hanno avuto in affidamento, in genere e in primis i nostri genitori.

Oppure (questi talenti) possono essere spesi per acquisire solo vantaggi personali, in una logica di puro egoismo, come se noi fossimo solo individui e, per giunta, nemici degli altri, in competizione perenne con gli altri.

In questo caso tali talenti potranno pure produrre degli interessi e dei profitti, ma ci isoleranno dalla comunità umana. Non produrranno il bene più prezioso per l’uomo: quello di sentirsi in unione e in pace con tutti, col mondo intero, perfino con la natura.

Infine, questi talenti potranno essere spesi per contribuire ciascuno per la propria parte e secondo le proprie capacità alla crescita economica, affettiva, sentimentale, intellettuale, culturale, spirituale, dell’umanità, specie di quella a noi più vicina.

In questo caso essi potranno pure non produrre interessi e profitti di natura personale/individuale, ma sicuramente ci daranno il bene più necessario e prezioso per la serenità e la pace, se non proprio la felicità, di cui possa godere un essere umano: quello di sentirsi parte di un tutto, in comunione con l’intero universo, in primis con gli altri esseri umani, parte intrinseca di una comunità.

Tutti siamo chiamati a sviluppare i nostri talenti in questo terzo modo. Ma pochi in realtà ci riescono. Anzi pochi ci provano.

Alcuni manco diventano consapevoli di avere dei talenti. E non solo perché questi a volte sono pochi e modesti. No, alcune volte non ne diventano consapevoli semplicemente perché sono incapaci di guardarsi dentro.

Sono come coloro che, inconsapevoli di possedere un tesoro (grande o piccolo che sia, cambia poco), non guardano mai nella loro borsa. E preferiscono chiedere l’elemosina o, addirittura, andare a rubare.

Altri pensano che, badando solo a se stessi e utilizzando i loro talenti in una logica puramente egoistica, trarranno i migliori e i maggiori vantaggi per sé.

Ma non pensano lungo, non pensano in una logica di insieme: vedono l’albero e non vedono la foresta. In questo modo, magari, guadagnano l’albero, ma si perdono la foresta.

Solo chi ha lo sguardo lungo e la vista di insieme è in grado di far fruttare al massimo i talenti che la natura (per puro caso e fortuna, senza alcun suo merito) gli ha messo a disposizione.

In questo caso potrà anche non possedere nessun albero di sua esclusiva proprietà, ma potrà fruire e godere dell’intera foresta.

Giovanni Lamagna

Noi e l’obiettività dei nostri giudizi.

7 agosto 2016

Noi e l’obiettività dei nostri giudizi.

L’articolo di Scalfari, comparso su “la Repubblica” di oggi, fa (tra le altre cose) un discorso sulla “oggettività”, che vorrei qui riprendere e commentare.

Sostiene la tesi (la riporto con parole mie, ma credo di non travisarla) che ognuno di noi, in generale, tende a giudicare positivamente se stesso (Scalfari, nel caso specifico, sta parlando di Renzi) e a valutare negativamente gli avversari.

La mia tesi è un po’ diversa. Nel senso che è meno drastica di quella di Scalfari. Non penso, infatti, che l’Io sia inderogabilmente e inevitabilmente condannato a giudicare se stesso e gli altri con due metri di misura opposti.

Penso anche io, ovviamente, che ognuno di noi tenda ad essere più indulgente verso se stesso che verso gli altri e più severo e intransigente con gli altri che con se stesso. Che l’obiettività assoluta, quindi, non esista. E che ogni nostro giudizio sia sempre e comunque viziato da un qualche elemento di soggettività.

E però penso, anche, che la capacità di giudizio e il proprio senso dell’obiettività siano educabili, perfezionabili, migliorabili. Che possiamo cioè imparare ad essere sempre più obiettivi.

Certo, senza mai riuscirci perfettamente e del tutto! Ma in ogni caso penso che sia possibile educarci a diventare sempre meno soggettivi e parziali e sempre più oggettivi ed imparziali.

Che sia possibile, cioè, entrare nel mondo dell’Altro e provare (se non altro provare) a guardare le cose con i suoi occhi, dal suo punto di vista, con la sua ottica.

E perfino, in certi casi, arrivare a convincerci che la sua ottica sia migliore della nostra, fino a decidere di abbandonare la nostra per condividere la sua.

Sembra pensarlo, in fondo, anche Scalfari, quando, accennando al metodo di Sainte-Beuve, afferma: “Il modo migliore per realizzare l’oggettività è di identificarsi con la persona da giudicare, fare propria la sua narrazione e sottoporla all’opinione pubblica”.

Certo, questo modo di essere e di agire non è connaturato all’animo umano! Forse è di pochi, di pochi “eletti”. E in ogni caso esige una scelta, una scelta di vita: la scelta di uscire dal proprio narcisismo, cioè dal sentirsi il centro del mondo.

Ma, per quanto rara e difficile, non è una scelta impossibile. Volendo, credo sia alla portata di tutti noi.

Giovanni Lamagna