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Funzione sociale di pornografia e prostituzione

Sono convinto che la pornografia svolga una sua funzione sociale. Così come la svolge, perfino, la prostituzione.

Il fatto che poi entrambi i fenomeni siano terreno fertile per un mercato obiettivamente di basso livello speculativo e, in certi casi (soprattutto nel campo della prostituzione), di sfruttamento perfino criminale, non invalida l’assunto – altrettanto obiettivo – della loro indubbia funzione sociale.

La prostituzione risponde alla domanda (soprattutto maschile, ma che da un po’ di tempo sta diventando anche femminile) di una sessualità diversa, altra, diciamo pure trasgressiva, rispetto ai canoni della sessualità di norma vissuta all’interno del legame coniugale o, quantomeno, della coppia stabile.

Oltre che alla domanda ovvia di chi, non avendo un partner fisso, in questo modo soddisfa le sue voglie sessuali.

Domande (entrambe) alle quali il più delle volte vengono date risposte scadenti e, nella grande maggioranza dei casi, del tutto insoddisfacenti o addirittura frustranti.

Il che non vuol dire che le domande in sé non abbiano un loro fondamento (se non fosse così, non si capirebbe perché milioni di persone nel mondo siano coinvolte nel fenomeno) e che ad esse non sarebbe giusto che venissero date delle risposte, ovviamente e auspicabilmente meno degradanti e più gratificanti.

La stessa funzione più o meno la svolge anche la pornografia.

Con la differenza che la prostituzione è pratica reale, materiale; la pornografia è pratica soprattutto dell’immaginario.

La funzione sociale della prostituzione è, infatti, quella di soddisfare in qualche modo, per quanto, come dicevo prima, del tutto insoddisfacente e surrogatorio, un istinto, una pulsione, che altrimenti rimarrebbero del tutto negati, frustrati.

La funzione sociale più specifica della pornografia è, invece, quella di sdoganare (almeno a livello dell’immaginario, del cosiddetto “virtuale”) ciò che nella pratica reale viene considerato proibito, perché giudicato peccaminoso o, quantomeno, offensivo del “comune senso del pudore”.

“Comune senso del pudore” che – lo sappiamo benissimo – è un valore quantomeno elastico, anzi estremamente variabile, a seconda dei contesti geografici e dei tempi storici.

In questo senso la pornografia (o, meglio, ciò che viene ritenuto pornografico in un determinato contesto sociale) aiuta (o quantomeno può aiutare, almeno in alcuni casi) chi vi fa ricorso a liberarsi di pregiudizi e tabù sociali che non hanno nessun fondamento reale obiettivo nel codice etico naturale, ma sono solo (almeno in alcuni casi) il frutto di proibizioni di una società repressiva, ancora lontana dall’aver espresso tutto il suo pieno potenziale libidico.

La pornografia contribuisce, quindi, ad alzare (o ad abbassare: dipende dai punti di vista, dall’ottica morale dalla quale ci poniamo) sempre di più il livello dell’asticella che separa ciò che nel sesso – in un dato momento storico – viene ritenuto socialmente lecito da ciò che è considerato ancora illecito.

E in questo senso può svolgere (e in alcuni casi effettivamente svolge), pur con tutti i suoi grandi limiti e le sue forti contraddizioni (che qui, sia bene inteso, non intendo minimamente nascondermi o sottovalutare), una sua (per certi aspetti persino utile) funzione culturale e, quindi, sociale.

© Giovanni Lamagna

Che cosa è e cosa dovrebbe e potrebbe essere un rapporto sessuale

Che cosa è (per i più) e che cosa dovrebbe e potrebbe essere (per me) un rapporto sessuale?

La mia impressione è che per molte persone, se non per la maggioranza delle persone, il rapporto sessuale sia poco più che uno sfregamento reciproco dei loro corpi: gesto meccanico, ripetitivo, sempre uguale a se stesso, monotono, per cui, alla lunga, perfino noioso.

Oppure il semplice (e triste) soddisfacimento di un bisogno fisiologico (prevalentemente autoerotico e ben poco condiviso), dovuto ad un periodico aumento di pressione ormonale. Nel corso e al termine del quale si prova un modesto e non proprio entusiasmante piacere.

Nel migliore dei casi, un’occasione, un momento di conferma e rassicurazione affettiva reciproche delle due persone in rapporto. Qualcosa, insomma, che attiene più alla sfera emotiva, sentimentale ed affettiva, che a quella specificamente corporea dell’erotismo, della libido, in senso stretto.

Non c’è da meravigliarsi, dunque, che per la maggior parte degli individui la vita sessuale risulti (alla lunga, una volta esauritasi – ammesso che ci sia mai stata – la breve fase iniziale della passione e dell’entusiasmo) ben poco gratificante, se non del tutto insoddisfacente.

E che, soprattutto ad una certa età, arrivi ad occupare un posto tutto sommato poco o per nulla significativo nella “economia” del loro benessere esistenziale: fisico, emotivo, intellettuale, spirituale in senso lato.

La vita sessuale delle persone, invece, almeno a mio avviso, potrebbe essere molto diversa, molto più soddisfacente, se solo si avesse un poco di consapevolezza in più delle sue enormi potenzialità.

E, soprattutto, se si fosse disposti a liberarsi dei tanti tabù (un misto di paure e di pregiudizi) che ancora oggi l’affliggono, nonostante l’apparente liberazione che essa sembra avere avuto soprattutto negli ultimi 50/60 anni.

Cosa potrebbe (e, a mio avviso, cosa dovrebbe) essere, dunque, un rapporto sessuale?

1.Dovrebbe essere innanzitutto un atto di conoscenza, di vera conoscenza, dell’altra/o.

A questo proposito mi colpisce il fatto che nella Bibbia il verbo “conoscere” venga utilizzato più di una volta per indicare il rapporto carnale, ovverossia il rapporto sessuale.

Viene utilizzato per la prima volta in Genesi 4, 1: “Or Adamo conobbe Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino…”. E viene utilizzato poi in Matteo 1, 25: “Giuseppe non conobbe Maria finché ella generò un figlio ed egli lo chiamò Gesù”.

Ora può anche darsi che tale uso fosse dovuto alla pruderie, che impedisce di chiamare una cosa (specie se riguarda il sesso) col suo nome proprio. Anzi è senz’altro così.

E però colpisce (almeno a me colpisce) il fatto che il verbo usato nella Bibbia in alternativa all’espressione “rapporto sessuale” sia proprio quello di “conoscere”. In fondo poteva anche essere usato un altro verbo.

A me piace pensare allora che l’uso di questo termine in qualche modo avvalori (quasi conferma di natura antropologica, visto il suo uso così antico presso la cultura ebraica) la mia tesi che l’atto sessuale è (o almeno potrebbe essere) un vero e proprio atto di conoscenza.

Conoscenza non solo perché nell’atto sessuale si vengono a conoscere parti del corpo dell’altro/a che normalmente non si conoscono, anzi manco si vedono, perché sono coperte, a causa del comune senso del pudore: questa sarebbe una spiegazione piuttosto banale e restrittiva dell’uso del termine.

Bensì conoscenza soprattutto perché l’atto sessuale offre la possibilità di conoscere l’altro/a in una molteplicità di dimensioni, che non si fermano alle sole “parti intime” del corpo (quelle che una volta venivano anche definite “pudenda”, cioè “parti di cui vergognarsi”), ma includono anche (e, forse, soprattutto) le emozioni, i sentimenti, i desideri, le fantasie…, ovverossia il complesso mondo della libido dell’altro/a.

Conoscenza, quindi, che non si ferma, non può concludersi al primo rapporto sessuale. Ma ha bisogno di approfondirsi, crescere, con il ripetersi, il reiterarsi dei rapporti sessuali.

Per cui ogni nuovo rapporto sessuale può essere diverso da quelli che lo hanno preceduto. Quindi non un atto meccanico, stancamente ripetitivo e routinario, come purtroppo è (o prima poi diventa) nella maggioranza dei casi. Ma un atto sempre nuovo, che aggiunge ulteriori tasselli alla conoscenza libidica dell’altro/a, che è potenzialmente infinita, inesauribile.

E sfuggire così al malinconico destino che hanno le storie della maggior parte dei rapporti sessuali: monotonia, stanchezza, noia, rinuncia. Tanto da essere stato definito addirittura (e, secondo me, non a caso) con l’espressione triste di “dovere coniugale”, una delle clausole su cui si fonda il contratto giuridico del matrimonio.

2. In secondo luogo l’atto sessuale dovrebbe e potrebbe essere la situazione esistenziale nella quale si realizza (forse) nella maniera più appagante possibile il bisogno, l’esigenza di trascendenza che sono insiti in ogni esistenza umana.

Gli uomini, infatti, al contrario delle cose, delle piante e degli altri animali, non sono chiamati a “stare” semplicemente in questo mondo; ma sono chiamati ad “esistere”, che è qualcosa di diverso dallo “stare”; perché è uno “stare” che si proietta continuamente fuori, oltre (perciò “esistere”; da “ex”: fuori + “sistere”: “porsi, stare”: “uscire, levarsi”).

Un andare oltre, un uscire da sé, che non presuppone però un mondo altro, oltre questo mondo, perciò meta-fisico; ma un andare oltre per ritrovare sempre nuovi mondi all’interno di questo mondo, un uscire da sé per trovare sempre nuove dimensioni di sé; non certo per allontanarsi, alienarsi da sé.

Da questo punto di vista ogni atto sessuale dovrebbe (e potrebbe) essere un atto di trasgressione, nel senso letterale del termine, dell’ “andare oltre” (“trans” + “ire”).

Non tanto (o non solo) nel senso di trasgredire le norme del comune senso del pudore, ma nel senso di sfidare e superare continuamente le proprie paure, le proprie vergogne, le proprie ritrosie, i propri tabù, confrontandosi in continuazione con i lati e gli aspetti più scabrosi e perturbanti (perché ancora sconosciuti e, quindi, misteriosi) di sé.

3. In terzo luogo, infine, l’atto sessuale, se si realizzasse nelle forme che ho provato a descrivere fin qui, potrebbe essere o diventare una vera e propria esperienza mistica. Come ci insegna una delle più importanti tradizioni orientali: quella tantrica.

Se per mistica intendiamo un’esperienza del tutto laica, che non ha niente a che fare con le religioni tradizionali e con la realtà di un Dio trascendente.

Se per mistica intendiamo l’esperienza della unione il più possibile intima e completa con il Tutto, con l’Universo mondo che ci circonda.

Se per esperienza mistica intendiamo il superamento (almeno spirituale) dei nostri confini per raggiungere il massimo di integrazione e di unione possibili con l’Altro.

L’Altro inteso non solo come la persona con la quale compiamo l’atto sessuale, ma l’Altro come il Tutto cosmico, di cui l’altro psicofisico con cui facciamo l’amore è “solo” la porta d’accesso, anche se necessaria, anzi indispensabile.

In questa esperienza (al contrario delle esperienze mistiche comunemente intese, nelle quali la maggior parte di esse vengono normalmente mortificate) entrano in gioco tutte le facoltà umane, a cominciare da quelle corporee, sensitive, a quelle emozionali, sentimentali ed affettive, per finire a quelle razionali e intellettive.

In un’armonia e in una sintesi, che in poche altre situazioni è possibile raggiungere, almeno a così alti livelli di intensità, di piacere e di gioia psicofisici.

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E mi fermo qui. Nella consapevolezza, però, che il discorso potrebbe continuare ed essere ulteriormente approfondito.

Anche se mi pare che quello fatto fin qui basti e avanzi per dare un’idea, per quanto solo iniziale e molto parziale, di quante grandissime potenzialità contenga l’esperienza sessuale umana.

E di come la maggior parte di noi si accontenti, invece, di sperimentarne solo una minima parte, rinunciando così alle enormi gratificazioni – fisiche, emotive, intellettuali e spirituali – che essa potrebbe donarci.

Offrendo indubbi argomenti alla famosa (ma per me non convincente) tesi lacaniana della “impossibilità del rapporto sessuale”.

© Giovanni Lamagna

Fare sesso e vedere fare sesso.

Che cos’è la pornografia se non “il sesso che si vede” e, quindi, in un certo senso il sesso a cui si partecipa da fuori e non da dentro?

Io posso “vedere il sesso”, se sto fuori dall’atto sessuale che si compie, se ne sono spettatore, fruitore visivo, e non attore, protagonista.

“Vedere il sesso” è, dunque, cosa diversa dal “fare sesso”.

Il primo corrisponde ad un piacere diverso dal secondo. I due piaceri non si escludono, non sono opposti, ma sono comunque diversi.

Tanto è vero che la maggior parte degli uomini si riconosce il diritto di godere del secondo, ma non del primo.

La morale comune, il comune senso del pudore, si fondano su questo assunto: è lecito “fare sesso”, non è lecito “guardare il sesso”, il sesso fatto dagli altri.

Tanto è vero che sono stati coniati due termini, entrambi dispregiativi e perciò disonorevoli, per definire, il primo, l’atto di “vedere fare sesso”, “pornografia”, appunto, (dal greco πόρνη, porne, “prostituta” e γραφή, graphè, “disegno” e “scritto, documento”), il secondo per definire la persona che si concede il piacere cosiddetto “pornografico”: il termine di “guardone”.

Ma, a pensarci bene, dov’è il fondamento etico di un tale divieto, di un tale tabù e della censura sociale che ne consegue?

In altre parole: perché sarebbe lecito “fare sesso” e immorale, invece, “guardare fare sesso”?

Perché, se “fare sesso” non è solo cosa lecita, ma anche legittima, anzi persino “buona e giusta” (in quanto è una delle modalità con cui si manifesta l’amore tra gli esseri umani, oltre che essere l’atto che garantisce la riproduzione della specie), il “guardare fare sesso” sarebbe, invece, cosa riprovevole?

C’è una pruderie in questa censura sociale che non si manifesta neanche rispetto ad altre manifestazioni del “guardare”, che a voler utilizzare i normali canoni etici dovrebbero essere giudicate con ben maggiore severità.

Infatti, se guardo un film dell’horror o un triller o un film di guerra, in cui abbondano scene di violenza e omicidi anche molto crudeli, perfino di tortura, nessuno mi dirà mai che sto facendo una cosa immorale e, quindi, riprovevole.

Se, invece, guardo un film sexy (peggio ancora se decisamente pornografico: vai poi a spiegare la distinzione!) o (ancora di più) se assisto a scene di sesso in diretta, allora la cosa mi viene rimproverata, scatta il codice rosso della riprovazione.

Indubbiamente singolare!

Segno che in fondo, in fondo, manco il “fare sesso” viene considerato in sé una cosa veramente legittima e, meno che mai, “buona e giusta”, ma solo un’azione tollerata.

E, in fondo, tollerata unicamente perché essa è funzionale, anzi (per certi benpensanti “purtroppo”) indispensabile, alla riproduzione della specie.

Se il “fare sesso” si fosse veramente liberato (come un po’ tutti i contemporanei sono portati a ritenere, compresi insigni psicologi), non ci sarebbe nessuna censura sociale neanche rispetto al “guardare fare sesso”.

E, forse, anche lo stesso mercato, che prospera attorno alla cosiddetta “pornografia”, si sarebbe sgonfiato. Perché essa avrebbe perso quell’alone di “mistero”, “peccato”, “proibito”, “trasgressivo”, che ne alimenta in tanti il desiderio.

Cosa che avrebbe consentito al sesso di essere finalmente vissuto con quella naturalezza e quella innocenza, che ancora oggi (nonostante le apparenze) spesso mancano nel modo di sentirlo, pensarlo e praticarlo di molti uomini e donne.

Giovanni Lamagna

L’uomo, la donna, il padre, la madre, l’unione carnale e la nudità (Genesi, 2,24 – 2,25)

24 settembre 2015

L’uomo, la donna, il padre, la madre, l’unione carnale e la nudità (Genesi, 2,24 – 2,25)

2, 24 Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una stessa carne.

L’esistenza della donna e l’attrazione verso di lei danno all’uomo la spinta e la forza decisiva per allontanarsi dai suoi genitori, dalla loro casa, per uscire cioè definitivamente dall’utero materno: non solo in senso fisico/corporeo (come avviene subito, già al momento della nascita), ma anche in senso psicologico/spirituale (cosa che avviene, se avviene, solo molto più tardi e non è affatto scontato che avvenga).

Nella visione biblica l’uomo esce da un “utero” per entrare (in un certo senso) in un altro “utero”, per unirsi alla donna con la quale sarà una sola carne, così come una sola carne era stato con la madre, per i nove mesi della gestazione.

Solo che i genitori egli non se li è scelti, la donna con la quale egli si unirà carnalmente egli se la sceglie.

Qui sta la novità, il passo avanti, il salto, che genera l’evoluzione psicologica dell’individuo, anzi una sua vera e propria “seconda nascita”.

In questo versetto il linguaggio è (come spesso nella Bibbia) tutto al maschile, figlio dunque della cultura patriarcale. Ma esso può essere letto anche al femminile. Ciò che vale per il maschio vale a anche per la femmina: pure lei abbandonerà il padre e la madre e si unirà al marito e saranno una sola carne.

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2, 25 L’uomo e sua moglie erano entrambi nudi e non ne avevano vergogna.

La condizione naturale dell’uomo e della donna (come del resto quella degli altri animali) è, dunque, la nudità. Che è accompagnata dalla mancanza di quello che in seguito sarà definito “il comune senso del pudore”.

Alcune riflessioni semplici, al limite dell’ovvio:

evidentemente il “senso del pudore” non è poi tanto “comune”, se il primo uomo e la prima donna ne erano privi;

di certo “il comune senso del pudore” non è legato alla natura, se il primo uomo e la prima donna non solo nascono nudi (come del resto nascono nudi anche i bambini di oggi), ma vivono nudi anche da adulti, senza provare alcun imbarazzo.

(5, continua)

Giovanni Lamagna

Quattro modi di rapportarsi al sesso e alla corporeità

7 settembre 2015

Quattro modi di rapportarsi al sesso e alla corporeità.

Ci sono, a mio avviso, quattro modi di rapportarsi al sesso in particolare, ma potremmo dire anche all’elemento corporeo in generale, alla dimensione puramente animale che è presente in ognuno di noi.

Il primo è quello di considerare questa dimensione l’unica o la più importante.

Chi si pone in questo atteggiamento si comporta di conseguenza e di solito (quasi) come gli animali. Segue esclusivamente i propri istinti e impulsi, senza (quasi) nessuna mediazione del pensiero e (in alcuni casi) neanche della sfera emotivo/affettiva.

Nella sfera comportamentale di queste persone non c’è nessuna evoluzione, nessuna crescita: per loro non ci sono altri modi di comportarsi che quelli che mettono in atto da quando hanno acquisito una certa autonomia; non arrivano nemmeno a immaginare che ci possano essere delle alternative.

Nella vita di queste persone il sesso è molto presente (a volte in maniera addirittura compulsiva), ma come esperienza (quasi) puramente fisica, senza grossi coinvolgimenti emozionali ed affettivi. Non è esclusa una certa dose di violenza nel loro approccio sessuale.

Stiamo parlando ovviamente dei bruti, molto più vicini come modo di sentire e di agire al mondo animale che a quello degli umani.

I bruti (per fortuna!) sono piuttosto rari. Quindi diciamo che questo modo di rapportarsi al sesso è poco diffuso tra coloro che risultano iscritti dalla nascita all’anagrafe civile.

Il secondo modo potremmo dire è l’opposto del primo. E’ quello di coloro che provano una certa ripugnanza (più o meno profonda ed estesa) nei confronti della corporeità (in generale) e della sessualità (in particolare). Di coloro che hanno come modello la natura angelicata e che preferirebbero quindi essere angeli.

Spesso queste persone fanno la scelta della castità (nel campo della sessualità) e si impongono comportamenti (più o meno) ascetici su tutti gli altri piani (ad esempio nel rapporto col cibo, con l’abbigliamento, con la fatica e il tempo libero, ecc…).

E’ la scelta dei preti, dei monaci, dei frati, delle suore, degli eremiti, di molti guru, ma anche di persone che vivono inseriti abbastanza bene nella società comune degli altri umani, ma hanno un rapporto complicato con il loro corpo e in modo particolare con la loro sessualità.

Anche questo modo di essere, comportando implicazioni abbastanza radicali ed estreme, è piuttosto raro, è in fondo la scelta di pochi individui.

Esso indubbiamente risolve alla radice il problema di trovare una sintesi/armonia tra istanze (apparentemente) opposte, ma lo fa attraverso una rimozione delle sue cause, piuttosto che attraverso una loro effettiva risoluzione, lo fa eliminando uno dei corni del dilemma, anziché trovare un “accordo” tra i due corni.

Il terzo modo di rapportarsi al sesso e alla corporeità è quello di trovare un compromesso tra la natura animale presente in ogni uomo (tesa alla esclusiva soddisfazione dei bisogni primari: quelli legati alla sopravvivenza personale e alla riproduzione della specie) e quella più specificamente umana (coltivazione dei sentimenti, degli affetti, del pensiero, dell’intelligenza, della cultura…).

Talvolta (anzi piuttosto spesso) i primi vanno in conflitto con i secondi ( o viceversa) e allora occorre trovare un’armonia o (in mancanza) un compromesso tra i due.

La maggior parte degli uomini preferisce trovare un compromesso, che per forza di cose sta in un punto che potremmo definire mediano tra l’animalità pura e l’umanità ai suoi livelli più alti.

In questo caso parlerei di compromesso “mediocre”, non solo per il significato letterale di questo termine, perché si situa in un punto di medietà tra le due dimensioni in conflitto, ma anche perché comporta il sacrificio, la penalizzazione contemporanea di entrambe le dimensioni.

Questo modo di pensare, di essere e di vivere è quello che è stato codificato nella maniera più perfetta e completa dal modello di educazione borghese, specie da quello piccolo borghese, che potremmo anche definire del “perbenismo borghese”.

Questa modalità non implica una rinuncia al sesso, né tantomeno alla corporeità, ma questi devono essere “contenuti” entro schemi molto ben prestabiliti, delimitati e delimitanti: il piacere non può superare certi limiti (altrimenti scattano i sensi di colpa, collegati alle convenzioni sociali), la nudità è consentita solo in certi ambiti, situazioni e relazioni (altrimenti viene violato il comune senso del pudore), la sessualità deve obbedire a regole e norme alquanto rigide (in alcuni casi sanzionate addirittura dal codice civile).

Nella vita delle persone che adottano questo tipo di modalità il sesso è presente, ma con molta moderazione (come del resto tutto nella loro vita), viene vissuto senza grandi entusiasmi ed eccitazione, starei per dire è un sesso soft, a bassa intensità emotiva e fisica, che col tempo tende poi a svanire del tutto o quasi, in maniera quasi inerziale, sostituito (nel migliore dei casi) da un’affettività più fraterna/amicale che erotico/coniugale.

E’ questo di gran lunga il modo più diffuso di rapportarsi al sesso e alla corporeità presente tra gli uomini.

Ne esiste però un quarto.

E’ quello di coloro che ambiscono a raggiungere le più alte vette dell’umanità: non solo non vogliono restare bruti, ma vogliono evolvere, crescere, sviluppando al massimo il loro potenziale umano (emotivo, affettivo, intellettuale, spirituale); e però non dimenticano, non rimuovono (e non hanno nessuna intenzione di farlo) la loro natura animale (come fanno, invece, coloro che appartengono al secondo gruppo di persone che sto provando a descrivere).

E’ il modo di coloro che vogliono trovare una sintesi, un’armonia (e non un compromesso al ribasso, come fanno coloro che appartengono al terzo gruppo) tra le esigenze della spiritualità e quelle della corporeità.

Una sintesi, un’armonia che non penalizzi né la spiritualità né la corporeità, ma (paradossalmente, però molto concretamente) le esalti entrambe.

Sono persone che (a voler usare ancora un paradosso) ambiscono a diventare angeli restando bestie e restare bestie diventando angeli.

Per queste persone la corporeità ha una grande importanza nella loro vita; come ce l’ha in modo particolare il sesso. Queste persone non solo non rifuggono dall’attività sessuale, né tanto meno la disprezzano, ma la praticano molto attivamente e con grande entusiasmo: vivono insomma un sesso hard.

Inoltre non si rassegnano all’idea che col tempo, con l’età che avanza, la loro vita sessuale debba inevitabilmente appassire, sfiorire, diradarsi, fin quasi a scomparire.

Questo non vuol dire che pratichino un sesso puramente bestiale e animale, come fanno le persone che appartengono al primo gruppo. Anzi per loro sessualità e spiritualità devono andare di pari passo: né la spiritualità deve essere una denegazione o una sublimazione della sessualità, né questa deve essere negazione e annullamento della spiritualità.

Per queste persone allora anche la sessualità non è la ripetizione meccanica di gesti sempre uguali (come per gli animali), ma è un terreno, un ambito di ricerca e di sperimentazione, come del resto tutte le altre dimensioni della loro vita.

La stessa morale, in questo ambito, non viene vissuta come un insieme di norme imposte dai costumi sociali vigenti e introiettate, accettate in modo quasi automatico e senza nessuna valutazione critica. Ma un terreno su cui fare ricerca, da mettere costantemente in discussione, in qualche modo da “trasgredire” (nel senso letterale dell’andare oltre), avendo come unica stella polare il rispetto di sé e (in un certo senso ancora di più) degli altri.

Per queste persone, insomma, in campo sessuale vale alla lettera la massima di S. Agostino “ama e fa ciò che vuoi!”. Nel senso che la morale comune in campo sessuale non vale, può essere e va trasgredita, se la sua trasgressione è dettata dall’amore.

Un esempio sublime di questo tipo di approccio è dato dalle pratiche tantriche, che sono allo stesso tempo una forma di spiritualità (quasi di religiosità) e un modo di teorizzare e vivere la sessualità (ben oltre i confini ristretti della morale comune).

Ricco di indicazioni, a tale proposito, è il bel libro dei maestri di Tantra Elmar e Michaela Zadra “Trasgredire con amore”, edizioni Mediterranee.

Il Tantra a mio modo di vedere è la più alta realizzazione della sintesi , dell’armonia tra sessualità/corporeità e spiritualità/religiosità finora raggiunta nell’esperienza storica degli umani.

Ben diversa dal compromesso mediocre di cui si accontenta il perbenismo borghese, che caratterizza il modo di vivere la spiritualità e la sessualità della maggior parte degli uomini e delle donne. Almeno lo ha caratterizzato finora nella storia.

Giovanni Lamagna