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Ogni rapporto di coppia è sempre, come minimo, un rapporto a tre.

Qualsiasi rapporto di coppia non è mai un rapporto a due, ma è sempre – come minimo – un rapporto a tre.

Perché è segnato da un imprinting originario, costituito dal rapporto di ciascun membro della coppia con i suoi rispettivi genitori.

In ogni rapporto di coppia incombe, dunque, sempre – come minimo – una figura terza.

Che in molti casi svolge un ruolo negativo, giudicante, censorio, fonte di sensi di colpa.

In altri casi, invece, un ruolo positivo: impedisce cioè che il rapporto di coppia – col tempo, con la routine – diventi puramente affettuoso; e, quindi, para-incestuoso.

Infatti, la figura terza – con il sentimento di rivalità e competizione che inevitabilmente provoca – contribuisce – se i due membri della coppia riescono ad utilizzarla – a tener viva l’adrenalina del desiderio, l’alimenta di continuo.

© Giovanni Lamagna

Tabù e sensi di colpa.

Ci sono donne che, invece di esserne gratificate, sono addirittura infastidite dalla libido dei loro partner, quando questa si manifesta come particolarmente vivace e fantasiosa.

Ciò è dovuto al fatto – con tutta evidenza – che essa le costringerebbe, se fosse da loro condivisa, a fare i conti fino in fondo con l’educazione sessuale, più o meno repressiva, ricevuta da bambine, e con i tabù che ne sono conseguiti.

Cosa che, invece, non sono disposte a fare, perché smuoverebbe troppi equilibri che non vogliono mettere in discussione e scatenerebbe sensi di colpa per loro insopportabili.

Per cui preferiscono rincantucciarsi in una sessualità di routine anziché godere di una sessualità sfavillante ed effervescente che sarebbe del tutto alla loro portata.

Quello che ho appena scritto qui vale ovviamente (lo dico subito, ad evitare malintesi e prevedibili accuse di maschilismo) anche per l’altro sesso.

Vale cioè anche per molti uomini nei confronti delle “loro” donne, laddove queste manifestassero una sessualità particolarmente spigliata e disinvolta.

© Giovanni Lamagna

Due opzioni (opposte) di vita: routine o avventura.

La gran parte delle persone preferisce una condizione di vita, magari poco piacevole ma molto rassicurante, fondata sulla monotona routine, ad una, forse più piacevole ma anche più rischiosa, condizione di vita, caratterizzata dalla ricerca continua.

La ricerca continua dà (può dare) molte gioie; a volte persino elettrizzanti; ma – indubbiamente – tiene sotto tensione.

E i più non reggono questa tensione; le preferiscono una piatta, poco eccitante, ma tranquilla e sicura ripetitività.

Questione di gusti!

© Giovanni Lamagna

Farsi compagnia.

La compagnia è un’ottima cosa.

Soprattutto quando – come consiglia Seneca – è alternata a momenti di solitudine.

Questa, infatti, oltre certi limiti, non è sopportabile, se non dai misantropi, e non fa bene allo spirito; è – possiamo dirlo – una brutta bestia.

“Il farsi compagnia” all’interno di una coppia, quando è tramontata la passione, con i doveri e gli impegni di solidarietà reciproca che questo comporta, è, in fondo, pur sempre una forma di amore reciproco.

Soprattutto quando la cosa è vissuta con consapevolezza e come decisione condivisa.

Ma non è certo l’amore erotico; non ha più niente a che fare con l’amore erotico, che aveva caratterizzato magari la prima fase della relazione di coppia.

E, forse, non è manco l’amicizia, una vera amicizia.

Perché anche l’amicizia, perlomeno la vera amicizia, non è fatta di routine, come lo è quasi sempre il semplice “farsi compagnia”, ma è uno scoprirsi e uno scoprire continui.

© Giovanni Lamagna

Ci sono persone che hanno trovato e altre che non hanno manco cercato.

Ci sono persone (purtroppo, poche!) che hanno trovato (perché l’hanno cercato) dentro di sé un luogo, una sorgente, dalla quale zampilla continuamente il nuovo, l’originale, il mai visto prima.

Sono persone non necessariamente geniali, ma creative.

Ce ne sono poi altre (purtroppo, la maggioranza! almeno ad oggi) che questo luogo non l’hanno mai cercato e, quindi, non l’hanno mai trovato.

Sono le persone che vivono dell’heideggeriano “così si dice” e “così fan tutti”.

Che si accontentano del solito, del già noto, del déjà vu, della routine.

Che, quindi, non sanno manco cosa sia o dove stia di casa la creatività.

© Giovanni Lamagna

Amore: sentimento, arte e scienza.

A mio avviso, le coppie (ma, io direi, anche le famiglie intere: quindi, genitori e figli) farebbero bene a dedicare uno spazio della settimana (un paio di ore, ad esempio) a quella che – quando stavo da ragazzo in Azione cattolica – veniva definita “la revisione di vita”.

Che, in questo caso, applicata a questa situazione, sarebbe un esame di coscienza dello stato delle relazioni all’interno della coppia, innanzitutto, e all’interno della famiglia, laddove in questa esperienza fosse coinvolta l’intera famiglia.

Un esame di coscienza delle cose che non sono andate nell’arco della settimana, ma anche un’affermazione/esternazione delle cose che si desidererebbe accadessero tra marito e moglie e tra genitori e figli.

So bene che all’acquisizione di questa (per me) “sana abitudine” si oppone l’argomento che l’amore – che naturalmente regna (o, meglio, dovrebbe regnare) all’interno di una coppia e di una famiglia – basta e avanza per affrontare e risolvere tutti i problemi.

Ma io sono fermamente convinto che questo argomento sia infondato; non tanto perché non creda che sia l’amore la soluzione dei problemi di coppia e delle famiglie, ma perché ritengo che l’amore non sia affatto un sentimento (solo) naturale e spontaneo.

Ma che l’amore sia un sentimento che nasce, sì, spontaneo e in modo istintivo e naturale (altrimenti manco si potrebbe parlare di amore in una relazione), ma che questo sentimento vada poi coltivato e tenuto in vita nel corso degli anni, per evitare che scada nella routine e che quindi, prima o poi, sfiorisca o addirittura si estingua.

Ma in che modo si può coltivare e tenere in vita nel tempo l’amore? Facendo ricorso ad opportuni accorgimenti; tra i quali quello dell’autocoscienza e del confronto – amorevole, ma allo stesso tempo franco e trasparente – mi sembra il principale.

L’amore, insomma, non è solo un sentimento, un affetto, un moto del cuore, ma è anche un’arte, che si apprende e che va esercitata, con cura, interesse e costanza, come ha scritto Fromm in suo splendido libretto del 1956.

In certi casi e momenti, anzi, l’amore richiede addirittura un sapere: il sapere, ad esempio, che mette a nostra disposizione la psicologia, specie la psicoanalisi; l’amore è, quindi, anche una scienza, oltre che un’arte.

© Giovanni Lamagna

Nel giorno degli innamorati una riflessione (dolce e amara) sull’innamoramento e l’amore.

Ci si può innamorare di una persona per quella che è già.

Ma ci si può innamorare anche per quella che potrebbe essere o diventare e non è ancora.

Sono due forme di innamoramento: entrambe presenti nella psicologia umana.

Io credo che nell’innamoramento queste due modalità non si escludano affatto, come molti – anche insigni psicologi e psicoanalisti – credono; ma siano, invece, perfettamente compatibili.

L’una è l’altra faccia dell’altra, necessarie – entrambe – l’una all’altra.

Quando ci si innamora, ci si innamora innanzitutto (e indubbiamente) di una persona come essa è già.

Ma ci si innamora anche (e altrettanto indubbiamente) di ciò che ella promette di diventare, cioè del suo essere potenziale.

Tanto è vero che, spesso, quando questa persona tradisce questo suo potenziale, rinuncia cioè a diventare quella che poteva essere e non era ancora, si smette di amarla.

Magari si resta ancora fisicamente, materialmente con lei, perché troppi interessi – di natura, ad esempio, anche banalmente economica – ci legano reciprocamente.

Ma non lo si è più spiritualmente, perché non si cammina, non si cresce più assieme; l’amore in questo caso sfiorisce e il rapporto scade in una stanca, monotona routine.

Quando non diventa addirittura luogo di logoranti contrasti, di ripetitive ed estenuanti discussioni, in certi casi persino di violenti conflitti, talvolta anche fisici.

© Giovanni Lamagna

Gioia e timore della ricerca.

Ci sono persone dotate di spirito di ricerca e altre che vi sono refrattarie, che si chiudono a riccio, in difesa, timorose di fronte a tutto ciò che sa di ignoto e misterioso.

Preferiscono per questo la routine al movimento, la noia della ripetizione all’entusiasmo del mettersi continuamente in gioco.

Perché – come in parte è anche naturale – prediligono il noto all’ignoto, la sicurezza comoda del già conosciuto all’insicurezza rischiosa del non ancora conosciuto.

© Giovanni Lamagna

Desiderio amoroso e desiderio sessuale

Sartre, sulle orme già tracciate da Freud, distingue il “desiderio d’amore” dal “desiderio sessuale” (1).

Già Freud, infatti, ben prima di Sartre, aveva parlato di una “eterogeneità strutturale tra la dimensione della pulsione sessuale e quella della tenerezza amorosa.” (2)

Lacan aveva poi ripreso questa riflessione mostrando “l’inconciliabilità tra la dimensione del godimento che ruota attorno al carattere autistico della pulsione e quella dell’amore, che invece si nutre del segno di riconoscimento dell’Altro, della sua parola.” (3)

Io condivido la distinzione di cui parlano Freud, Sartre e Lacan, non condivido l’idea che essa equivalga a eterogeneità, anzi inconciliabilità assoluta; non condivido insomma l’idea che la distinzione di cui sopra sia un tratto strutturale e, quindi, insuperabile della “psicologia della vita amorosa”.

Concordo che la divisione tra desiderio amoroso e desiderio sessuale sia presente nella maggioranza, se non nella quasi totalità, dei rapporti amorosi, non concordo però che essa debba essere considerata un dato intrinseco e, quindi, ineliminabile dei rapporti amorosi.

Concordo che, con il trascorrere del tempo e con l’instaurarsi della ripetizione dello stesso e quindi della routine, all’interno dei rapporti amorosi venga il più delle volte ad instaurarsi la scissione di cui parlano sia Freud che Sartre e Lacan.

Concordo che la forte passione, che unisce l’attrazione sessuale alla tenerezza, in un impasto/intreccio in cui l’una tende a rafforzare l’altra e viceversa, caratterizza la maggior parte dei sentimenti amorosi solo nella fase iniziale dei rapporti, quella dell’innamoramento.

Mentre col tempo, nella maggior parte dei rapporti, essa tende a sfumare, a scemare, ad appassire come succede ai fiori, e a divaricare, in due direzioni separate e a volte del tutto opposte, le sue due correnti fondamentali: quella della tenerezza e quella della sensualità.

Ritengo, però, che questo destino di inaridimento e scissione del sentimento passionale iniziale non sia affatto ineluttabile e senza alternative, ma che possa essere affrontato, contrastato e vinto, se le due persone coinvolte nella relazione d’amore ne hanno una cura adeguata e fanno per questo un lavoro costante su se stesse.

A partire dalla consapevolezza necessaria che la divaricazione tra il “desiderio d’amore” e il “desiderio sessuale”, tra la “pulsione sessuale” e la “tenerezza amorosa”, tra la “dimensione del godimento” e la “dimensione dell’amore” ha una radice antica, trova origine nella dinamica edipica della nostra vita infantile.

Quando il “desiderio sessuale” provato dal figlio per la madre e simbolicamente castrato dal padre, che non può permettere al figlio di portargli via la compagna, (e, aggiungo io, dalla figlia nei confronti del padre e simbolicamente castrato dalla madre) si trasforma in “tenerezza amorosa” e viene momentaneamente rimosso, messo sullo sfondo della nostra vita relazionale, diventando latente.

Per riaffiorare poi nuovamente e prepotentemente con la pubertà, ma indirizzato su un nuovo oggetto sessuale, diverso dalla figura genitoriale che lo aveva suscitato per primo, e perciò spesso scisso dal sentimento della tenerezza, collegato indissolubilmente al rapporto con la madre, nel caso del figlio, o del padre, nel caso della figlia.

E’ questo il tempo in cui la vita amorosa dell’individuo può vivere e, in genere, vive, a volte molto intensamente e quindi nevroticamente, questa scissione, incapace di ricomporsi: da un lato la pura attrazione sessuale verso un determinato oggetto erotico, attrazione a suo tempo rimossa, a causa della castrazione simbolica del padre o della madre, dall’altro l’attrazione verso un secondo oggetto erotico, rappresentato da una figura quasi materna o paterna, in cui prevale il sentimento della tenerezza.

Il tempo, l’avanzare dell’età e le ripetute esperienze amorose e sessuali potranno portare però, almeno a mio avviso, (ovviamente e solo se ci sarà stato un lavoro di ricerca, di analisi e di ricomposizione interiore del soggetto coinvolto) al superamento, prima o poi, di questa scissione e alla risoluzione (quasi) definitiva della dinamica generalmente insorta nella fase edipica nel triangolo padre/madre/figlio/a.

La scissione, pertanto, di cui parlano Freud, Sartre e Lacan, per me non è affatto strutturale e insuperabile, ma può essere, prima o poi, risolta, superata.

In altre parole, ad un certo punto della mia vita amorosa, io posso (non è detto che ci riesca, ma c’è questa possibilità) arrivare a provare verso la stessa persona sia un forte sentimento di tenerezza che un intenso desiderio sessuale, senza vivere più il conflitto, di cui parlano i tre autori dalle cui citazioni è partita questa mia riflessione.

E addirittura evitare che col tempo la passione iniziale che, nella fase iniziale del rapporto, intrecciava affetto, tenerezza e intenso desiderio sessuale, si logori, consumi, arrivando ad una nuova divaricazione delle due correnti amorose fondamentali, di cui abbiamo qui estesamente “ragionato”.

© Giovanni Lamagna

  • Massimo Recalcati; “Ritorno a Jean-Paul Sartre”; (2021; Einaudi); p.226
  • ibidem; p. 226-22
  • ibidem; p. 227

Libertà e libertinaggio

Con questa riflessione voglio chiarire un possibile equivoco, che può essere facilmente ingenerato da alcune mie posizioni nei riguardi delle relazioni erotiche e sessuali, quando non vengono correttamente intese.

L’ipotesi della “coppia aperta”, di cui mi sono dichiarato più volte fautore, si pone, regge, ha valore, solo nel caso di un rapporto che funziona, di un rapporto cioè in cui è ancora vivo il desiderio reciproco.

Non certo nel caso di un rapporto nel quale ognuno dei due partner oramai ignora completamente l’altro, si fa i cavoli propri, vive una vita del tutto sganciata da quella dell’altro/a.

Non ha senso, quindi, nel caso di un rapporto che è oramai morto nei fatti o, perlomeno, è del tutto disfunzionale; di quale “coppia aperta”, infatti, si potrebbe parlare, nei casi in cui la coppia di fatto non esiste più?

Fatta questa premessa, io sono convinto però che una coppia, per funzionare bene, ha bisogno – come condizione base per la sua esistenza – della libertà reciproca dei suoi due membri, allo stesso modo di cui i polmoni hanno bisogno dell’aria per respirare.

Ma, anche qui intendiamoci bene, la libertà è altra cosa – smontiamo quest’altro equivoco – dal libertinaggio.

Il libertinaggio, infatti, (quasi sempre) è unilaterale e viene imposto da uno dei due partner all’altro; la libertà, invece, è bilaterale, è una scelta, consapevole e persino formale, fatta da entrambi i partner.

Mi rendo conto, sono pienamente consapevole, che non è facile condividere questa visione dei rapporti amorosi; e che è ancora meno facile metterla in pratica.

Ma l’esperienza mi insegna che, se il rapporto non viene vissuto in questo modo, quasi inevitabilmente (se non inevitabilmente) finisce nelle secche della routine.

Che è, poi, l’anticamera dell’esaurimento sostanziale, se non anche formale, di una relazione erotico-sessuale.

Basta vedere come vivono la maggior parte (non tutte, ma la maggior parte, sì) delle coppie, dopo un certo numero di anni.

Nella migliore delle ipotesi i due membri della coppia sono diventati amici fraterni; nella peggiore si sopportano appena e con molta fatica; in alcuni casi arrivano addirittura ad odiarsi e, perfino, alla violenza.

Certo – anche di questo sono ben consapevole – la maggioranza di noi non è disposta ad accettare questa realtà dei fatti e si ostina a credere nel mito/sogno dell’amore romantico; cioè dell’amore esclusivo, se non anche eterno.

E così i più vanno a sbattere, magari più volte nella loro vita, contro la realtà che – dura come roccia – smentisce quel mito e quel sogno.

Per cui la maggior parte delle società (anche quelle contemporanee, anche quelle culturalmente più evolute, secondo gli schemi della cultura occidentale) continuano (non so se più ipocritamente o più stupidamente) a confermare quel mito e quel sogno.

Oppure a praticare (se non proprio a teorizzare) una libertà di costumi, che vale (ancora, come già in epoche passate) solo per i maschi e non (come sarebbe giusto che fosse) per entrambi i sessi.

Donde la domanda che mi pongo da tanto tempo e la cui risposta a me pare oramai scontata: è sana una società che vive sulla ipocrisia di valori a cui non riesce a mantenersi fedele e sulla ingiustizia di una millenaria disparità tra maschi e femmine?

© Giovanni Lamagna