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L’esperienza della psicoanalisi.

L’esperienza della psicoanalisi è in fondo – potremmo dire – un’esperienza di illuminazione.

La famosa frase di Freud “laddove c’era l’Es ci sarà l’Io” potrebbe, infatti, essere così riscritta “laddove c’era – se non proprio tutto buio – qualche o molta nebbia, ci sarà – se non proprio tutta luce – almeno qualche schiarita”.

In questo processo di illuminazione si tratta di andare alla ricerca del proprio fantasma originario – potremmo anche dire del proprio daimon – di scoprirlo e ri-soggettivarlo.

Soggettivare il proprio fantasma originario significa passare da uno stato, in cui io-soggetto sono guidato, quasi telecomandato dal mio fantasma originario, ad uno stato nel quale io collaboro, sono co-agente col mio fantasma originario.

Divento, quindi, protagonista, attore, facitore, in qualche modo persino creatore della mia vita e non semplice marionetta nelle mani di qualcun altro o di alcuni altri.

Nel passaggio da uno stato all’altro, il mio daimon da catena diventa risorsa, da peso e vincolo si trasforma in possibilità, potenzialità, da “kakos” (cattivo) diventa “eu” (buono).

Ho allora la possibilità di conquistare la mia (quota-parte di) felicità (eu-daimonia), laddove prima ero (solo) vittima, schiavo di infelicità (caco-daimonia).

© Giovanni Lamagna

Parola scritta e crescita umana.

“Se il linguaggio è un trauma per l’uomo perché lo separa dalla propria esistenza immediata e naturale – aliena la vita animale nella vita umana – …” e se “… la parola è un trauma per il linguaggio perché introduce nel campo universale e anonimo del Codice della lingua l’elemento assolutamente singolare ed evenemenziale della parola…” (Massimo Recalcati; “Le nuove melanconie”; pg. 136), ho l’impressione che l’invenzione, l’uso, l’apprendimento, la pratica della parola scritta costituiscano un ulteriore trauma (positivo) per il singolo soggetto e per il genere umano nel suo complesso.

Perché la parola scritta lo “costringe” ad oggettivare il suo pensiero e, quindi, a prendere ancora più consapevolezza di sé stesso, mettendo una distanza ancora maggiore tra sé stesso e l’Altro da sé, come nessuna parola semplicemente orale riesce a fare.

Non a caso con l’invenzione della parola scritta diciamo che inizia la storia; quella che la precede, quando dominava la sola parola orale, è solo preistoria.

Con l’invenzione della parola scritta l’Uomo fa un’ulteriore e significativo balzo in avanti nella sua evoluzione dalla vita animale a quella umana.

Con l’apprendimento della scrittura il singolo uomo fa un ulteriore balzo in avanti nel suo processo di crescita; non solo intellettuale, ma umana nel suo complesso.

© Giovanni Lamagna

Spunti di riflessione sulla nozione “capacità di intendere e di volere”.

A partire dalle vicende di Angelo Izzo, il mostro del Circeo e di Ferrazzano, e di Alessia Pifferi, la madre che ha fatto morire di stenti la figlia di un anno e mezzo, lasciandola sola per sei giorni.

Qualche pomeriggio fa ho visto su Canale 9 un documentario su Angelo Izzo, il famigerato assassino (molti lo hanno definito “mostro”) del Circeo, in provincia di Latina, e di Ferrazzano, in provincia di Campobasso.

Vi si raccontavano fatti che, seppure molto noti, non finiscono mai di provocare orrore, tanto sono stati feroci, e profondamente turbare, tanto erano e sono inspiegabili alla luce della ragione umana; di quella che consideriamo la “ragione umana”.

E, però – a distanza di tempo da quei fatti, che già (come un po’ tutti, credo) conoscevo abbastanza bene – la cosa che più mi ha colpito (ancora una volta) è constatare da quanta confusione, incertezza, labilità, vaghezza sono avvolti concetti, quali “colpa”, “reato”, “responsabilità”, “malattia mentale”, “normalità”, “follia”, “capacità di intendere e di volere”, “pericolosità sociale”, “pena”, “carcere”, “recupero sociale del condannato a una pena carceraria”, “pentimento”, “redenzione”, “libertà vigilata”, “diritto della comunità ad essere tutelata”.

E, forse (anzi sicuramente), ne ho dimenticato ancora qualcuno.

Nel merito di essi (o di alcuni di essi) vorrei sintetizzare qui brevemente il mio punto di vista.

Nessuno (credo), meno che mai io, mette in discussione che la pena debba avere un valore redentivo oltre che punitivo – anzi più redentivo che punitivo – di chi ha commesso un reato, un qualsiasi reato, anche il più grave ed efferato, come lo furono indubbiamente quelli compiuti da Angelo Izzo.

Una società civile, progredita, ma io direi anche semplicemente umana, non si regge sul criterio della vendetta, sul metro dell’ “occhio per occhio, dente perdente”.

Una società civile, umana, non si pone sullo stesso livello di uno dei suoi membri che esce, si mette fuori dal consorzio umano, perché si abbassa ai livelli della bestia e in certi casi, addirittura, della bestia feroce.

Una società civile resta umana anche di fronte alle peggiori brutalità, anche di fronte al mostro, cioè a colui che si degrada a un livello subumano o disumano.

E, però, questo premesso, credo anche che una società nel suo complesso abbia il diritto di difendersi, di tutelarsi di fronte a quei suoi componenti, che hanno già dimostrato o anche solo sono sospetti (seriamente, fondatamente sospetti) di pericolosità sociale, cioè di poter arrecare danno al corpo sociale o a sue singole parti.

In questo senso i concetti di detenzione o di libertà limitata e molto vigilata non sono per niente in contraddizione con quelli di cura e di recupero sociale.

Di cura, nel caso delle malattie mentali; ovviamente non nei manicomi di famigerata memoria, ma in strutture (meglio, case) appositamente strutturate e organizzate.

Di recupero sociale, nel caso di reati, specie nel caso di reati particolarmente efferati, come lo furono indubbiamente quelli del Circeo e quelli di Ferrazzano.

Altro capitolo in cui vedo regna molta confusione è quello relativo al rapporto tra la malattia mentale, la capacità di intendere e di volere, la conseguente responsabilità penale e il tipo di condanna inflitta nel caso di reato, specie nel caso di omicidio.

A me sembra che in questo campo esercitino le loro professioni dei veri e propri improvvisatori, a volte manifestamente incompetenti; o che addirittura alcune professionalità (quella dei giudici, ad esempio) si arroghino esse stesse competenze o quantomeno valutazioni che non dovrebbero spettare a loro.

Chi può, ad esempio, valutare la “capacità di intendere e di volere” in uno specifico momento, quello in cui si compie un delitto?

Non certo i giudici, che non ne hanno le competenze!

Ma solo dei seri e esperti professionisti della psiche, dotati di accertate capacità diagnostiche, possibilmente, meglio, se in consulto tra di loro; e il loro parere dovrebbe risultare vincolante per i giudici e per le eventuali giurie popolari.

Inoltre, si può sganciare la nozione “capacità di intendere e di volere” (categoria estremamente vaga e generica) da quella di “malattia mentale”, quand’anche questa si manifestasse nella “semplice” (???) forma di “disturbo grave della personalità”?

E se, come nella maggior parte dei casi (a mio avviso, in maniera indubitabile in quelli di cui si parlava nel documentario), non si può separare la prima dalla seconda, che senso ha condannare allora all’ergastolo una persona come Angelo Izzo?

Anzi, metterla in prigione e buttare la chiave, come suggeriva e si augurava – candidamente e nello stesso tempo cinicamente – un giornalista nel documentario di cui sto riferendo?

P. S.

Tali giudizi mi sono tornati alla mente – e trovano per me ulteriori ragioni di conferma – quando ho appreso la sentenza (emessa appena qualche giorno fa) di condanna all’ergastolo di Alessia Pifferi, la madre accusata per l’omicidio della figlia Diana di un anno e mezzo, lasciata a casa da sola per sei giorni e morta perciò di stenti.

Anche in questo caso una perizia psichiatrica (eseguita nel corso del processo dallo “specialista” Elvezio Pirfo) aveva accertato che l’infanticida era capace di intendere e volere al momento dei fatti.

Come se una donna, “cresciuta in assoluto isolamento morale e culturale”; che da piccola aveva subito abusi, era stata vittima di violenza, non era andata a scuola, afflitta da un deficit cognitivo, vissuta senza un lavoro, in condizioni di estrema indigenza, che, non sapendo di essere incinta, quando viene il momento partorisce in un bagno, possa essere considerata “normale” e, quindi, “capace di intendere e volere” mentre commette un delitto.

Mi chiedo: ma dove lo hanno pescato i giudici del tribunale di Milano, che hanno condannato all’ergastolo la signora Alessia Pifferi, questo esimio signor Elvezio Pirfo?

Hanno mica scambiato per uno specialista in perizie psichiatriche il primo passante che hanno incrociato sotto al Palazzo di Giustizia di Milano?

© Giovanni Lamagna

Padri,madri e figli.

Ogni figlio è (o, meglio, sarebbe) destinato a “superare” (se è maschio) il padre o (se è femmina) la madre, nei “livelli di umanità” (mi sia consentita una tale espressione, mi rendo conto alquanto azzardata) dalla madre o dal padre raggiunti.

La realizzazione di questo destino comporta però tre tappe: l’inciampo (quasi inevitabile) nei sensi di colpa, il loro eventuale attraversamento e – se il processo riesce positivamente – il loro superamento.

Sensi di colpa simili a quelli che si trovò ad affrontare, ad esempio, Sigmund Freud di fronte alla vista del Partenone di Atene, quando provò rimorsi nei confronti del padre che non aveva potuto sperimentare la gioia che egli stava provando in quel momento.

Non tutti i figli e le figlie sono (purtroppo!) capaci di attraversare e superare tali sensi di colpa: alcuni ne restano sopraffatti e ciò blocca la realizzazione del loro destino (quello di “superare” i rispettivi genitori) e di attuare il loro potenziale di umanità.

© Giovanni Lamagna

Psicoterapia e conoscenza di sé.

Un percorso psicoterapeutico (di qualsiasi tipo esso sia, da qualsiasi “scuola” sia portato avanti) in fondo non è altro che un percorso di conoscenza.

Ovviamente di un particolare tipo di conoscenza, molto diversa, ad esempio, da quella che ci fornisce l’istruzione scolastica, ma anche molto diversa da quella che possiamo definire “formazione culturale”.

Nel caso specifico la psicoterapia mira alla conoscenza di sé stessi, della propria storia esistenziale, dei blocchi psicologici, che nel corso di essa si sono venuti a formare e delle loro cause.

A volte succede che questo processo di autoconoscenza e di autoanalisi porta con sé, quasi come esito automatico e naturale, la risoluzione (più o meno totale) dei blocchi, dei nodi problematici di cui si è parlato prima.

A volte, però… il che non vuol dire che ciò accada sempre.

Altre volte (e non azzardo la percentuale di volte) può succedere che, alla fine di un percorso terapeutico, il soggetto che vi si è sottoposto sia venuto a conoscere molto di sé, ma non stia affatto meglio di quanto lo fosse prima di iniziarlo.

Questo vuol dire che la psicoterapia garantisce (quasi sempre) maggiore e migliore conoscenza di sé, ma non garantisce sempre – alla sua conclusione – un maggiore benessere.

Meno che mai la cosiddetta “guarigione” dai sintomi che ci avevano spinti ad iniziare la psicoterapia; come spesso quelli che vi si approcciano sono portati a immaginare e (illusoriamente) sperare.

© Giovanni Lamagna

Rivoluzione e ribellione.

Giustamente Maurizio Bettini nel suo recente saggio “A sinistra da capo” (Paper FIRST 2022) fa notare che “chiedere in questi momenti la “buona educazione” appare quantomeno “peloso”. La calma e la ragionevolezza sono il privilegio di chi sta in alto; che ha il tempo di pensare e poi deliberare” (pag. 15).

Sta parlando (come era facile intuire) dei momenti, che segnano la Storia, in cui gli oppressi si ribellano agli oppressori, in genere in maniera violenta e spesso cruenta, talvolta ricorrendo persino al terrore.

Concordo pienamente, prendendo atto di quella che pure a me sembra una realtà che ci viene consegnata dalla Storia.

E però mi chiedo: sono davvero rivoluzionari momenti come questi? O non sono destinati fatalmente a riproporre molte volte, anche se in forme diverse, gli stessi soprusi ai quali essi avevano provato a ribellarsi?

Qui mi sovviene la distinzione che già altre volte ho fatto tra il concetto di “ribellione” e quello di “rivoluzione”.

Nella “ribellione” prevale nettamente, se non esclusivamente, la pars destruens; l’abbattimento del sistema considerato ingiusto; senza andare troppo per il sottile quanto ai mezzi e ai modi.

Nella “rivoluzione” (in una vera rivoluzione) c’è indubbiamente una “pars destruens”, ma allo stesso tempo è già ben presente anche una “pars construens”, che presuppone (o, meglio, presupporrebbe) “calma” e “ragionevolezza” anche da parte di chi sta sotto e si ribella a chi sta in alto.

Proprio la “calma” e la “ragionevolezza” definiscono per me la rivoluzione.

Di cui, invece, fa sempre a meno la ribellione, che le considera un lusso, che non ci si può permettere, se si vogliono raggiungere determinati obiettivi di cambiamento.

Per questo io non credo alle cosiddette rivoluzioni violente; alle “rivoluzioni” intese come evento; anche quando nascono e sono animate in partenza dalle migliori intenzioni.

Per me la vera rivoluzione è quella che si realizza un poco alla volta, attraverso riforme progressive dell’esistente, facendo ricorso appunto alla “calma” e alla “ragionevolezza”, avendo “il tempo di pensare e poi deliberare”.

Per me la rivoluzione è un processo, non un evento; è tutt’al più una catena di eventi legati tra di loro che, in maniera graduale e mai improvvisa, realizzano il cambiamento.

E’ una categoria concettuale (oltre che una concreta realtà psicologica o sociale) più affine a quella di “evoluzione” che a quella di “ribellione”.

Aggiungo, per chiudere questa riflessione, che ciò che vale in ambito politico-sociale per me vale – pari, pari – anche in ambito psicologico- individuale.

I veri e profondi cambiamenti dentro di noi non avvengono mai all’improvviso e in base ad un singolo fattore.

Sono sempre il frutto dell’accumularsi, intrecciarsi, sedimentarsi di una molteplicità complessa di elementi.

Che possono anche esplodere in forma vistosa ed eclatante in un singolo momento, ma non si riducono mai semplicisticamente a questo.

© Giovanni Lamagna

Meditazione e azione.

Sono convinto che una buona parte del nostro processo di crescita interiore e spirituale si fondi sulla meditazione.

Che è la rielaborazione a livello interiore, cioè di consapevolezza, delle esperienze che abbiamo concretamente, esteriormente, vissute.

Per carità, l’azione è indispensabile.

Le buone intenzioni non bastano.

Le buone intenzioni da sole non ci trasformano.

Ma all’azione (indispensabile!) va sempre accompagnato un parallelo processo di meditazione, coscientizzazione.

Manco l’azione da sola, senza un’adeguata consapevolezza di quello che abbiamo fatto e di quello che abbiamo intenzione di fare, ci trasforma.

© Giovanni Lamagna

Incontri e destino

Sono convinto che non sia il caso, ma il destino a fare incontrare due persone.

Sia ben chiaro, qui non sto parlando di un destino programmato dagli astri, meno che mai di un destino assegnato da magie e sortilegi, meno che mai di un destino deciso da una qualche volontà divina.

Sto parlando molto più laicamente del destino legato al nostro patrimonio genetico e a quel complesso di esperienze che ci hanno formato e fatto diventare quello che siamo, specie – come ci ha insegnato la psicoanalisi – nell’infanzia e nel contesto socio-ambientale nel quale siamo nati e cresciuti.

In base a questo destino ognuno di noi, chi più e chi meno, si porta inevitabilmente appresso, dentro di sé, nodi psicologici irrisolti, più o meo profondi, più o meno estesi.

E sono proprio questi nodi irrisolti (parti di noi che si devono – o dovrebbero- sciogliere, risolvere, semplificare, organizzare altrimenti, incanalare su strade diverse da quelle su cui l’educazione ricevuta ci ha portato, senza che noi lo volessimo o lo avessimo deciso…) che ci fanno incontrare determinate persone e non altre.

Le persone che incontriamo vengono quindi “scelte” inconsciamente da noi, in base a un sorta/complesso di algoritmi psicologici, di cui siamo il più delle volte del tutto inconsapevoli e, quindi, per la gran parte misteriosi ai nostri occhi, indecifrabili o molto, molto difficilmente decifrabili.

E’ a questa sorta/complesso di algoritmi psicologici che io do il nome di “destino”.

E cosa vuole da noi questo destino, quale compito ci assegna, soprattutto attraverso le persone che incontriamo sulla nostra strada?

La mia risposta a questa domanda è: vuole che sciogliamo i nodi irrisolti che ci portiamo appresso da una vita, vuole che, anche, anzi soprattutto, attraverso la relazione con le persone di cui ci innamoriamo o con cui entriamo semplicemente in relazione, facciamo un ulteriore passo avanti nella nostra crescita umana, specie in quella emotivo-affettiva.

Vuole che introduciamo un elemento di discontinuità, se non di vera e propria rottura, rispetto al nostro passato, che interrompiamo la replica continua, la coazione a ripetere, che hanno fino ad allora caratterizzato il nostro comportamento e le nostre scelte.

Per questo ci innamoriamo di qualcuno o di qualcuna o ne diventiamo amico/a.

A questo qualcuno o qualcuna arriviamo perciò grazie ad una sorta di destino o, meglio, di pensiero inconscio, che ci indica la strada per evolvere, per districare nodi che da soli non saremmo in grado di sciogliere; probabilmente manco con l’aiuto di uno psicoterapeuta.

Forse per questo il sentimento dell’innamoramento (e, in qualche caso, della stessa amicizia) è così forte e travolgente: perché nella persona di cui ci innamoriamo o diventiamo amici intimi intravediamo (ecco perché è impossibile separare l’amore e l’amicizia da un certo quota di egoismo) una via di salvezza per noi, di uscita da un vicolo cieco, la possibilità di nuove aperture da esplorare e nuovi orizzonti da raggiungere.

Ed ecco perché l’amore e l’amicizia durano fin tanto che questo processo di apertura, scioglimento, liberazione, evoluzione si mantiene attivo, vivo.

Muoiono, invece, si estinguono, si esauriscono o quantomeno di assopiscono e appassiscono, quando quel movimento, quel processo, si arenano, finiscono in qualche secca, perdono, in parte o del tutto, la loro carica propulsiva, propellente indispensabile per la nostra evoluzione psicologica.

© Giovanni Lamagna