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Auguri di Natale.
Non è facile, in tempi cupi come questi, fare gli auguri di Natale.
Viene da chiedersi: che senso ha?
Eppure, forse mai come in tempi simili, ha un senso farlo.
“Spes ultima dea”: dice un vecchio proverbio; ed a ragione.
Che la speranza di una vita (non solo privata ma collettiva) sia, dunque, l’ultima a morire!
Che questo Natale la faccia rinascere o la rinforzi, laddove fosse morta o si fosse affievolita nei nostri cuori!
Che l’ottimismo della volontà prevalga sul pessimismo della ragione!
Il futuro collettivo, in fondo, dipende anche (almeno un poco) da ciascuno di noi.
Tanti auguri, amici!
Giovanni
Piccola proposta per la mezzanotte del prossimo 31 dicembre
Vorrei lanciare una modesta, piccola idea/proposta.
Alla mezzanotte del prossimo 31 dicembre non possiamo stappare lo spumante, mangiare il panettone, abbracciarci per festeggiare l’inizio del nuovo anno con i nostri cari e, magari, sparare i botti, come se nulla fosse, come se si stesse concludendo un anno come un altro, come se in questo 2020 non fosse successo nulla di particolare.
Non possiamo, se siamo ancora umani, farci prendere dalla sbornia della festa per il nuovo inizio e rimuovere il pensiero che l’anno trascorso si è portato via – solo nel nostro paese – 70mila persone (uomini e donne in carne ed ossa e non semplici numeri), migliaia di morti in più rispetto a quelli che comunque ci sarebbero stati, in base alle (fredde e anonime) statistiche degli ultimi anni.
La proposta che faccio è questa: a mezzanotte, prima di festeggiare l’inizio del nuovo anno, come è giusto che sia, visto che la vita comunque continua e deve continuare, fermiamoci per un istante, un breve, piccolo istante, non più di un minuto, mettiamo magari una candela accesa fuori a un nostro balcone o ad una nostra finestra, e raccogliamo il nostro pensiero in memoria dei nostri morti.
Sarebbe un bel modo, a mio avviso, di cominciare il nuovo anno: dimostrerebbe la nostra capacità di coniugare memoria e sguardo in avanti, dolore e speranza, tristezza e fiducia, realismo e ottimismo, morte e vita.
Se a questi sentimenti aggiungessimo poi il proposito di “cambiare radicalmente rotta”, di mutare vecchie e insane abitudini in nome di una vita più a misura di umanità, perché niente più torni come prima (del Covid 19), sarebbe il non plus ultra.
Che ne dite?
© Giovanni Lamagna
Passato, presente e futuro
Ci sono uomini e donne che preferiscono guardare prevalentemente all’indietro, al loro passato.
I loro stati d’animo prevalenti sono la nostalgia o il rimpianto.
Ce ne sono altri che vivono del tutto proiettati in avanti, nel futuro.
I loro stati d’animo prevalenti sono l’ottimismo (a volte addirittura fanatico) o l’attesa messianica (spesso inerte e passiva).
L’ideale per me è stare ben piantati nel presente, con un occhio rivolto al passato, per trarne eventualmente lezioni, e con l’altro rivolto al futuro, per provare in qualche modo a prevederlo e progettarlo per quanto possibile.
I sentimenti che mi animano sono quindi: piacere di vivere il presente, nella consapevolezza che è l’unico momento che ci appartiene veramente; fiducia nel futuro, ma senza nessun futile ottimismo; senso della storia e del passato, ma senza alcuna nostalgia.
© Giovanni Lamagna
Passato, presente e futuro
Ci sono uomini e donne che preferiscono guardare prevalentemente all’indietro, al loro passato.
I loro stati d’animo prevalenti sono la nostalgia, intrisa di malinconia, e il rimpianto, il più delle volte sterile e paralizzante.
Ce ne sono altri, invece, che vivono tutti proiettati in avanti, nel futuro, quasi dimentichi del presente e, ancora più, del passato.
I loro stati d’animo prevalenti sono l’ottimismo e l’attivismo esagerati (a volte addirittura fanatici) o l’attesa messianica (spesso inerte e passiva).
Non vorrei assomigliare né agli uni né agli altri.
© Giovanni Lamagna
Ideali, vizi, virtù, realismo, pessimismo, ottimismo in politica.
Norberto Bobbio, in un sapido e piacevole libretto del 2001, intitolato “Dialogo intorno alla repubblica”, frutto di una serie di colloqui avuti con lo storico del pensiero politico Maurizio Viroli (tra pag. 8 e pag. 9) così scrive:
“… In politica sono un realista… La politica, sia quella monarchica, sia quella repubblicana, è lotta per il potere.
Parlare di ideali, così come ne parli tu, per me significa fare un discorso retorico. Anche quando i tuoi scrittori celeberrimi parlavano di repubblica, in realtà quello che di fatto succedeva nel mondo, era la politica com’è sempre stata dai Greci in poi.
La politica come lotta per il potere la capisco, se parli invece della politica che ha per fine la repubblica basata sulla virtù dei cittadini, io mi domando cos’è questa virtù dei cittadini.
Spiegami dov’è uno Stato che si regga sulla virtù dei cittadini, uno Stato che non ricorra alla forza!
La definizione dello Stato che ricorre continuamente è quella secondo cui lo Stato è il detentore del monopolio della forza legittima, forza necessaria perché la maggior parte dei cittadini non è virtuosa, ma viziosa.
Ecco perché lo Stato ha bisogno della forza, questa è la mia concezione della politica.
E’ una categoria della politica diversa da quella che ritiene di poter parlare di Stati fondati sulla virtù dei cittadini.
Ti ho detto, la virtù era l’ideale giacobino.
La ragione per cui ci sono gli Stati, repubbliche comprese, è quella di tenere a freno i cittadini viziosi, che sono la maggio r parte.
Nessuno Stato reale si regge sulla virtù dei cittadini, ma è regolato da una costituzione scritta o non scritta, che stabilisce regole per la loro condotta, proprio col presupposto che i cittadini non siano generalmente virtuosi.”
E’ una delle poche volte, forse addirittura la prima, in cui mi trovo in forte, anzi in radicale dissenso col grande filosofo (del diritto e della politica) torinese.
Il dissenso comincia subito, già rispetto alla prima affermazione di Bobbio, quando egli dice “in politica sono un realista”.
Perché a me non pare affatto che Bobbio sia un pensatore “realista”: è, piuttosto, un pensatore “pessimista”, che cerca di far passare per realismo il suo pessimismo; come fecero già, prima di lui, fior di pensatori, quali Machiavelli, Hobbes e, tutto sommato, anche Weber (per fare solo tre nomi).
Definirsi “realisti”, infatti, per me significa vedere le cose come sono, per quello che sono, senza edulcorarle, cioè senza addolcirle secondo i nostri gusti, secondo quello che ci piacerebbe che fosse e, invece, non è.
Ma significa anche non vederle più nere, più negative di quelle che sono, come fa, ad esempio, l’ipocondriaco, il quale si dà già per morto, appena avverte il minimo sintomo o solo perché ha qualche problema di salute
Ora Bobbio è veramente “realista” nel senso che ho detto sopra?
Certo, lui è convinto di esserlo. E’ convinto, cioè, che la natura umana sia fatta in un certo modo e che, per conseguenza, la politica (attività e dimensione umana per eccellenza), sia fatta in un certo modo.
Ma come intende Bobbio la natura umana e come intende, per conseguenza, la politica? E soprattutto la natura umana e la politica sono davvero come le intende Bobbio, per cui egli avrebbe descritto la realtà effettiva degli uomini e della politica?
Perché è su questo che potremo verificare se il “realismo” di Bobbio sia vero realismo o altro. Provo, allora, ad articolare il ragionamento.
Innanzitutto per Bobbio “parlare di ideali… significa fare un discorso retorico”. Il che significa che per Bobbio gli ideali hanno ben poco peso, se non addirittura un peso nullo. Prima affermazione quantomeno opinabile e non certo insindacabile.
La politica, poi, per Bobbio è essenzialmente “lotta per il potere”, “dai Greci in poi”.
Lo Stato si regge sulla forza, sulla forza legittima, di cui detiene il monopolio, ma pur sempre forza.
La “virtù dei cittadini” Bobbio dice di non sapere manco cosa sia. Anzi per lui la maggior parte dei cittadini sono addirittura viziosi e niente affatto virtuosi.
“Nessuno Stato reale si regge sulla virtù dei cittadini, ma è regolato da una costituzione scritta o non scritta, che stabilisce regole per la loro condotta, proprio col presupposto che i cittadini non siano generalmente virtuosi.”
A questo punto abbiamo abbastanza elementi per chiederci: è veramente “realista” la visione che ha Bobbio della politica e quella della natura umana che la sottende?
La mia risposta è: niente affatto! La visione della politica e della natura umana che ha Bobbio non è affatto realista, ma è una visione che possiamo definire nettamente e decisamente “pessimista”.
Bobbio, infatti, non descrive affatto la natura umana quale essa realmente è, ma quale egli ritiene che sia. Come d’altra parte è del tutto naturale, legittimo e, persino, ovvio che sia.
Il punto è che non può pretendere che tutti condividano il suo pensiero, che esso assurga cioè a pensiero assolutamente obiettivo e, quindi, universale.
So bene che per molti pensatori profondamente pessimisti sulla natura umana (come lo furono Machiavelli, Hobbes e, in parte, Weber; Bobbio intende inserirsi evidentemente in questo filone di pensiero) il loro pessimismo altro non era che realismo.
Ma io non condivido affatto questa equivalenza, come del resto non la condivisero molto illustri pensatori (Platone, Rousseau e, in fondo, lo stesso Marx, per citarne i maggiori).
Personalmente ritengo che nell’uomo convivano vizi e virtù. Che parlare di virtù non sia affatto retorico, ma che le virtù abbiano nella definizione complessiva della storia e dell’animo umano almeno lo stesso peso che hanno i vizi.
Anzi io, francamente, sono portato a pensare che le virtù abbiano addirittura un peso maggiore dei vizi, nonostante le apparenze contrarie, perché ritengo che, se a prevalere nella natura umana fossero i vizi, l’Umanità si sarebbe estinta già da tempo.
Ora, per carità, può anche darsi che ad un certo punto della storia e della evoluzione (a quel punto sarebbe meglio chiamarla “involuzione”) umana saranno i vizi a prevalere sulle virtù. Questo io non mi sento di escluderlo. Per tale motivo non mi iscrivo alla categoria dei pensatori ottimisti.
Ma al momento, valutate le zone oscure, quelle grigie e quelle luminose dell’animo e della storia dell’uomo, non mi sento di dire né che prevalgano i vizi, né che prevalgano le virtù. Questo per me è il vero “realismo”.
Per questo io mi definisco e penso di essere (nel mio piccolissimo e con tutto il rispetto per i grandissimi pensatori che ho fin qui citato, compreso Bobbio) un uomo di pensiero “realista”.
Mentre, a mio avviso, Bobbio non lo è, perché in lui prevale una visione della natura e della storia dell’uomo nettamente pessimista.
Per niente confortata dai dati della realtà (perlomeno non in maniera univoca e incontrovertibile), come vuole dare a intendere e come volevano dare a intendere gli “scrittori celeberrimi” da me citati più volte e ai quali Bobbio evidentemente si collega e si è ispirato nell’elaborare il suo pensiero.
Giovanni Lamagna
L’uomo è buono o è cattivo?
3 settembre 2018
In un’intervista rilasciata a “la Repubblica” del 30 agosto 2018 Massimo Cacciari afferma testualmente:
“Pensare che l’uomo sia buono per natura è fare cattiva letteratura. Io credo, con Hobbes, Machiavelli, Spinoza, che l’uomo è di per sé cattivo: captivus in senso etimologico. Prigioniero della più forte delle passioni, l’egoismo. Ci vogliono grandi uomini politici, e politica in grande stile, per rassicurarlo.”
Sono in forte dissenso con questa affermazione di Cacciari. E non perché io pensi l’opposto. E cioè che l’uomo sia in sé buono.
Ma perché penso che l’uomo, in quanto Umanità, non in quanto individuo (ma il discorso, in fondo, è applicabile anche all’individuo) non sia né fondamentalmente buono né fondamentalmente cattivo, ma che sia piuttosto un impasto, variamente miscelato, di “bontà” e di “cattiveria”.
In alcuni uomini (come Socrate, Gesù, Gandhi…) l’impasto vede il prevalere della bontà, in altri uomini (come Gengis Khan, Hitler, Stalin…) vede il prevalere della cattiveria.
Laddove per “bontà” intendiamo una prevalenza della tendenza verso l’altruismo. E per cattiveria una prevalenza della tendenza verso l’egoismo. Mai la sola presenza dell’uno o dell’altro.
D’altra parte, se la realtà umana non fosse più simile a come la vedo io che a come la vede Cacciari (e a come, prima di lui, l’avevano vista Hobbes, Machiavelli e Spinoza), neanche “grandi uomini politici, e politica in grande stile” basterebbero a domare l’uomo “di per sé cattivo”. Come, invece, auspica e ritiene possibile Cacciari.
E uomini politici anch’essi “cattivi”, per quanto grandi, non potrebbero mai essere capaci di condurre uomini fondamentalmente cattivi verso obiettivi buoni ed esiti positivi. Come, invece, auspica e ritiene possibile Cacciari.
Infine, se la realtà umana fosse veramente la giungla immaginata da Hobbes, nella quale ciascun uomo è lupo per l’altro uomo, come avrebbe potuto l’Umanità sopravvivere attraverso i milioni di anni di sua storia?
Non si sarebbe piuttosto, prima o poi, più prima che poi, estinta o, nel migliore dei casi, ridotta a pochissimi nuclei di belve umane disperate, disperse in varie e isolate radure del pianeta?
Io, se guardo la storia dell’Umanità, non sono portato certo all’ottimismo trionfalistico. Ma neanche al pessimismo totale e radicale. Vedo tante ombre tragiche, ma anche tante splendide luci.
Giovanni Lamagna