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Nirvana: estinzione o risveglio?
Il Buddhismo parla del nirvana “sia come estinzione sia come risveglio supremo”.
Giustamente allora Vito Mancuso (nel suo “I quattro maestri”, a pag. 188) si chiede: “Ma come tenere insieme queste due descrizioni? Come si può risvegliare chi si estingue? E, viceversa, come si può estinguere chi si risveglia?”
Le domande che si pone Mancuso sono per me molto giuste e opportune; non lo sono altrettanto – a mio avviso – le risposte che Mancuso si dà nel libro, alla cui utile e sapida lettura rinvio. Provo, quindi, a dare le mie.
Per me il “nirvana” è innanzitutto e senza dubbio uno stato di estinzione dell’uomo vecchio, l’uomo caratterizzato da una volontà egocentrica, autocentrata, quindi, inevitabilmente narcisista ed egoista.
Ma, allo stesso tempo, è anche uno stato di apertura (risveglio, appunto!) ad una condizione di vita nuova, nella quale i desideri non saranno affatto annullati, ma non saranno più quelli egocentrici, autocentrati e, quindi, narcisisti ed egoisti dell’uomo vecchio.
Saranno, bensì, desideri non in conflitto ma del tutto compatibili con quelli degli altri nostri simili e, quindi, fratelli; compatibili perfino, con le esigenze dell’Universo mondo di cui noi siamo parte.
Chi entra nel “nirvana”, infatti, muore al proprio Sé (si estingue pertanto come individualità separata), rompe il guscio nel quale è racchiuso, quasi prigioniero, il proprio Ego.
E nello stesso tempo (o appena subito dopo) si apre, risveglia, ad una nuova vita, dalle dimensioni potenzialmente infinite, in grado di arrivare a comprendere non solo la vita di tutti gli altri uomini, ma anche quella di tutte le altre creature (animali, vegetali, minerali) che formano l’Universo, di cui egli è infinitesima particella.
Quello nirvanico è insomma uno stato di estinzione del proprio particulare e di risveglio (apertura) all’universale, in altre parole di identificazione/fusione con il Tutto.
Ecco perché il concetto di estinzione e quello di risveglio, lungi dall’essere oppositivi e contraddittori, esprimono la stessa realtà, anche se da versanti diversi; per cui – in fondo, in fondo – coincidono.
Non sono convinto (anzi penso proprio il contrario) di aver espresso con questa mia interpretazione l’ortodossia (ammesso che ce ne sia una) del pensiero buddhista relativamente al concetto di “nirvana”.
Sono convinto però che la mia lettura del concetto sia quella migliore (se non l’unica) per risolvere l’aporia evidenziata da Vito Mancuso e dalla quale sono partito per questa mia breve e sintetica riflessione.
E, oltretutto, quella che rende il concetto di “nirvana” accettabile, anzi del tutto condivisibile, anche per noi uomini dell’Occidente, la cui cultura profonda è molto diversa da quella dell’Oriente, di cui si alimentò, com’era ovvio, il pensiero buddhista.
© Giovanni Lamagna
Amore e attrazione
Per Victor Frankl non sono le caratteristiche individuali, fisiche e psichiche, della persona che amo a rendercela amabile, ma è il mio amore che le rende “degne di essere amate” (da “Logoterapia e analisi esistenziale”; Morcelliana 2001; pag. 167).
Francamente non condivido per nulla questa tesi.
Secondo tale pensiero, infatti, (a volerlo portare alle sue estreme conseguenze) ciascuno di noi potrebbe allora innamorarsi di una persona qualsiasi, perché tanto non sono le sue caratteristiche individuali a rendercela amabile, ma, al contrario, è l’amore che le portiamo a farcela desiderare.
Sulla base di questa premessa – che per me è tautologica: io amerei una persona perché la amo – ovviamente Frankl non assegna alcun valore all’aspetto estetico della persona e, meno che mai, al suo abbigliamento.
Fino ad arrivare a scrivere: “Non un abito da sera può fare veramente effetto su un uomo, ma solo se a indossarlo è la donna amata” (ibidem; p.167).
Cosa anche per me ovvia: certo, non si può amare una persona per l’abito che indossa e, a maggior ragione, non si può amare l’abito in sé, a prescindere dalla persona che lo indossa!
Frankl, però, omette di dire che l’abito che indossa può aggiungere un valore estetico e, quindi, attrattivo alla persona per la quale provo già attrazione; attrazione che genera, provoca, il mio amore, senza la quale non ci sarebbe il mio amore.
In altre parole, a me sembra che Frankl neghi totalmente il valore che gioca la dinamica dell’attrazione nell’amore, almeno in quel tipo particolare di amore che siamo soliti definire erotico.
In buona sostanza a me sembra che Frankl dica: trovo attraente una persona perché la amo. Io, invece, sostengo esattamente il contrario: io amo (eroticamente) una persona perché la trovo attraente.
Naturalmente qui sto parlando (lo ripeto ancora una volta) dell’amore erotico. E però è proprio di questo tipo di amore che stava parlando anche Frankl: sono certo di non aver frainteso il suo pensiero.
Non stava parlando di altri tipi di amore: quali quello tra genitori e figli, quello fraterno o quello universale, definito dai Greci col termine “agape”, per i quali l’elemento attrattivo è del tutto secondario: in questi casi – anche per me – l’amore sussiste a prescindere dalle caratteristiche individuali e precipue delle persone coinvolte.
E’ notorio il detto napoletano “ogni scarrafone è bell’ a mamma soia” (“ogni scarafaggio è bello per la mamma sua”). Che vale per l’amore dei genitori per i figli, ma potrebbe valere anche per l’amore dei figli verso i genitori o per quello tra fratelli o per quello che prova il filantropo anche verso il più spregevole degli esseri umani.
Già questo discorso non vale più per quel tipo di amore che definiamo “amicizia” (philia). Perché anche nel caso dell’amicizia l’amore si basa su quelle che sono determinate e specifiche caratteristiche individuali dell’amico, origina da esse.
In altre parole, non si può essere “amico” a prescindere, non si può essere amici di tutti. Si può essere amici solo di determinate persone con ben precise caratteristiche: non si può essere amici di persone che non troviamo attraenti.
A dare poi ancora più forza alla sua asserzione iniziale Frankl aggiunge che è solo l’ “amore spirituale” a rendere “degno” l’amore erotico. Situando così l’amore spirituale su un piano che per me è troppo astratto e non ha nessun riscontro nella realtà.
Nessun essere umano, infatti, – suppongo manco Frankl – si innamorerà mai di una persona a prescindere dalle sue caratteristiche concrete, che sono poi essenzialmente di tre tipi: fisiche, caratteriali ed intellettuali.
La categoria dell’ “amore spirituale” di cui parla Frankl è di natura astratta e del tutto generica, perché vuota di contenuti; è dunque puro “flatus vocis”.
Non esiste l’amore spirituale, perché l’uomo non è un essere spirituale, ma un essere fatto in primo luogo di carne e di ossa e poi dotato anche di emozioni, affetti ed idee, che però senza il corpo non avrebbero alcuna possibilità di sussistere.
Io arrivo a dire che non esistono i “valori spirituali” in senso stretto. Perché la parola spirituale è un contenitore vuoto, a cui non corrisponde nessuna realtà concreta, e perciò è un termine letteralmente insignificante, cioè “senza significato”.
Quando si innamora e quando ama, l’uomo dunque ama innanzitutto un corpo e poi il suo carattere e poi la sua intelligenza. Non ama altro.
Ciò che chiamiamo “spirito” per me è null’altro che l’armonizzazione equilibrata di caratteristiche fisiche, caratteriali e intellettuali; non altro.
Armonizzazione che non è affatto scontata o particolarmente diffusa in natura.
Infatti, ci sono persone che sono belle dal punto di vista fisico, ma non lo sono affatto dal punto di vista del carattere o da quello dell’intelligenza.
Come ci sono persone che sono simpatiche e gradevoli dal punto di vista del carattere, ma brutte fisicamente e insignificanti sul piano intellettuale.
Infine, ci sono persone di grande intelligenza e di alto livello culturale, ma sgradevoli o decisamente brutte sul piano fisico e sgraziate dal punto di vista del carattere.
E’ l’insieme armonioso, integrato, delle caratteristiche intellettuali, caratteriali e perfino fisiche di una persona che costituisce la sua spiritualità.
Non ci si innamora, dunque, della pura spiritualità di una persona, che in sé non esiste, ma di certe sue determinate caratteristiche fisiche, caratteriali e intellettuali, molto concrete, che ce la rendono attraente e, per certi versi (almeno nella fase dell’innamoramento), addirittura unica.
L’attrazione, dunque, contrariamente a quanto sostenuto da Victor Frankl, pesa (eccome!) nelle relazioni erotiche.
© Giovanni Lamagna
Fratelli
Non si è fratelli solo (e neanche tanto) perché si è figli dello stesso padre e della stessa madre.
Si è fratelli soprattutto perché (e nella misura in cui) si condivide lo stesso sguardo sul mondo.
© Giovanni Lamagna
Regno dei Cieli e Regno della Terra
Gesù distingue nettamente il Regno dei Cieli dal Regno della Terra.
Per me non esiste nessun Regno dei Cieli: esiste solo il Regno della Terra.
Compito dell’uomo è quello di provare a realizzare, per quello che è possibile, il Regno dei Cieli qui in terra.
Che per me significa un mondo di uomini il più possibile liberi, uguali e fratelli.
© Giovanni Lamagna
Quando avviene la vera comunicazione
Non è possibile la vera comunicazione, se restiamo alla superficie di noi stessi, se ci fermiamo alle nostre immagini esteriori.
Le superfici, le immagini esteriori, infatti, sono tutte diverse e, perciò, incomunicabili tra di loro.
Alla superficie prevalgono le differenze, che sono difficilmente componibili.
In profondità, invece, siamo tutti simili, se non proprio uguali: siamo tutti uguali nell’essenza.
Perciò, se vogliamo comunicare realmente, dobbiamo scendere in profondità, dove c’è un quid che tutti ci accomuna e ci rende fratelli.
Giovanni Lamagna
Lettera aperta a Massimo Recalcati
Caro Massimo,
ho letto (come sempre, del resto) con molta attenzione il tuo articolo comparso su “la Repubblica” di oggi. Alcune cose mi hanno pienamente convinto, altre meno. Desidero parlartene in un confronto quantomeno virtuale.
Tu affermi: “La colpa di Caino apre la narrazione biblica dell’entrata dell’uomo nella storia.”
Per me “l’entrata dell’uomo nella storia” secondo il racconto biblico non è la colpa di Caino, ma la disobbedienza di Adamo ed Eva a Dio, che ne comportò la cacciata dall’Eden. E’ da questo gesto primario che si origina la libertà e quindi la responsabilità dell’uomo: non credi?
Tu affermi, riprendendo Freud, che “all’origine della vita non c’è l’amore, ma l’odio.”
Io, invece, penso che all’origine della vita non ci sia né l’amore né l’odio, che sono sentimenti, ma piuttosto un istinto primordiale che Schopenhauer ha ben definito con l’espressione “volontà di vivere”. La volontà di vivere, che è comune agli uomini come agli animali, si esprime poi negli uomini sia attraverso l’amore che attraverso l’odio, che sono sentimenti tipicamente umani.
Tu affermi: “L’illusione della violenza è quella di raggiungere in un colpo solo la realizzazione dei nostri desideri.”
Qui sono pienamente d’accordo: sottoscrivo.
Tu affermi: “Il gesto di Caino insegna che la violenza non è affatto l’esito di una regressione dell’umano al regno animale. Non esiste, infatti, tentazione della violenza nel mondo animale perché in quel mondo la violenza non è in rapporto al desiderio, ma all’istinto. Non esiste, a rigore, possibilità di crimine nel mondo animale. Quel mondo è regolato solo dalla forza affermativa dell’istinto di vita che non conosce la tentazione della violenza ma solo il suo uso necessario. Il crimine viene alla luce solo con l’uomo.”
Qui, caro Massimo, sono d’accordo e non d’accordo, concordo con alcune affermazioni, sono invece in disaccordo con altre.
Anch’io penso che esista una profonda differenza tra la violenza dell’uomo e quella degli animali. Innanzitutto, perché, come dici bene tu, la violenza degli animali è sempre legata all’istinto, mentre quella dell’uomo può essere legata anche al desiderio.
In questo senso hai ragione tu: nel mondo animale non si può parlare di “crimine”; il crimine è prerogativa esclusivamente umana.
E, però, la violenza degli uomini non è legata sempre al desiderio, ciò che la rende criminale.
Alle volte anche nell’uomo essa è legata al semplice istinto: pensa all’istinto di sopravvivenza, che si manifesta nell’autodifesa personale o nella difesa delle persone che vogliamo proteggere da attacchi altrui. E in questo caso come sai bene è del tutto legittima.
E comunque, in ogni caso, anche quando la violenza nell’uomo è mossa dal desiderio e non dall’istinto, in qualche modo essa è una forma “di regressione… al regno animale”. L’uomo, infatti, non saprebbe usarla se non l’avesse nel suo patrimonio filogenetico. Tanto è vero che, di fronte a certi delitti, ci viene spontaneo parlare di “gesti bestiali”.
Tu affermi: “L’odio è, in questo senso, sempre più antico dell’amore perché incarnerebbe la prima reazione dell’uomo nei confronti dell’Altro che perturba o minaccia i confini della sua identità.”
Detta così e presa alla lettera, non concordo (quasi) per niente con una tale affermazione. Sarebbe come dire che “la prima reazione” del bambino appena nato nei confronti della madre o della madre nei confronti del bambino è quella dell’odio, del rifiuto, dell’ostilità.
Ora io non dico che, invece, la prima reazione del bambino e della madre sia quella del solo amore. Anche se la maggior parte dei gesti che caratterizza la maggior parte dei rapporti bambino-madre-bambino mi farebbe dire proprio questo.
Propendo piuttosto a parlare di una profonda ambivalenza del sentimento umano nei confronti dell’Altro. I sentimenti che ciascuno di noi prova per gli altri sono (come sai meglio di me, visto il “mestiere” che fai) un impasto di amore e odio.
Da questo punto di vista propendo a pensare che Caino e Abele siano le due facce della stessa medaglia, due “archetipi” che caratterizzano profondamente la natura di ognuno di noi.
In ognuno di noi si nasconde un Caino o un Abele, come “ombra” o come “persona”, per fare ricorso a due termini coniati da Jung, che di archetipi se ne intendeva. Alle volte nella “persona” prevale l’odio e l’amore rimane in “ombra”. Altre volte avviene esattamente il contrario.
Tu dici: “Perché Caino colpisce a morte il fratello? Nel testo biblico si racconta che egli non poteva sopportare l’amore che Dio mostra verso il fratello, non poteva sopportare di non essere l’unico. Il suo gesto rivela la matrice invidiosa e narcisistica della violenza umana. La violenza che si scatena sul più prossimo e non sull’estraneo, sul fratello e non sul nemico, porta con sé il marchio indelebile dell’invidia poiché l’invidiato non è mai lo sconosciuto, ma quello che vorremmo essere senza riuscirvi, il nostro ideale irraggiungibile. L’invidia, infatti, è sempre rivolta a chi è come noi ma ha o è più di noi; è sempre invidia per il simile e non per il diverso; l’invidiato incarna l’ideale inconfessato dell’invidioso.”
Qui sono quasi del tutto d’accordo; anche se la tua riflessione mi suggerisce qualche piccola integrazione.
Sicuramente alla radice della violenza umana c’è molte volte l’invidia, cioè il sentimento narcisistico che ci porta a desiderare di possedere ciò che l’altro è o (più banalmente) ha.
Ma c’è anche un altro sentimento, altrettanto narcisistico (a me pare), che spesso motiva la violenza dell’uomo; ed è la gelosia, cioè il sentimento che ci porta a temere che altri possano portarci via ciò che abbiamo o (addirittura!) siamo.
Gelosia che in fondo prova anche Caino, il quale sente che a lui viene tolto quell’amore che invece viene dato ad Abele, quasi che l’amore dato da Dio ad Abele fosse sottratto a lui. Quanti omicidi (specie femminicidi) avvengono “in nome” di questo sentimento?
Ancora: la tua affermazione “l’invidia … è sempre invidia per il simile” conferma (mi pare) la tesi che ho poc’anzi portato avanti e cioè che l’odio si mescola sempre con l’amore, la violenza, perfino con l’attrazione.
Ma, poi, “l’invidia… è sempre invidia per il simile e non per il diverso”? A mio avviso l’invidia sicuramente a volte è invidia per il simile, per chi ci è vicino; ma a volte è invidia per chi è diverso, per chi ci è lontano.
Da cosa sarebbe scatenata, in fondo, la violenza di un certo recente terrorismo islamico, se non dall’invidia per il diverso e per il lontano, per noi dell’Occidente ricco e culturalmente laico e secolarizzato?
Tu affermi: “Il gesto di Caino rivela che la fratellanza non è mai – come, del resto, il processo stesso della filiazione – un evento di sangue. Non esiste fratellanza biologica. Il che significa che non esiste fratellanza senza riconoscimento della nostra responsabilità verso il fratello.”
Anche qui sono quasi pienamente d’accordo. Lo sarei totalmente se al posto dell’espressione “la fratellanza non è mai… un evento di sangue” tu avessi usato la seguente “la fratellanza non è solo e neanche principalmente un evento di sangue”.
Come si fa a negare, infatti, che il legame di sangue ci predisponga naturalmente verso un certo tipo di rapporto (direi viscerale) verso i nostri genitori, i nostri fratelli, i nostri figli e, perfino, verso i nostri nipoti?
Poi sono d’accordo con te che questo legame carnale, di sangue, non basta per garantire l’amore né verso i genitori, né verso i fratelli, né verso i figli, senza un’assunzione (che non è solo e neanche principalmente istintiva) di responsabilità.
Ma l’importanza di questa assunzione di responsabilità non esclude l’importanza del legame di sangue, che conta (eccome se conta!).
Sono d’accordo con te che la fratellanza non si fonda solo sul “suolo” e sul “sangue” e che esiste una fratellanza universale che travalica i confini della patria e quelli della parentela.
Ma non possiamo per questo negare (a meno di non voler negare dati di realtà a me paiono evidenti) che l’essere nati sullo stesso suolo e nella stessa famiglia genera un legame particolare all’interno del legame universale che tutti ci unisce in quanto esseri accomunati dalla stessa umanità.
Non si giustificherebbe altrimenti (per dire una cosa banale, ma si potrebbero tranquillamente fare esempi meno banali) neanche il tifo per le nostre nazionali o, addirittura, per quelle cittadine o di paese.
Sono, infine, totalmente e appassionatamente, d’accordo con la chiusa del tuo articolo: “Dove esiste comunità umana la natura speculare della violenza fratricida deve essere interrotta. Il segno che Dio pone su Caino impedisce all’assassino di essere assassinato in una ripetizione senza fine della violenza fratricida per indicare l’orizzonte di una fratellanza non fondata sull’invidia narcisistica, ma sulla condivisione della responsabilità.”
Con questa affermazione anche tu sembri (anzi ne sono sicuro) voler dire che si dà vera comunità umana solo laddove gli uomini che ne fanno parte hanno saputo rinunciare alla loro natura tendenzialmente violenta, hanno saputo cioè sublimare con il linguaggio e con le opere della cultura, l’aggressività che li accomuna alle altre specie animali.
Mi dispiace di non poter essere domani a Carpi ad ascoltarti; lo sarò spiritualmente. E grazie di avermi stimolato questa riflessione che mi ha consentito di tornare su questioni che per me sono centrali!
Giovanni
La fine di un amore
13 novembre 2016
La fine di un amore
Vedo che ti sei rassegnata
alla fine del mio amore per te.
Mi viene allora il dubbio
che non era il mio amore
che cercavi.
Forse cercavi un amore
diverso
che non ho saputo
e non ho voluto
darti.
Forse il nostro incontro
è avvenuto per sbaglio.
Forse ciascuno dei due
cercava una persona diversa
quando ha incontrato
l’altro.
E oggi
solo oggi
ce ne siamo resi
ce ne stiamo rendendo conto.
E’ duro accettarlo,
accettarlo adesso
che siamo vecchi,
che è tardi,
troppo tardi
per ricominciare.
Non ci resta
che farci compagnia
come due buoni amici,
come due buoni fratelli.
Ma è triste questa amicizia,
è triste questa fratellanza.
Anche se è meglio di niente,
meglio della nera solitudine.
Giovanni Lamagna