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Nirvana: estinzione o risveglio?

Il Buddhismo parla del nirvana “sia come estinzione sia come risveglio supremo”.

Giustamente allora Vito Mancuso (nel suo “I quattro maestri”, a pag. 188) si chiede: “Ma come tenere insieme queste due descrizioni? Come si può risvegliare chi si estingue? E, viceversa, come si può estinguere chi si risveglia?”

Le domande che si pone Mancuso sono per me molto giuste e opportune; non lo sono altrettanto – a mio avviso – le risposte che Mancuso si dà nel libro, alla cui utile e sapida lettura rinvio. Provo, quindi, a dare le mie.

Per me il “nirvana” è innanzitutto e senza dubbio uno stato di estinzione dell’uomo vecchio, l’uomo caratterizzato da una volontà egocentrica, autocentrata, quindi, inevitabilmente narcisista ed egoista.

Ma, allo stesso tempo, è anche uno stato di apertura (risveglio, appunto!) ad una condizione di vita nuova, nella quale i desideri non saranno affatto annullati, ma non saranno più quelli egocentrici, autocentrati e, quindi, narcisisti ed egoisti dell’uomo vecchio.

Saranno, bensì, desideri non in conflitto ma del tutto compatibili con quelli degli altri nostri simili e, quindi, fratelli; compatibili perfino, con le esigenze dell’Universo mondo di cui noi siamo parte.

Chi entra nel “nirvana”, infatti, muore al proprio Sé (si estingue pertanto come individualità separata), rompe il guscio nel quale è racchiuso, quasi prigioniero, il proprio Ego.

E nello stesso tempo (o appena subito dopo) si apre, risveglia, ad una nuova vita, dalle dimensioni potenzialmente infinite, in grado di arrivare a comprendere non solo la vita di tutti gli altri uomini, ma anche quella di tutte le altre creature (animali, vegetali, minerali) che formano l’Universo, di cui egli è infinitesima particella.

Quello nirvanico è insomma uno stato di estinzione del proprio particulare e di risveglio (apertura) all’universale, in altre parole di identificazione/fusione con il Tutto.

Ecco perché il concetto di estinzione e quello di risveglio, lungi dall’essere oppositivi e contraddittori, esprimono la stessa realtà, anche se da versanti diversi; per cui – in fondo, in fondo – coincidono.

Non sono convinto (anzi penso proprio il contrario) di aver espresso con questa mia interpretazione l’ortodossia (ammesso che ce ne sia una) del pensiero buddhista relativamente al concetto di “nirvana”.

Sono convinto però che la mia lettura del concetto sia quella migliore (se non l’unica) per risolvere l’aporia evidenziata da Vito Mancuso e dalla quale sono partito per questa mia breve e sintetica riflessione.

E, oltretutto, quella che rende il concetto di “nirvana” accettabile, anzi del tutto condivisibile, anche per noi uomini dell’Occidente, la cui cultura profonda è molto diversa da quella dell’Oriente, di cui si alimentò, com’era ovvio, il pensiero buddhista.

© Giovanni Lamagna

De amicitia

Epicuro così scriveva a proposito dell’amicizia: “Di tutte le cose che la saggezza procura per ottenere un’esistenza felice, la più grande è l’amicizia.

Su questa affermazione concordo pienamente.

Non a caso anche la saggezza popolare è arrivata a coniare un adagio che dice più o meno la stessa cosa di Epicuro: “chi trova un amico trova un tesoro”.

Ma in cosa consiste questa particolare forma di relazione che siamo soliti chiamare “amicizia”? In cosa si distingue da altre forme di relazione?

Per rispondere a queste domande ci può aiutare il ricorso alla lingua greca (non a caso la lingua di Epicuro) e l’analisi etimologica della parola che in greco traduce il termine “amicizia”.

La parola greca è “philia”. Che deriva dal verbo “philein”, che vuol dire “volere bene, amare”.

L’amicizia, dunque, per gli antichi Greci, aveva a che fare con l’amore, anzi era amore.

Ed anche per me l’amicizia o è amore o semplicemente non è.

E’ una forma di relazione che può arrivare a coinvolgere perfino la dimensione sessuale; nel qual caso si definisce, con un’espressione oggi alquanto in voga, “amicizia erotica”.

In questo caso, soprattutto in questo caso, cosa distingue allora l’amicizia (la relazione che solitamente definiamo così) dall’amore (la relazione che solitamente definiamo così)?

La distingue una sola caratteristica.

L’amicizia tutti danno per scontato che sia un tipo di relazione poligama: nessuno/a si sognerebbe di chiedere all’amico/a l’esclusività del rapporto (anche se non mancano – a dire il vero – forme di esclusività e di gelosia, a volte anche molto forti e violente, pure nei rapporti di amicizia).

L’amore, invece, per la grandissima maggioranza delle persone è e deve essere un legame di natura monogama.

Anche se poi in molti rapporti di amore la fedeltà monogamica è di fatto tradita, essa viene però, comunque, teorizzata, perfino da quegli stessi che poi nei fatti la tradiscono.

Pure se stanno venendo sempre più allo scoperto persone che teorizzano (e, a volte, praticano) il cosiddetto poli-amore, cioè una forma di relazione amorosa non monogamica, ma esplicitamente, apertamente, dichiaratamente poligama: un tipo di relazione quindi molto simile alle amicizie erotiche.

Fatte queste distinzioni tipologiche e non solo terminologiche, che hanno a che fare più con la storia e con la sociologia delle relazioni che con la loro psicologia, cosa invece caratterizza nel profondo la relazione che siamo soliti definire come amicizia?

Non è certamente un amore indistinto, indifferenziato, universale, come è quello che già gli antichi Greci definivano col termine “agape”.

L’amore-agape nasce da una scelta etica, potremmo anche dire ideologica, ma sarebbe meglio definire filosofica ed esistenziale, spesso religiosa, in base alla quale si considerano tutti gli uomini (a prescindere dalle loro caratteristiche individuali, quindi perfino quelli che ci vogliono male, perfino quelli che ci sono nemici) come nostri fratelli.

L’amore-agape è quindi un amore unidirezionale che si prova e si manifesta a prescindere dalla risposta di colui/colei a cui è rivolto: può anche non essere corrisposto, anzi può essere addirittura respinto, può trovare perfino una reazione opposta (di odio), eppure esso sussiste, continua a sussistere.

Appunto perché non è motivato dalle caratteristiche e dalle reazioni di colui/colei a cui si rivolge, ma affonda le sue radici in una motivazione del tutto personale, interiore e spirituale.

L’amicizia ha, invece, con piena evidenza e secondo il senso comune, tutt’altre caratteristiche: in altre parole non si può essere amici di tutti indistintamente; si può essere amici solo di determinate persone, con certe determinate caratteristiche e non altre.

Da questo punto di vista l’amore di amicizia non è e non può essere una forma di amore totalmente disinteressato, come molti propendono a pensare e come lo è invece l’amore di fratellanza universale, cioè l’agape.

Anzi, potremmo dire, l’amicizia si fonda proprio sull’interesse reciproco a vivere questa relazione. Non un interesse di tipo materiale, economico, ovviamente. Ma un interesse di tipo psicologico, certamente.

L’amicizia si fonda, dunque, sull’interesse o, meglio, sul piacere condiviso (espressione sulla quale Epicuro avrebbe senz’altro concordato) dello stare assieme: piacere spirituale in senso lato (che in certi casi è principalmente intellettuale, in altri prevalentemente emozionale, in altri ancora soprattutto sentimentale), ma a volte è perfino di natura fisica e sessuale.

Più questi piaceri sono profondi, grandi e intensi, più sono sommati e intrecciati tra di loro, più l’amicizia è ovviamente grande ed importante.

Credo che appaia a tutti chiaro, a questo punto, come l’amicizia, la vera amicizia, manco lontanamente possa essere identificata con la semplice conoscenza tra due persone; e manco con la loro pura e semplice frequentazione, dettata dalle circostanze o dal caso.

L’amicizia nasce e si sviluppa tra due persone per una loro precisa e consapevole volontà e scelta, figlie di un’attrazione e di un desiderio reciproci.

Meno che mai si può definire “vera amicizia” quella che a volte con un po’ di superficialità concediamo e riceviamo sui social e che non a caso si definisce “virtuale”.

Anche se non è da escludere che anche l’incontro sui social possa – almeno in certi casi – costituire l’occasione, lo spunto, l’avvio per costruire una vera e propria amicizia, non solo virtuale, ma ben concreta e reale.

© Giovanni Lamagna

Amore e attrazione

Per Victor Frankl non sono le caratteristiche individuali, fisiche e psichiche, della persona che amo a rendercela amabile, ma è il mio amore che le rende “degne di essere amate” (da “Logoterapia e analisi esistenziale”; Morcelliana 2001; pag. 167).

Francamente non condivido per nulla questa tesi.

Secondo tale pensiero, infatti, (a volerlo portare alle sue estreme conseguenze) ciascuno di noi potrebbe allora innamorarsi di una persona qualsiasi, perché tanto non sono le sue caratteristiche individuali a rendercela amabile, ma, al contrario, è l’amore che le portiamo a farcela desiderare.

Sulla base di questa premessa – che per me è tautologica: io amerei una persona perché la amo – ovviamente Frankl non assegna alcun valore all’aspetto estetico della persona e, meno che mai, al suo abbigliamento.

Fino ad arrivare a scrivere: “Non un abito da sera può fare veramente effetto su un uomo, ma solo se a indossarlo è la donna amata” (ibidem; p.167).

Cosa anche per me ovvia: certo, non si può amare una persona per l’abito che indossa e, a maggior ragione, non si può amare l’abito in sé, a prescindere dalla persona che lo indossa!

Frankl, però, omette di dire che l’abito che indossa può aggiungere un valore estetico e, quindi, attrattivo alla persona per la quale provo già attrazione; attrazione che genera, provoca, il mio amore, senza la quale non ci sarebbe il mio amore.

In altre parole, a me sembra che Frankl neghi totalmente il valore che gioca la dinamica dell’attrazione nell’amore, almeno in quel tipo particolare di amore che siamo soliti definire erotico.

In buona sostanza a me sembra che Frankl dica: trovo attraente una persona perché la amo. Io, invece, sostengo esattamente il contrario: io amo (eroticamente) una persona perché la trovo attraente.

Naturalmente qui sto parlando (lo ripeto ancora una volta) dell’amore erotico. E però è proprio di questo tipo di amore che stava parlando anche Frankl: sono certo di non aver frainteso il suo pensiero.

Non stava parlando di altri tipi di amore: quali quello tra genitori e figli, quello fraterno o quello universale, definito dai Greci col termine “agape”, per i quali l’elemento attrattivo è del tutto secondario: in questi casi – anche per me – l’amore sussiste a prescindere dalle caratteristiche individuali e precipue delle persone coinvolte.

E’ notorio il detto napoletano “ogni scarrafone è bell’ a mamma soia” (“ogni scarafaggio è bello per la mamma sua”). Che vale per l’amore dei genitori per i figli, ma potrebbe valere anche per l’amore dei figli verso i genitori o per quello tra fratelli o per quello che prova il filantropo anche verso il più spregevole degli esseri umani.

Già questo discorso non vale più per quel tipo di amore che definiamo “amicizia” (philia). Perché anche nel caso dell’amicizia l’amore si basa su quelle che sono determinate e specifiche caratteristiche individuali dell’amico, origina da esse.

In altre parole, non si può essere “amico” a prescindere, non si può essere amici di tutti. Si può essere amici solo di determinate persone con ben precise caratteristiche: non si può essere amici di persone che non troviamo attraenti.

A dare poi ancora più forza alla sua asserzione iniziale Frankl aggiunge che è solo l’ “amore spirituale” a rendere “degno” l’amore erotico. Situando così l’amore spirituale su un piano che per me è troppo astratto e non ha nessun riscontro nella realtà.

Nessun essere umano, infatti, – suppongo manco Frankl – si innamorerà mai di una persona a prescindere dalle sue caratteristiche concrete, che sono poi essenzialmente di tre tipi: fisiche, caratteriali ed intellettuali.

La categoria dell’ “amore spirituale” di cui parla Frankl è di natura astratta e del tutto generica, perché vuota di contenuti; è dunque puro “flatus vocis”.

Non esiste l’amore spirituale, perché l’uomo non è un essere spirituale, ma un essere fatto in primo luogo di carne e di ossa e poi dotato anche di emozioni, affetti ed idee, che però senza il corpo non avrebbero alcuna possibilità di sussistere.

Io arrivo a dire che non esistono i “valori spirituali” in senso stretto. Perché la parola spirituale è un contenitore vuoto, a cui non corrisponde nessuna realtà concreta, e perciò è un termine letteralmente insignificante, cioè “senza significato”.

Quando si innamora e quando ama, l’uomo dunque ama innanzitutto un corpo e poi il suo carattere e poi la sua intelligenza. Non ama altro.

Ciò che chiamiamo “spirito” per me è null’altro che l’armonizzazione equilibrata di caratteristiche fisiche, caratteriali e intellettuali; non altro.

Armonizzazione che non è affatto scontata o particolarmente diffusa in natura.

Infatti, ci sono persone che sono belle dal punto di vista fisico, ma non lo sono affatto dal punto di vista del carattere o da quello dell’intelligenza.

Come ci sono persone che sono simpatiche e gradevoli dal punto di vista del carattere, ma brutte fisicamente e insignificanti sul piano intellettuale.

Infine, ci sono persone di grande intelligenza e di alto livello culturale, ma sgradevoli o decisamente brutte sul piano fisico e sgraziate dal punto di vista del carattere.

E’ l’insieme armonioso, integrato, delle caratteristiche intellettuali, caratteriali e perfino fisiche di una persona che costituisce la sua spiritualità.

Non ci si innamora, dunque, della pura spiritualità di una persona, che in sé non esiste, ma di certe sue determinate caratteristiche fisiche, caratteriali e intellettuali, molto concrete, che ce la rendono attraente e, per certi versi (almeno nella fase dell’innamoramento), addirittura unica.

L’attrazione, dunque, contrariamente a quanto sostenuto da Victor Frankl, pesa (eccome!) nelle relazioni erotiche.

© Giovanni Lamagna

Fratelli

Non si è fratelli solo (e neanche tanto) perché si è figli dello stesso padre e della stessa madre.

Si è fratelli soprattutto perché (e nella misura in cui) si condivide lo stesso sguardo sul mondo.

© Giovanni Lamagna

Regno dei Cieli e Regno della Terra

Gesù distingue nettamente il Regno dei Cieli dal Regno della Terra.

Per me non esiste nessun Regno dei Cieli: esiste solo il Regno della Terra.

Compito dell’uomo è quello di provare a realizzare, per quello che è possibile, il Regno dei Cieli qui in terra.

Che per me significa un mondo di uomini il più possibile liberi, uguali e fratelli.

© Giovanni Lamagna

Quando avviene la vera comunicazione

Non è possibile la vera comunicazione, se restiamo alla superficie di noi stessi, se ci fermiamo alle nostre immagini esteriori.

Le superfici, le immagini esteriori, infatti, sono tutte diverse e, perciò, incomunicabili tra di loro.

Alla superficie prevalgono le differenze, che sono difficilmente componibili.

In profondità, invece, siamo tutti simili, se non proprio uguali: siamo tutti uguali nell’essenza.

Perciò, se vogliamo comunicare realmente, dobbiamo scendere in profondità, dove c’è un quid che tutti ci accomuna e ci rende fratelli.

Giovanni Lamagna

Lettera aperta a Massimo Recalcati

Caro Massimo,

ho letto (come sempre, del resto) con molta attenzione il tuo articolo comparso su “la Repubblica” di oggi. Alcune cose mi hanno pienamente convinto, altre meno. Desidero parlartene in un confronto quantomeno virtuale.

Tu affermi: “La colpa di Caino apre la narrazione biblica dell’entrata dell’uomo nella storia.

Per me “l’entrata dell’uomo nella storia” secondo il racconto biblico non è la colpa di Caino, ma la disobbedienza di Adamo ed Eva a Dio, che ne comportò la cacciata dall’Eden. E’ da questo gesto primario che si origina la libertà e quindi la responsabilità dell’uomo: non credi?

Tu affermi, riprendendo Freud, che “all’origine della vita non c’è l’amore, ma l’odio.

Io, invece, penso che all’origine della vita non ci sia né l’amore né l’odio, che sono sentimenti, ma piuttosto un istinto primordiale che Schopenhauer ha ben definito con l’espressione “volontà di vivere”. La volontà di vivere, che è comune agli uomini come agli animali, si esprime poi negli uomini sia attraverso l’amore che attraverso l’odio, che sono sentimenti tipicamente umani.

Tu affermi: “L’illusione della violenza è quella di raggiungere in un colpo solo la realizzazione dei nostri desideri.

Qui sono pienamente d’accordo: sottoscrivo.

Tu affermi: “Il gesto di Caino insegna che la violenza non è affatto l’esito di una regressione dell’umano al regno animale. Non esiste, infatti, tentazione della violenza nel mondo animale perché in quel mondo la violenza non è in rapporto al desiderio, ma all’istinto. Non esiste, a rigore, possibilità di crimine nel mondo animale. Quel mondo è regolato solo dalla forza affermativa dell’istinto di vita che non conosce la tentazione della violenza ma solo il suo uso necessario. Il crimine viene alla luce solo con l’uomo.

Qui, caro Massimo, sono d’accordo e non d’accordo, concordo con alcune affermazioni, sono invece in disaccordo con altre.

Anch’io penso che esista una profonda differenza tra la violenza dell’uomo e quella degli animali. Innanzitutto, perché, come dici bene tu, la violenza degli animali è sempre legata all’istinto, mentre quella dell’uomo può essere legata anche al desiderio.

In questo senso hai ragione tu: nel mondo animale non si può parlare di “crimine”; il crimine è prerogativa esclusivamente umana.

E, però, la violenza degli uomini non è legata sempre al desiderio, ciò che la rende criminale.

Alle volte anche nell’uomo essa è legata al semplice istinto: pensa all’istinto di sopravvivenza, che si manifesta nell’autodifesa personale o nella difesa delle persone che vogliamo proteggere da attacchi altrui. E in questo caso come sai bene è del tutto legittima.

E comunque, in ogni caso, anche quando la violenza nell’uomo è mossa dal desiderio e non dall’istinto, in qualche modo essa è una forma “di regressione… al regno animale”. L’uomo, infatti, non saprebbe usarla se non l’avesse nel suo patrimonio filogenetico. Tanto è vero che, di fronte a certi delitti, ci viene spontaneo parlare di “gesti bestiali”.

Tu affermi: “L’odio è, in questo senso, sempre più antico dell’amore perché incarnerebbe la prima reazione dell’uomo nei confronti dell’Altro che perturba o minaccia i confini della sua identità.

Detta così e presa alla lettera, non concordo (quasi) per niente con una tale affermazione. Sarebbe come dire che “la prima reazione” del bambino appena nato nei confronti della madre o della madre nei confronti del bambino è quella dell’odio, del rifiuto, dell’ostilità.

Ora io non dico che, invece, la prima reazione del bambino e della madre sia quella del solo amore. Anche se la maggior parte dei gesti che caratterizza la maggior parte dei rapporti bambino-madre-bambino mi farebbe dire proprio questo.

Propendo piuttosto a parlare di una profonda ambivalenza del sentimento umano nei confronti dell’Altro. I sentimenti che ciascuno di noi prova per gli altri sono (come sai meglio di me, visto il “mestiere” che fai) un impasto di amore e odio.

Da questo punto di vista propendo a pensare che Caino e Abele siano le due facce della stessa medaglia, due “archetipi” che caratterizzano profondamente la natura di ognuno di noi.

In ognuno di noi si nasconde un Caino o un Abele, come “ombra” o come “persona”, per fare ricorso a due termini coniati da Jung, che di archetipi se ne intendeva. Alle volte nella “persona” prevale l’odio e l’amore rimane in “ombra”. Altre volte avviene esattamente il contrario.

Tu dici: “Perché Caino colpisce a morte il fratello? Nel testo biblico si racconta che egli non poteva sopportare l’amore che Dio mostra verso il fratello, non poteva sopportare di non essere l’unico. Il suo gesto rivela la matrice invidiosa e narcisistica della violenza umana. La violenza che si scatena sul più prossimo e non sull’estraneo, sul fratello e non sul nemico, porta con sé il marchio indelebile dell’invidia poiché l’invidiato non è mai lo sconosciuto, ma quello che vorremmo essere senza riuscirvi, il nostro ideale irraggiungibile. L’invidia, infatti, è sempre rivolta a chi è come noi ma ha o è più di noi; è sempre invidia per il simile e non per il diverso; l’invidiato incarna l’ideale inconfessato dell’invidioso.

Qui sono quasi del tutto d’accordo; anche se la tua riflessione mi suggerisce qualche piccola integrazione.

Sicuramente alla radice della violenza umana c’è molte volte l’invidia, cioè il sentimento narcisistico che ci porta a desiderare di possedere ciò che l’altro è o (più banalmente) ha.

Ma c’è anche un altro sentimento, altrettanto narcisistico (a me pare), che spesso motiva la violenza dell’uomo; ed è la gelosia, cioè il sentimento che ci porta a temere che altri possano portarci via ciò che abbiamo o (addirittura!) siamo.

Gelosia che in fondo prova anche Caino, il quale sente che a lui viene tolto quell’amore che invece viene dato ad Abele, quasi che l’amore dato da Dio ad Abele fosse sottratto a lui. Quanti omicidi (specie femminicidi) avvengono “in nome” di questo sentimento?

Ancora: la tua affermazione “l’invidia … è sempre invidia per il simile” conferma (mi pare) la tesi che ho poc’anzi portato avanti e cioè che l’odio si mescola sempre con l’amore, la violenza, perfino con l’attrazione.

Ma, poi, “l’invidia… è sempre invidia per il simile e non per il diverso”? A mio avviso l’invidia sicuramente a volte è invidia per il simile, per chi ci è vicino; ma a volte è invidia per chi è diverso, per chi ci è lontano.

Da cosa sarebbe scatenata, in fondo, la violenza di un certo recente terrorismo islamico, se non dall’invidia per il diverso e per il lontano, per noi dell’Occidente ricco e culturalmente laico e secolarizzato?

Tu affermi: “Il gesto di Caino rivela che la fratellanza non è mai – come, del resto, il processo stesso della filiazione – un evento di sangue. Non esiste fratellanza biologica. Il che significa che non esiste fratellanza senza riconoscimento della nostra responsabilità verso il fratello.

Anche qui sono quasi pienamente d’accordo. Lo sarei totalmente se al posto dell’espressione “la fratellanza non è mai… un evento di sangue” tu avessi usato la seguente “la fratellanza non è solo e neanche principalmente un evento di sangue”.

Come si fa a negare, infatti, che il legame di sangue ci predisponga naturalmente verso un certo tipo di rapporto (direi viscerale) verso i nostri genitori, i nostri fratelli, i nostri figli e, perfino, verso i nostri nipoti?

Poi sono d’accordo con te che questo legame carnale, di sangue, non basta per garantire l’amore né verso i genitori, né verso i fratelli, né verso i figli, senza un’assunzione (che non è solo e neanche principalmente istintiva) di responsabilità.

Ma l’importanza di questa assunzione di responsabilità non esclude l’importanza del legame di sangue, che conta (eccome se conta!).

Sono d’accordo con te che la fratellanza non si fonda solo sul “suolo” e sul “sangue” e che esiste una fratellanza universale che travalica i confini della patria e quelli della parentela.

Ma non possiamo per questo negare (a meno di non voler negare dati di realtà a me paiono evidenti) che l’essere nati sullo stesso suolo e nella stessa famiglia genera un legame particolare all’interno del legame universale che tutti ci unisce in quanto esseri accomunati dalla stessa umanità.

Non si giustificherebbe altrimenti (per dire una cosa banale, ma si potrebbero tranquillamente fare esempi meno banali) neanche il tifo per le nostre nazionali o, addirittura, per quelle cittadine o di paese.

Sono, infine, totalmente e appassionatamente, d’accordo con la chiusa del tuo articolo: “Dove esiste comunità umana la natura speculare della violenza fratricida deve essere interrotta. Il segno che Dio pone su Caino impedisce all’assassino di essere assassinato in una ripetizione senza fine della violenza fratricida per indicare l’orizzonte di una fratellanza non fondata sull’invidia narcisistica, ma sulla condivisione della responsabilità.

Con questa affermazione anche tu sembri (anzi ne sono sicuro) voler dire che si dà vera comunità umana solo laddove gli uomini che ne fanno parte hanno saputo rinunciare alla loro natura tendenzialmente violenta, hanno saputo cioè sublimare con il linguaggio e con le opere della cultura, l’aggressività che li accomuna alle altre specie animali.

Mi dispiace di non poter essere domani a Carpi ad ascoltarti; lo sarò spiritualmente. E grazie di avermi stimolato questa riflessione che mi ha consentito di tornare su questioni che per me sono centrali!

Giovanni

La mia testimonianza al convegno per i 50 anni di vita della Comunità cristiana di base del Cassano.

8 giugno 2019

Cari amici, compagni e fratelli,

mi sono domandato tempo fa come avrei potuto impostare questa testimonianza che mi avete chiesto in occasione dei 50 anni di vita della vostra/nostra comunità. E mi sono orientato a donarvela sotto forma di lettera, mi verrebbe di dire di epistola, per fare un esplicito riferimento ad un termine utilizzato nella tradizione biblica, neotestamentaria.

Ho pensato di farlo per almeno due motivi. Il primo è di ordine comunicativo: chi mi conosce bene sa che ho difficoltà a parlare a braccio (mi confondo, perdo il filo, non riesco a dire tutte le cose che vorrei…), mentre me la cavo un po’ meglio quando scrivo.

Il secondo motivo è che in questo modo potrò lasciare agli atti di questo convegno il testo della mia testimonianza, se (come prevedo) non riuscirò a leggerla tutta restando nei tempi che mi avete assegnato. E così chi di voi ne avrà voglia potrà continuare a leggersene la restante parte. Scripta manent!

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Come avrete notato, ho iniziato questa mia epistula con tre termini: amici, compagni e fratelli. E l’ho fatto non per retorica, ma perché essi mi sono molto cari, sono per me tutti e tre carichi di significato. E lo sono perché esprimono bene la mia storia umana, culturale e politica.

Ma l’ho fatto anche perché esprimono bene i valori fondamentali che mi hanno sempre unito e ancora oggi mi uniscono a voi.

Se ci pensate i tre termini – amici, compagni, fratelli – sono collegati (ciascuno in modo più specifico ad una di esse) alle tre culture fondamentali che hanno costituito l’architrave della mia (ma credo di poter dire anche nostra) storia umana, culturale e politica: quella liberale, quella socialista e quella cristiana, con i loro tre valori fondamentali di libertà, uguaglianza e fraternità.

Mi verrebbe di dire – senza tema, credo, di apparire troppo presuntuosi – che la nostra vita si è svolta all’insegna di quelli che, a mio modesto, ma fermo, avviso, dovrebbero essere i tre valori portanti di una nuova cultura politica, che io spero prima o poi – nonostante i segnali contraddittori che sembra oggi consegnarci l’attualità – possa caratterizzare la scena del XXI secolo: i valori della libertà, della uguaglianza e della fraternità, appunto!

Valori che nella storia finora sono apparsi sempre scissi, come se fossero inconciliabili tra di loro, e che noi, invece, abbiamo sempre considerati e vissuti come inscindibili, inseparabili l’uno dall’altro.

Non può esserci, infatti, per noi vera libertà separata dall’uguaglianza, come non ci può essere vera uguaglianza separata dalla libertà.

E, soprattutto, libertà e uguaglianza non bastano a garantire una società veramente e pienamente umana senza la fraternità.

Come la fraternità è ipocrita, puro sentimentalismo paternalistico, senza la sussistenza della libertà e dell’uguaglianza effettive e non solo formali (cioè non solo astrattamente giuridiche) tra gli uomini.

Ecco questa è la prima testimonianza che intendevo darvi quest’oggi: le nostre vite, al di là degli alti e bassi dei nostri rapporti concreti, hanno viaggiato mi sembra di poter dire sempre all’unisono durante tutti questi anni su questi tre binari valoriali, etici, ma io credo di poter dire soprattutto spirituali: il binario della libertà, quello della uguaglianza e quello della fraternità. Per cui sono stati veri rapporti di amicizia, di compagneria (se si può usare questo termine) e di fraternità.

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Certo, poi (come dicevo prima) nei nostri rapporti ci sono stati alti e bassi, nel senso che ci sono stati momenti in cui ci siamo frequentati di più e momenti in cui ci siamo frequentati di meno, momenti in cui abbiamo condiviso più cose e momenti in cui ne abbiamo condivise di meno.

Mi viene allora spontaneo fare una piccola storia di questi nostri rapporti, distinguendola in tre fasi principali, che corrispondono poi grosso modo alle tre stagioni principali della nostra (oramai abbastanza lunga) vita.

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La prima fase è quella che inizia addirittura con la nostra adolescenza e si prolunga fino alla nostra prima giovinezza. Per quanto mi riguarda va (più o meno) dall’anno 1962 all’anno 1973. Comprende quindi circa 11 anni.

Ci siamo conosciuti con alcuni di voi (Gennaro Sanges, Aldo Bifulco, Ezio Esposito, Corrado Maffia…) nell’oramai lontano 1962, al Centro Diocesano dell’Azione Cattolica napoletana in Largo Donnaregina. Io ero delegato aspiranti di una piccola parrocchia dalle parti di via Arenaccia: stavo ancora al ginnasio, al Garibaldi. Gennaro e Aldo erano i delegati della parrocchia del Vasto con padre Errico. Ezio e Corrado (che si occupava degli juniores) venivano dalla parrocchia di piazza Capodichino.

Un poco più tardi (ma solo un poco) ho conosciuto poi Mario Corbo, Rosario Sanges e Benedetto Musacchia, della parrocchia del Vasto, e quindi Nello Esposito, Donato Michini della parrocchia di Capodichino.

Importante tramite tra di noi in quel periodo fu Biagio Passaro, che era mio compagno al ginnasio-liceo Garibaldi, ma abitava a San Pietro a Patierno (zona limitrofa a Capodichino) e nella parrocchia di san Pietro faceva anche lui il delegato aspiranti.

Che anni sono stati quegli anni!

Anni in cui ognuno di noi era alla ricerca di un suo percorso di fede più autentica, più vera e personale, che andasse oltre la religiosità un po’ ritualistica, tradizionale e, diciamolo pure, anche un po’ bigotta, che ci avevano trasmessa i nostri genitori e i preti delle parrocchie che frequentavamo.

E questa ricerca, anche se forse non proprio in una forma esplicita e molto palese, ci accomunava, si sentiva che era qualcosa che ci metteva assieme.

In questo ci aiutava molto l’atmosfera del Concilio, indetto da papa Giovanni (guarda caso!) nel 1962 e durato fino all’8 dicembre del 1965, che segnò (come tutti sappiamo) una svolta nella storia della Chiesa, potremmo dire la fine della Chiesa tridentina, chiusa al mondo moderno, e l’inizio della Chiesa ecumenica, aperta alla modernità, anzi alla contemporaneità.

Sono stati questi gli anni, penso per ciascuno di noi, dell’incontro più intimo e personale col Vangelo e con la figura di Gesù (ricordo l’importanza fondamentale che ha avuto per me la lettura dei libri di Carlo Carretto, di Arturo Paoli, di Renè Voillaume, di Jacques Maritain) con la spiritualità dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld e con quella dei Focolarini, che pure nella loro grande diversità (l’una più contemplativa, l’altra più sociale ed attiva) hanno contribuito a fornirmi modelli di Cristianesimo nuovi, meno ritualistici e più autentici, proprio quelli che sia io che voi, per vie magari un po’ diverse tra di loro, andavamo già cercando da qualche anno, anche se ancora all’interno dell’alveo tradizionale e un po’ protettivo delle nostre parrocchie.

Poi è venuto il momento del distacco pure da questa dimensione. Io sono andato per due anni e mezzo a Loppiano, presso la cittadella internazionale dei Focolarini vicino Firenze e sono stato lì per due anni e mezzo (dagli inizi del 1967 fino alla metà del 1969).

Al ritorno da questa esperienza (a Loppiano avevo capito con chiarezza oramai che la strada dei focolarini non era propriamente la mia), dopo circa un anno e mezzo (credo dovesse essere il 1971) ci siamo incontrati di nuovo: la Comunità (non ancora del Cassano) si era appena avviata, frutto sostanzialmente dell’incrocio dei due gruppi di Azione Cattolica del Vasto e di Capodichino.

Ricordo di aver conosciuto allora Remigio Raimondi e la fidanzata Rita Esposito, Antonia Melino (fidanzata con Corrado), Marinella Filosa (fidanzata con Mario), Rosa Raimondi (fidanzata con Aldo), Elisa Palmieri (fidanzata con Gennaro).

Molte riunioni della Comunità in quell’anno tra il 1971 e il 1972 si svolsero proprio a casa mia o meglio presso la casa dei miei genitori, in via colonnello Lahalle, 24, dove io abitavo ancora in quanto studente universitario di filosofia.

In quella fase era forte tra di noi il desiderio di recuperare lo spirito dei primi cristiani e delle loro piccole comunità, al di fuori dei formalismi e delle liturgie delle parrocchie, all’interno delle quali tutti noi avevamo incontrato il cristianesimo.

Poi nel 1972 mi sono laureato e a settembre di quell’anno sono partito per il militare, che ho fatto a Roma, a Pietralata. Ricordo che all’epoca, per respirare aria di comunità, il sabato pomeriggio andavo alla basilica di san Paolo, dove si riuniva la comunità di Giovanni Franzoni e spesso vi tornavo anche la domenica mattina per la messa, in una basilica enorme eppure strapiena di gente, che veniva per ascoltare le bellissime omelie di Giovanni.

E’ stato quello l’anno in cui ho maturato il mio distacco finale dalla fede. Ricordo di aver ricevuto la mia ultima ostia eucaristica proprio dalle mani di Giovanni Franzoni nella basilica di san Paolo.

Ma il distacco era maturato gradualmente negli ultimi tre anni di Università, sotto gli stimoli dei libri di filosofia che andavo leggendo, ma soprattutto di un libro che ha segnato la mia vita, “L’arte di amare”, di Erich Fromm.

E’ stato quindi un distacco graduale, leggero, mi verrebbe di dire soft, che non ha avuto nulla di traumatico. Perché in realtà io non ho mai smesso di credere in Gesù Cristo, nel senso di amarlo come un mio Maestro fondamentale di vita.

Ho “solo” smesso di considerarlo “il figlio di Dio”, perché ho smesso di credere nell’esistenza di un Dio, separato da questo mondo; cosa che (più ci penso e più mi appare chiaro) non mi sembra l’essenza del messaggio che ha voluto lasciarci Gesù.

Che sta piuttosto in questo: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato!”. Nell’amore tra gli uomini, dunque, non nella fede in un Dio trascendente.

E qui, in questo anno, il 1973, io considero chiusa la prima fase della nostra storia, di noi come persone singole e di noi come amici e come fratelli, non ancora compagni: non avevamo, infatti, ancora scoperto la politica come impegno grosso, centrale, della nostra vita.

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E’ iniziata a questo punto una seconda fase della nostra vita: la fase della maturità. Quella del lavoro, del matrimonio, della famiglia, dei figli, per molti di noi dell’incontro con la politica, della scelta a sinistra, cioè dalla parte dei lavoratori, della lotta per un mondo più giusto, più equo, più solidale, oltre che più libero.

Qui le nostre strade si sono (almeno fisicamente) divaricate abbastanza e per un bel po’ di tempo. Io incontravo spesso Gennaro, Aldo, Benedetto, ma quasi sempre al sindacato o nei luoghi della politica.

Non più negli spazi della Ecclesia tradizionale, nei quali ci eravamo conosciuti, o della comunità di base, nei quali ci eravamo incontrati un poco più tardi, dopo un breve e provvisorio distacco.

Voi, invece, avete continuato fedeli, tenaci, direi perfino testardi e quasi imperterriti, nel vostro cammino di comunità. Io me ne sono fisicamente allontanato.

E non perché fosse venuta meno in me analoga esigenza, ma perché sentivo, avvertivo, che l’esperienza di una comunità di fede (quale fede poi, se non ce l’avevo più?) mi stava stretta.

Continuavo a sentire ancora (come sento del resto ancora tuttora) l’esigenza della comunità, ma di una comunità che uscisse dai confini ristretti della Chiesa e si aprisse all’universo mondo.

Avvertivo, in altre parole, l’esigenza di una comunità radicalmente laica, fondata certamente sull’amore: da questo punto di vista il valore della libertà e quello dell’uguaglianza non mi sono mai bastati come valori ispiratori fondanti del mio impegno politico.

Ma un amore totalmente profano, nel senso letterale del termine: un amore cioè vissuto “fuori dal tempio”. Il “tempio mi era divenuto inutile”, aspiravo ad abitare “la città planetaria”, per usare termini che ho ritrovato poi, qualche anno più tardi, nelle parole di un nostro comune maestro.

Non a caso questi sono stati gli anni in cui per me hanno acquistato sempre più importanza l’incontro (in questa fase solo teorico e conoscitivo) con la psicoanalisi e l’esperienza (questa, per fortuna, soprattutto pratica e vissuta) della sessualità.

Che io avevo visto (ed esperito) sempre come un po’ castigata (per non dire decisamente repressa) all’interno dell’esperienza religiosa, per quanto aperta, avanzata, rivisitata, modernizzata essa fosse.

E qui ci sarebbe molto da dire ed approfondire. Ma non lo faccio, perché il discorso mi prenderebbe la mano e sforerei di troppo i tempi del mio intervento.

Dico solo che in questi anni al mio primo Maestro, quello della mia (nostra) adolescenza e della mia (nostra) prima giovinezza, che è stato Gesù, se ne sono aggiunti (almeno) altri due, che io considero di (quasi) uguale importanza, Marx e Freud.

Che hanno rappresentato sul piano simbolico i due binari fondamentali lungo i quali ha camminato poi in seguito la mia vita: – quella di una ricerca interiore, introspettiva, intrapsichica, quasi di autoanalisi continua, – e quella dell’impegno sociale e politico, di attenzione, altrettanto continua, alla realtà esterna che ci circonda.

E in questi anni (purtroppo!) i nostri rispettivi percorsi hanno camminato un po’ distanti. Mai del tutto divaricati e però quasi sempre paralleli: solo di tanto in tanto, infatti, solo raramente si incontravano, sia sul piano materiale, dell’incontro fisico, sia sul piano spirituale, del confronto di anime.

Di questi anni – diciamoci la verità – io so poco di voi: quel poco che so l’ho appresso dal libro che avete pubblicato in occasione dei primi 25 anni di vita della Comunità. Ma anche voi sapete poco di me.

Oggi in parte, ma ovviamente solo in piccolissima parte, ho riempito questo vuoto: questo era il senso e la motivazione del mio breve racconto di questa fase.

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Passo, quindi, rapidamente alla illustrazione di quella che ritengo la terza fase dei nostri rapporti, che incomincia con quello che per me e per la maggior parte di noi è stato l’inizio della terza età. L’inizio di questa fase io lo situo anagraficamente per me attorno ai 54/55 anni, quindi attorno agli anni 2001/2002.

Attorno a questi anni incomincia una nuova fase della mia vita non solo fisica e anagrafica, ma soprattutto psicologica. Perché recupero, gradualmente, ma sempre più distintamente, con sempre maggiore energia e consapevolezza, quella che era stata una dimensione che (a dire il vero) non mi aveva mai abbandonato del tutto, ma che negli anni della maturità, negli anni di mezzo della mia vita, avevo messo un po’ in secondo piano: la dimensione della spiritualità, della contemplazione, in altre parole potrei definirla pure della ricerca della Sapienza (Sapienza con la S maiuscola): la dimensione che oggi non esiterei a definire perfino religiosa della mia vita.

Anche se una dimensione del tutto laica, fondata su nessuna fede cieca e su nessun libro sacro. Religiosa nel senso semplice ma letterale del verbo “religo”, ovverossia del sentirmi membro dell’intera famiglia umana, quindi legato essenzialmente, strutturalmente a ciascun componente di questa famiglia, anzi (di più) frammento dell’intero universo, quindi legato al Cosmo intero e non solo all’Umanità in quanto specie.

E, infatti e non a caso, il “sentimento cosmico” (come lo ha spesso descritto  Einstein) o il “sentimento oceanico” (come lo hanno definito Romain Rolland e Sigmund Freud in un loro celebre scambio epistolare) è ciò che caratterizza specificamente la mia religiosità attuale e ritrovata, che è poi null’altro che la mia spiritualità rinsaldata e maggiormente consapevolizzata.

Sulla base di una convinzione forte che mi ha accompagnato sempre in questi ultimi anni: “la spiegazione razionale del mondo divulgata dalla scienza ha inesorabilmente corroso lo spazio sacro, che è il (….) naturale dominio” (delle religioni), ma non ha rese superate le domande da cui sono nate le religioni. Che sono poi “domande di senso”: le stesse a cui cerca di rispondere la filosofia.

Ora quali ricadute ha avuto questo mio percorso spirituale sui nostri rapporti? E’ successo (e per me mai niente succede a caso) che abbiamo ripreso a vederci più spesso, non solo in ambiti politici, ma anche alla Scuola di pace e anche qui, in alcuni omenti di incontro della comunità.

Dove alcuni miei interventi di riflessione politica ma anche filosofica (filosofica, proprio nel senso letterale di cui dicevo prima, di amore e ricerca della Sapienza) sono stati riconosciuti e (perfino) utilizzati in alcune vostre “liturgie” (se posso ancora continuare a chiamarle così) o momenti di riunione.

Fino all’ultima scoperta (per me molto piacevole) che per voi si era aperto un cammino di riflessione e ricerca che dalla dimensione religiosa si spostava nettamente (se non proprio esclusivamente) sulla dimensione spirituale, attraverso il superamento della stessa religione.

Quindi non più o non tanto l’esperienza di una “religiosità altra” e, per conseguenza, di una “Chiesa altra”, ma il superamento della stessa religiosità e, quindi, dei confini stessi della Chiesa.

Dell’abbattimento perciò di tutti gli steccati che separano una comunità cristiana (per quanto di base) dall’universale e (mi verrebbe di dire: scusate il gioco di parole) comune comunità degli uomini.

Qui, se questo vostro cammino dovesse andare avanti e arrivare alle sue estreme conseguenze, i nostri rispettivi percorsi potrebbero di nuovo incrociarsi e forse addirittura tornare a coincidere. Come in cuor mio mi auguro e vi auguro.

E non certo perché sia cosa importante che questo succeda: in fondo ci vogliamo già bene così e continueremmo a volercene anche se continuassimo a camminare su strade un po’ diverse.

Ma perché questo fatto sarebbe la realizzazione di quanto auspicato da un uomo che molti di noi qui presenti hanno sicuramente molto amato e molto stimato, un uomo che è stato uno dei profeti più importanti della Chiesa cattolica del ‘900: sto parlando di Ernesto Balducci.

Che in un suo libro bellissimo del 1985, “L’uomo planetario”, già profetizzava l’avvento di “una nuova epoca per la spiritualità umana”. E lo faceva più di 30 anni prima che John Shelby Spong, Maria Lopez Vigil, Roger Lenaers e Josè Maria Vigil scrivessero il loro “Oltre le religioni”, che so essere stato al centro della vostra riflessione/meditazione all’incirca un anno fa.

In questo libro, che sicuramente molti di voi avranno letto, Ernesto Balducci parlava dell’uomo planetario in questi termini (ne cito i paragrafi finali):

L’uomo planetario è l’uomo postcristiano, nel senso che non si adattano a lui determinazioni che lo separino dalla comune degli uomini.

Liberata dalle sue obiettivazioni ontologiche e restituita alla sua dinamica esistenziale, che cos’è l’Incarnazione se non un’immersione di Dio nell’umano, in virtù dell’amore che di Dio è la stessa essenza?…

… La qualifica di cristiano mi pesa. Mi dà soddisfazione sapere che i primi credenti in Cristo la ignoravano…

… Non sono che un uomo: ecco un’espressione neotestamentaria in cui la mia fede meglio si esprime. E’ vicino il giorno in cui si comprenderà che Gesù di Nazaret non intese aggiungere una nuova religione a quelle esistenti, ma, al contrario, volle abbattere tutte le barriere che impediscono all’uomo di essere fratello all’uomo e specialmente all’uomo più diverso, più disprezzato…

… E’ questa la mia professione di fede, sotto le forme della speranza. Chi ancora si professa ateo o marxista o laico e ha bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentanze sul proscenio della cultura, non mi cerchi.

Io non sono che un uomo.”

E’ questa la mia stessa professione di fede. In essa mi riconosco pienamente. Ci tenevo a darvene testimonianza in questa occasione in cui festeggiamo i 50 anni della vostra/nostra Comunità.

Con i migliori auguri, il vostro affezionato amico, compagno e fratello!

Giovanni Lamagna

La fine di un amore

13 novembre 2016

 

La fine di un amore

 

Vedo che ti sei rassegnata

alla fine del mio amore per te.

Mi viene allora il dubbio

che non era il mio amore

che cercavi.

 

Forse cercavi un amore

diverso

che non ho saputo

e non ho voluto

darti.

 

Forse il nostro incontro

è avvenuto per sbaglio.

Forse ciascuno dei due

cercava una persona diversa

quando ha incontrato

l’altro.

 

E oggi

solo oggi

ce ne siamo resi

ce ne stiamo rendendo conto.

 

E’ duro accettarlo,

accettarlo adesso

che siamo vecchi,

che è tardi,

troppo tardi

per ricominciare.

 

Non ci resta

che farci compagnia

come due buoni amici,

come due buoni fratelli.

 

Ma è triste questa amicizia,

è triste questa fratellanza.

Anche se è meglio di niente,

meglio della nera solitudine.

 

Giovanni Lamagna