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Rapporto genitori/figli.

Nessuno di noi nasce ovviamente dal nulla, ciascuno di noi nasce da (è figlio di) due genitori.

Di cui – in un certo senso – è, dunque, la copia, la replica.

È quindi la copia, la replica di un Altro.

Allo stesso tempo ognuno di noi è però Altro rispetto ai suoi genitori, è il Nuovo, il diverso che nasce.

La copia, la replica, infatti, non sono mai fedeli, ma sempre in qualche misura infedeli e, quindi, per certi aspetti almeno, originali.

Il rapporto figli/genitori si gioca, dunque, tutto su questa contraddizione-paradosso: continuità/discontinuità, medesimo/diverso, fedeltà/infedeltà, interezza/rottura.

© Giovanni Lamagna

Fedeltà e infedeltà.

A volte, per rimanere fedeli al proprio daimon, cioè alla propria personale vocazione interiore, occorre diventare infedeli ai “giuramenti” e, perfino, ai contratti formali (ad esempio, un matrimonio) che abbiamo stipulato con altre persone.

È ciò che avviene quando le coppie, pur nate da una forte passione, si sciolgono, perché uno dei due membri della coppia, dopo un certo tempo, non prova più gli stessi sentimenti iniziali, o quando i matrimoni finiscono con un divorzio.

Non è questa l’unica spiegazione che si può dare della rottura di una coppia e perfino della fine di un matrimonio; ma certo è una delle spiegazioni possibili.

© Giovanni Lamagna

Infedeltà e cambiamenti.

In fondo la nostra (più o meno lunga) vita altro non è (e non potrebbe non essere) che una (più o meno lunga) sequela di infedeltà.

Se, infatti, non fossimo “infedeli” a ciò che siamo (e, ancora di più, a ciò che siamo stati), come faremmo a cambiare; e, quindi, ad evolvere, a crescere, a migliorare noi stessi?

Chi rimane sempre “fedele” a sé stesso e alle persone con cui ha o ha avuto delle relazioni può essere definito una persona viva, vitale?

© Giovanni Lamagna

Il quotidiano e l’assoluto.

Nel suo libro “L’Arcisenso” il filosofo Aldo Masullo introduce il capitolo dedicato alla “Sapienza”, parlando (a pagina 119) “dell’insidioso insinuarsi della produzione mentale di assoluto nel tessuto della quotidianità umana”.

Come a dire (almeno io così l’ho interpretato): la quotidianità umana è fatta essenzialmente di contingenza e di relativo, ma l’animo umano è destinato a incrociare spesso (e volentieri) la dimensione dell’assoluto.

Dimensione quasi sempre fallace: una specie di allucinazione, frutto “della produzione mentale” dell’uomo stesso, che gli fa perdere di vista i contorni della nuda ed effettiva realtà. Tanto è vero che il filosofo Masullo fa cenno al “disastroso effetto” di questo “insinuarsi della produzione mentale di assoluto”.

Io avrei adoperato, invece del termine “insinuarsi” (che lascia pensare a un lento e dolce “introdursi”), piuttosto il termine “irrompere”. In quanto, più che un cambiamento, l’assoluto produce, il più delle volte, un vero e proprio sconvolgimento “della quotidianità umana”.

Eppure, nonostante il “disastroso effetto” che quasi sempre esso produce, sembra esistere nell’animo umano una irresistibile attrazione per l’assoluto, per questa rottura della contingenza e della relatività insite nella condizione umana che il suo irrompere introduce. Anche questo è un dato di realtà.

A questo punto insorgono in me due domande.

Innanzitutto: quali sono le principali situazioni in cui l’uomo sperimenta l’insinuarsi (come dice Masullo) o l’irrompere (come mi permetto di dire io) dell’assoluto nella sua vita? E’ possibile indicarne alcune, almeno le principali, le più ricorrenti nella vicenda umana? A mio avviso, sì.

La prima, la più a portata di mano e, quindi, la più sperimentata dalla grande maggioranza degli uomini, è quella dell’innamoramento.

Quando ci si innamora, infatti, l’altro/a diventa per l’innamorato/a una sorta di assoluto, che rompe, spezza la monotonia della sua esistenza quotidiana.

La figura dell’innamorato/a ci è continuamente presente, come fosse un miraggio nel deserto.

Si dilata, ci accompagna e, quindi, la vediamo dappertutto, anche quando è momentaneamente assente dal punto di vista fisico, moltiplicata all’infinito, proiezione evidente del nostro desiderio che la sua presenza non ci manchi mai.

La nostra giornata è accompagnata, come in sottofondo, da una sorta di dolcissima colonna sonora che la rallegra, anzi la rende felice, perché unica, speciale.

I nostri orizzonti sensoriali si dilatano all’infinito, come sotto un effetto allucinogeno, esaltando la nostra potenza, come in una specie di delirio. Quando siamo innamorati nulla ci sembra impossibile, anzi tutto sembra alla nostra portata.

L’innamoramento produce una vera e propria deformazione ottica. Caudale (re della Licia) “era innamorato di sua moglie; e, nell’esaltazione dell’amore, credeva di possedere la donna di gran lunga più bella di tutte”. Non a caso la sua storia (Erodoto; Storie; Libro I) viene citata da Masullo come esempio perfetto (“una perfetta mitizzazione”) dell’assunto iniziale da cui siamo partiti.

La seconda situazione in cui ci è dato verificare l’irrompere dell’assoluto nella nostra vita è, per certi aspetti, speculare alla prima: è la sperimentazione del rischio e dell’avventura, cioè della possibilità (in certi casi addirittura, paradossalmente, voluta, ricercata) di perdere il bene che ci rende felici, al limite il bene della vita stessa.

L’amore ci conferma e, perciò, rassicura: in questo sta la felicità ad esso collegata. Il rischio e l’avventura mettono tutto in pericolo, in discussione ed a soqquadro, ma introducono, allo stesso tempo, un elemento adrenalinico, che l’eccesso di conferma e di rassicurazione corre il rischio di spegnere: sta in questo l’eccitazione e la felicità che essi possono procurarci.

Caudale mette a rischio la sua felicità di marito, di uomo esaltato dall’amore che nutre per la moglie, offrendola alla vista (e, quindi, al desiderio) di un altro uomo: Gige, la più fidata delle sue guardie del corpo. In questo modo corre il rischio di eccitare anche il desiderio della moglie e di indurla alla infedeltà nei suoi confronti.

Mette a rischio, anzi, come ci racconta Erodoto, la sua stessa vita. Di uomo ricco, di potere e di amore. Eppure egli sceglie (non si capisce bene con quanta consapevolezza; ma la cosa ha molta importanza?) di correre questo rischio, perché l’eccitazione data dal rischio è simile all’eccitazione che danno il potere, la ricchezza e, perfino, l’amore.

Il rischio ha il potere di interrompere la monotonia che possono intervenire in una situazione in cui c’è troppa sicurezza. Il rischio quindi è un altro modo di sperimentare l’irruzione dell’assoluto nella nostra esistenza, nella nostra monotona quotidianità.

Esistono poi, a mio avviso, altri tre modi di incontrare l’assoluto, di interrompere (o, almeno, coltivare l’illusione di interrompere) lo scorrere contingente, fragile, monotono, della nostra esistenza.

Il primo è l’ispirazione artistica, che in certi casi assume le caratteristiche di un vero e proprio raptus. Il vero artista non è colui che decide di fare l’opera d’arte, ma è colui che è trascinato da una forza quasi a lui estranea a fare l’opera d’arte.

Il risultato è qualcosa che è paragonabile alle meraviglie stesse del creato. Non solo perché ne eguaglia per certi aspetti la bellezza. Ma perché è omologo in qualche modo all’atto stesso della creazione.

Perciò anche il semplice fruitore dell’opera d’arte ne è in qualche modo rapito, allo stesso modo di come ciascuno di noi rimane rapito, addirittura talvolta estasiato di fronte ad un cielo stellato, a certe albe o a certi tramonti, a certi paesaggi della natura che sembrano mostrarci l’essenza stessa del bello.

Il secondo è l’intuizione filosofica o scientifica. Io credo che sia il filosofo che lo scienziato vivano e lavorino alla ricerca del mistero della vita. Il primo sotto l’aspetto più spirituale e intellettuale del termine. Il secondo sotto l’aspetto più materiale, in senso lato, del termine, comprensivo della dimensione chimica, biologica, fisica, fisiologica e via dicendo.

Quando il filosofo e lo scienziato (per vie ovviamente molto diverse) incontrano, colgono, uno spicchio, uno sprazzo, un pezzettino di questo mistero assoluto che sono la vita e l’universo, credo che l’esperienza psicologica da loro vissuta sia quella (non saprei definirla in altro modo) dell’incontro con l’assoluto, dell’insinuarsi (o dell’irrompere) dell’assoluto nella loro vita.

Il terzo è l’illuminazione o estasi mistica. Il mistico è una persona che ha un solo o principale scopo nella vita: quello di entrare in comunione, farsi uno, con l’universo che lo circonda (l’universo fisico, costituito dalla natura, e l’universo antropologico, costituito dai suoi simili). Dio è solo la metafora di questo Tutto, con il quale il mistico aspira a connettersi.

Quando vive (nei pochi, rari o, per alcuni fortunati, molti momenti in cui riesce a vivere) l’esperienza dell’illuminazione o dell’estasi (che non è facile da definire, proprio perché essa ha a che fare con il mistero, l’essenza stessa della vita) entra in contatto con l’assoluto (o, almeno ha l’impressione, la percezione, quasi fisica, di entrare in contatto con un qualcosa o qualcuno che per lui è l’assoluto).

Concludo provando a rispondere alla seconda delle due domande che erano insorte in me all’inizio di questa riflessione: che cosa spinge l’uomo a ricercare l’assoluto nella sua vita? o (ponendo la stessa domanda da un altro versante) che cosa lo predispone all’insinuarsi (come dice Masullo) o all’irrompere (come propendo a dire io) dell’assoluto nella quotidianità della sua esistenza?

La mia risposta è secca, netta, precisa: la noia.

L’uomo deve combattere con una malattia, un tarlo incombente, che può diventare addirittura un vero e proprio cancro, in grado di rovinare qualsiasi situazione esistenziale, anche quella di massimo benessere, perfino quella, rara e pure da alcuni sperimentata, almeno in certi momenti, che potremmo definire di felicità.

Questa malattia è la monotonia, la routine, la ripetitività. Che a loro volta producono lo stato d’animo della noia, il tarlo in grado di rodere e consumare anche la più perfetta delle gioie e delle felicità.

L’unico rimedio, farmaco in grado di guarire da questa malattia o, almeno, di interrompere il suo circuito perverso e il suo progressivo aggravamento è l’incontro con l’assoluto o, meglio, con ciò che l’uomo si illude sia l’assoluto, definendolo con questo termine, in fondo del tutto convenzionale.

Questo incontro può avvenire, a mio avviso, solo nei cinque modi che ho provato a descrivere sopra. Anche se non posso escludere che ce ne siano degli altri.

Un altro, il primo che mi viene in mente in questo momento, è forse il gioco. Anche se il gioco mi sembra parecchio più futile, effimero e meno potente degli altri cinque per l’effetto terapeutico che può avere sulla malattia di cui parlavo prima.

Come tutti i farmaci, però, anche quelli da me indicati hanno delle controindicazioni. Che, in alcuni casi, possono essere addirittura devastanti, disastrosi. Come afferma Masullo e come ci dicono le biografie di molti amanti, artisti, filosofi, scienziati e mistici.

Eppure credo che davanti all’uomo ci siano solo due opportunità, due scelte: o quella di un’esistenza potremmo dire senza storia, una vita mancata, persa nella tranquilla mediocrità del quotidiano; o quella di azzardare il rischio, l’avventura dell’incontro (almeno momentaneo) con l’assoluto, con lo straordinario.

In questo secondo caso, è vero, l’uomo corre il pericolo di andare incontro a un esito che potrebbe essere disastroso. Da temere, ma non certo.

Nel primo caso, invece, il disastro è sicuro, perché è già in atto. Non c’è neanche bisogno di temerlo, perché è già presente.

Giovanni Lamagna

Tre tipi di approccio al sesso.

22 aprile 2015
Tre tipi di approccio al sesso.
Ci sono tre tipi di rapporto col sesso.
Il primo è quello di chi considera il sesso una cosa schifosa e ne fa del tutto a meno. O quello di chi ne ha vergogna e cerca di evitarlo o farlo il meno possibile. Non solo non ne prova piacere, ma ne ha addirittura fastidio e, in certi casi, perfino ripugnanza.
Si tratta di una situazione estrema ed oggi ridotta a pochi e rari casi. Ma comunque di una situazione ancora oggi esistente, nella quale è possibile riconoscere persone (poche magari) a noi vicine o persone di cui abbiamo o abbiamo avuto conoscenza.
Il secondo è quello di chi ha piacere a vivere il sesso, ma non osa dirlo fino in fondo, manco a se stesso, come se avesse una qualche ritrosia a dire “Il sesso mi piace!”, un qualche pudore (in altre parole: vergogna).
E’ la situazione di chi pratica il sesso, anche con una buona frequenza e costanza, ma quasi come una realtà separata dal resto della propria vita, di cui si parla con qualche ritegno e molta riservatezza, che non si vuole, insomma, dare troppo a vedere. Il sesso deve rimanere una realtà recondita, nascosta. Fa parte della pura privacy, quella che si definisce “intimità”.
E’ la situazione di chi, per fare sesso, (io dico) ha bisogno di tenere gli occhi chiusi. Metaforicamente. Ma, spesso, anche materialmente. Perché in qualche misura ne prova vergogna. Vergogna mascherata da (e presentata) come senso del pudore.
E’ la situazione di chi per fare sesso ha bisogno di essere un po’ brillo, quasi in una situazione di trance, al limite tra la consapevolezza e l’inconsapevolezza, tra la veglia e il sonno.
Per questo secondo tipo di persone il sesso, in genere, deve essere una cosa mordi e fuggi. Se non proprio una sveltina, manco una cosa che duri troppo a lungo. Altrimenti diventa difficile reggerne la tensione emotiva, legata al senso di colpa.
Per questo tipo di persone in genere la nudità è un problema; si preferisce fare sesso scoprendosi il meno possibile.
Per questo tipo di persone nel sesso prevale nettamente la dimensione affettiva e sentimentale su quella fisica ed erotica. Per queste persone il sesso deve rassicurare più che scuotere, confermare più che turbare.
Esiste, infine, il terzo tipo di rapporto col sesso: quello di chi non solo non ha paura del sesso e non lo trova ripugnante; quello di chi non solo lo trova piacevole ma ha qualche ritrosia a parlarne, come se si trattasse di una realtà in qualche misura comunque scabrosa; ma quello di chi considera il sesso una dimensione centrale della propria vita, allo stesso livello di quella emotiva, di quella sentimentale, di quella affettiva, di quella intellettuale. Non semplicemente funzionale (e quindi subordinata) a queste.
E’ il rapporto di chi trova nel sesso una dimensione unica per conoscere se stesso e l’altro. E, quindi, non solo lo vive senza alcun imbarazzo, ma ha desiderio di raccontarlo, rivelarlo, manifestarlo nel suo agire quotidiano, nei suoi gesti ordinari di ogni momento. Non come forma di (sguaiato) esibizionismo, ma come naturale manifestazione di un suo modo naturale, complessivo e profondo di essere e, quindi, anche di apparire.
E’ il rapporto di chi è erotico non solo a letto, quando fa all’amore col suo partner, ma lo è sempre, in ogni momento della sua vita. E non solo non se ne vergogna, ma ne è fiero (potremmo dire “gay”), perché si sente, in questo suo modo di essere, una persona unificata e perciò liberata.
E’ il rapporto di chi attraverso il sesso entra in maniera privilegiata in contatto con la propria natura animale. E non solo non si vuole sottrarre a questo contatto, ma lo ricerca, come occasione unica e speciale di crescita psicologica e, quindi, umana.
E’ il rapporto di chi attraverso il sesso entra in contatto con la propria natura perversa e polimorfa (come Freud definiva la sessualità umana).
Perversa non nel senso usuale, deteriore e negativo, del termine. Ma perversa nel senso che non si limita a vedere nel sesso un atto puramente procreativo (come ha previsto la natura), ma una forma di linguaggio (del tutto speciale), quindi figlio e generatore di cultura.
Polimorfa perché, proprio dal momento che il sesso è una forma di linguaggio, esso non si realizza in una sola lingua, non usa una sola ortografia, una sola grammatica e una sola sintassi, ma può realizzarsi nelle forme più varie.
Ad una sola condizione: che il linguaggio che io voglio usare sia compreso e condiviso dall’altro/a. Che ci sia alleanza, complicità con l’altro/a.
Il sesso è un linguaggio del tutto particolare, che ci consente, più e meglio della parola parlata, di scendere negli abissi della nostra natura più oscura e quindi di fare luce sulle nostre ombre più inconfessabili.
Per chi lo intende in questo modo il sesso è un’avventura speciale, ogni volta trasgressiva, perché ogni volta alla ricerca del superamento del limite, del confine già raggiunto.
In questo senso il sesso è una forma di conoscenza e di ascesi, che ha a che fare con la crescita spirituale. Gli orientali da questo punto di vista hanno molte cose da insegnare a noi occidentali.
Per questo considero la pratica tantrica la massima espressione della religiosità umana. Perché è quella che più di altre è stata capace di coniugare e conciliare gli (apparenti) opposti: corpo e anima, sesso e spiritualità, amore e trasgressione, fedeltà e infedeltà, desiderio e oblatività, egoismo e altruismo, aggressività e donazione, gioco e impegno.
Laddove, invece, molte forme di religiosità, anzi la maggior parte di esse, vivono, fondano la loro teoria (teologia) e la loro pratica (ascesi) proprio sull’affermazione della inconciliabilità di questi “opposti”. Di cui alcuni rappresentano (per loro) il bene e altri il male, alcuni le virtù e altri il peccato, alcuni la salvazione e altri la perdizione.
La spiritualità tantrica ci insegna (o, meglio, può insegnarci) che non esiste peccato, non esiste dannazione, laddove c’è un desiderio, laddove un desiderio incontra il desiderio di un altro. Che anzi il vero peccato, la vera dannazione stanno – direbbe Lacan – nella rinuncia al proprio desiderio.
Giovanni Lamagna