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Gli uomini e il sesso.

Krishnamurti (ne “La quiete della mente”; Ubaldini Editore; pag. 152) si chiede: “… perché la società ha attribuito al sesso questa straordinaria importanza?”.

E subito dopo si interroga sulle “sanzioni religiose che ne derivano”, che tendono a porre degli argini all’esperienza di “piacere” e di “bellezza” che gli uomini collegano al sesso.

Voglio pormi queste stesse domande e provare a dare le mie risposte.

Quanto alla prima domanda la mia risposta è molto semplice, anche se duplice: 1) nel sesso gli uomini sperimentano forse il massimo del piacere fisico, emotivo e mentale, in certi casi anche spirituale, che è dato loro provare nella vita; 2) al sesso è collegata la sopravvivenza della specie, quindi la continuazione della vita stessa.

Ci può essere, dunque, un interesse superiore a quello che gli uomini provano normalmente per il sesso? Ci può essere, quindi, nella vita una realtà superiore al sesso, che sia più importante del sesso?

Sì, ci può essere; ma in qualche modo essa sarà sempre e comunque gemmazione della pulsione sessuale, una forma di filiazione da quella primaria, primordiale, che è il sesso; ne sarà, come ci hanno insegnato Freud e la psicoanalisi, una sua sublimazione.

In molti casi positiva, utile, necessaria, senza alternative: non si può certo passare tutto il proprio tempo a fare sesso; come minimo, oltre a fare sesso, bisognerà lavorare per procurarsi quanto è necessario a sopravvivere.

In altri casi negativa, inutile, addirittura dannosa, produttiva di malattie fisiche e mentali, nevrosi e in alcuni casi persino psicosi: quando si fa poco sesso o addirittura vi si rinuncia, perché si è incapaci – per timori inconsci, ma ben reali – di goderne.

Anche alla seconda domanda di Krishnamurti la mia risposta è semplice: gli uomini hanno sentito il bisogno (soprattutto attraverso le religioni) di imporsi delle sanzioni che limitassero la loro naturale e tendenzialmente sconfinata propensione verso il sesso, per il timore, la paura (che, ricordiamolo, non sono mai del tutto separabili dal piacere e dal desiderio) di esserne travolti, di non riuscire più ad occuparsi anche di altre cose nella vita, pur esse necessarie, anzi senz’altro più necessarie del sesso.

Pensiamo, ad esempio, alle necessità – anche solo quelle primarie, cui ho già fatto riferimento in precedenza – di procurarsi del cibo, una casa, degli abiti e, inoltre, di occuparsi dell’allevamento della prole, incapace da sola, nei primi anni di vita, di badare alla propria sopravvivenza.

C’era il rischio, dunque, per l’uomo che il sesso con la sua fortissima carica attrattiva, potesse essere vissuto come una sorta di canto delle sirene, di droga, che avrebbe potuto distrarlo da altre incombenze, indubbiamente meno o, in certi casi, per nulla seducenti, legate alla fatica del vivere; o, meglio, innanzitutto del sopravvivere.

Di qui la necessità di crearsi degli argini, persino degli ostacoli, di imporre dei limiti alla fortissima pulsione del sesso, di non farlo diventare una sorta di ossessione, come invece rischiava di diventare, se gli uomini non si fossero dati delle norme e non avessero previsto delle sanzioni collegate alla mancata osservanza di queste norme.

Come possiamo verificare in alcuni casi patologici, anche oggi, perfino nelle nostre odierne società, ipermoderne ed evolute, molto razionali e culturalmente avanzate, addestrate ormai a controllare (forse addirittura fin troppo!) gli istinti primari e persino le emozioni e i sentimenti.

Accade anche oggi, infatti, che il sesso in alcuni individui (nevrotici o, addirittura psicotici) diventi una pulsione maniacale, che norme e sanzioni sociali, tuttora vigenti, non riescono ad arginare, generando quindi disagi, più o meno acuti; nel soggetto malato innanzitutto, ma anche nel contesto ambientale in cui egli vive ed opera.

© Giovanni Lamagna

Monogamia, poligamia e poliamore

Per quello che ne so, la gran parte degli studi antropologici ci dice che la monogamia, come struttura organizzativa fondamentale e storicamente prevalente dei legami tra maschi e femmine, sia stata inventata dai maschi.

Perché essi potessero avere 1) la (quasi) certezza dell’appartenenza biologica della propria prole e 2) una figura che garantisse l’allevamento, la cura e la crescita dei propri figli, mentre egli era lontano per motivi di caccia o di pastorizia.

Se questa ricostruzione è attendibile, la monogamia sarebbe stata dunque imposta alle femmine, anche se queste ne hanno poi tratto dei vantaggi secondari: questo tipo di organizzazione, infatti, assicurava il cibo alla prole oltre che a loro.

Gli stessi maschi poi, presso alcune società, hanno inventato la poligamia; che significava per alcuni di essi la possibilità di realizzare appieno la propria libido (tendenzialmente poligamica e non certo monogamica) possedendo più femmine; e per le femmine la dipendenza (economica, affettiva, sessuale) da un solo uomo, con il conseguente sacrificio (almeno parziale) della propria libido (tendenzialmente poligamica come quella del maschio).

La poligamia ha dunque questo dato fondamentale che la caratterizza con tutta evidenza: vale per il maschio e non per la femmina; è dunque un’organizzazione dei rapporti maschi/femmine completamente e radicalmente asimmetrica.

Da qualche decennio, soprattutto nelle società ad economia più avanzata e, quindi, più aperte ed evolutive sul piano dei costumi, è affiorata l’idea di un modo nuovo di pensare e vivere i rapporti tra maschi e femmine: quello poliamoroso.

In linea teorica il poliamore nasce come opzione valida sia per i maschi che per le femmine; si basa quindi su un’idea (finalmente) paritaria (almeno sul piano teorico-ideale) dei rapporti tra maschi e femmine.

E questo dato lo distingue nettamente e profondamente dalla poligamia tradizionale, come l’abbiamo conosciuta storicamente, presso le varie società che l’hanno istituita e praticata per secoli, in alcuni casi per millenni.

E, infatti, ci sono poliamoristi maschi e poliamoriste femmine. Ma la mia impressione (non so se ci siano anche dati statistici che lo confermano) è che ci siano molti più poliamoristi maschi che poliamoriste femmine.

Se ne può dedurre che anche il fenomeno del poliamore sia partito dai maschi, credo per portare alla luce del sole e non essere costretti a vivere più in maniera clandestina quella che è stata sempre una loro tendenza tipica: quella di avere più legami (e non uno solo) con le femmine.

Mentre ho l’impressione che la gran parte delle femmine continui a prediligere ancora oggi la coppia rigidamente monogamica, continui cioè ad avere  una struttura psicologica saldamente orientata verso la monogamia, come espressione di un sogno/mito tipico della psicologia femminile: quello dell’amore romantico.

E’ del tutto evidente, quindi, che il fenomeno poliamoroso non avrà alcuna possibilità di affermarsi su una larga scala sociale, se nelle femmine non verrà meno questo mito, quasi archetipico, così fortemente radicato nel loro inconscio.

Se, in altre parole, le donne non supereranno una concezione che, nei fatti e sui grandi numeri (fatte quindi le dovute eccezioni), le rende (ancora oggi e per molti aspetti) subalterne alla figura maschile, orientate come sono (quasi come interesse prevalente) alla ricerca dell’uomo della loro vita, l’uomo dei loro sogni.

© Giovanni Lamagna

Qual è lo scopo ultimo della specie umana?

Nella risposta ad una lettrice che, su “D la Repubblica” del 31 agosto 2019, si (e gli) chiedeva: “Se l’individualità dell’uomo deve sacrificarsi per la sopravvivenza della specie, qual è lo scopo ultimo della specie? Se il dolore è necessario alla morte dell’individuo per far sì che la specie si perpetui, qual è il significato ultimo di questa?”, Umberto Galimberti così scriveva:

Lei affonda il suo sguardo sul tema più tragico della condizione umana, proprio laddove confliggono le due soggettività che ci costituiscono: la soggettività dell’Io che tutti conosciamo e che dirige la nostra esistenza a partire dai suoi progetti, le sue ideazioni, i suoi sogni; e la soggettività della specie, del tutto indifferente ai progetti, le ideazioni, i sogni dell’Io.

Infatti, ciò che alla specie importa è solo la procreazione che garantisce la sua continuità; per questo ci fornisce di due pulsioni: quella sessuale per la procreazione e quella aggressiva per la difesa della prole.

A che scopo?, lei si chiede. Per nessun scopo, perché, come scrive Schopenhauer: “Il soggetto del gran sogno della vita è uno soltanto: la volontà di vivere”.

Per questo senza ragione cresce l’erba sul ciglio della strada se appena, appena c’è un po’ di terra, senza ragione germoglia un fiore se un po’ di rugiada ne inumidisce il seme.

Ora sia le domande della lettrice che la risposta di Galimberti mi inducono alcune riflessioni che vorrei provare ad articolare.

Non ci sono dubbi che la domanda posta dalla lettrice sia, come dice Galimberti, la domanda centrale del pensiero filosofico. La domanda, del resto, che si pongono un po’ tutti gli uomini, chi più e chi meno, in maniera più o meno cosciente, più o meno approfondita.

Galimberti alla domanda risponde in maniera molto netta e drastica: la volontà di perpetuarsi della specie (quella che Schopenhauer chiama “la volontà di vivere”) non ha alcuno scopo: è semplice volontà di autoriproduzione.

E, secondo me, dà una risposta corretta: anch’io penso che la vita non abbia alcuno scopo meta-fisico, alcuno scopo, cioè, che sia fuori di sé, oltre la vita.

Non c’è, infatti, un’altra vita dopo di questa, un’altra vita (ultraterrena) che dia uno scopo e una giustificazione a questa terrena, come vogliono farci credere la maggior parte delle religioni che abbiamo conosciuto nella storia.

E però mi chiedo: la risposta di Galimberti (che del resto è simile a quella molto nota di Schopenhauer) è del tutto corretta, nel senso che esaurisce le possibilità di risposta alla domanda della lettrice? E qui mi viene qualche dubbio.

Dubbio, che si esplicita, d’istinto prima che di ragione, nella seguente affermazione: no, a mio avviso, la risposta di Schopenhauer e di Galimberti non è completa; e, quindi, non soddisfa del tutto la nostra ragione. Provo ad argomentarla.

La “volontà di vivere” di cui parlano sia Schopenhauer che Galimberti, al livello dei singoli individui, cioè delle singole soggettività umane, non è solo una qualsivoglia volontà di vivere, ma una volontà di vivere ben precisa: è “la volontà di vivere bene” (il più possibile bene), di essere felici (o il più possibile felici).

Non è una pura e semplice volontà di sopravvivenza, comunque sia.

Questo vuol dire che nella natura stessa della specie è inscritto qualcosa in più del semplice istinto alla procreazione, cioè alla propria autoriproduzione: quasi una terza pulsione, dopo quella sessuale e quella aggressiva.

E’ inscritto qualcosa che punta al bene-essere (e non solo, quindi, al semplice essere) e prelude pertanto alla cultura, che è l’insieme della forme che la specie umana ha inventato, per consentirsi, garantirsi, il massimo bene-essere possibile.

Sono inscritte, quindi, già nel programma filogenetico della specie, nel suo DNA: i miti, le religioni, la mistica, la filosofia, la morale, la politica, l’arte, la scienza…

La specie umana, dunque e per concludere, è ben di più che semplice “volontà di vivere”. E’ anche (e io direi soprattutto) volontà di produrre cultura, che potremmo definire anche “volontà di trascendersi”.

L’uomo è, quindi, fatto non solo per generare opere della carne, per procreare (come si limitano a fare gli altri animali), ma anche per generare opere dello spirito.

E questo dà un valore aggiunto e una motivazione ulteriore alla sua “volontà di vivere” su questa terra: quella di “ex-sistere” e non solo “sistere”.

© Giovanni Lamagna

Siamo sia angeli che demoni. Alla fine di questo tempo di corona virus saremo più angeli o più demoni?

Nel numero del 17 aprile 2020 de “il venerdì di Repubblica” è comparso un articolo, a firma di Alex Saragosa, dal titolo “Siamo buoni per natura (quasi come le formiche)”, nel quale vengono riportate (ovviamente in forma molto sintetica) le tesi di Edward Wilson, 91enne professore emerito ad Harvard e padre della sociobiologia, una disciplina che si colloca a metà fra la biologia e la sociologia, fra le scienze naturalistiche e quelle umanistiche.

Lo riporto quasi integralmente (con piccole modifiche) e quasi interamente, per poi utilizzarlo come (pre)testo per una riflessione su un tema che mi sta molto a cuore, uno dei temi classici della filosofia: l’uomo è prevalentemente buono o prevalentemente cattivo?

“Nel suo “Le origini profonde delle società umane” (Raffaello Cortina Editore), Wilson identifica sei tappe nell’evoluzione del mondo vivente, ognuna caratterizzata dall’apparizione di strutture di complessità superiore: si comincia (1) con la comparsa stessa della vita e si prosegue (2) con la formazione delle cellule eucariote, nate dalla fusione di più rudimentali cellule batteriche, (3) lo sviluppo del sesso, che crea nuovi individui mescolando il genoma di altri, (4) l’apparizione di esseri viventi multicellulari e poi (5) quella delle società animali.

Al vertice di queste società – spiega Wilson – ci sono quelle delle specie eusociali: qui gli individui sono disposti a sacrificare la riproduzione o persino la vita per il bene comune del gruppo a cui appartengono, come accade per termiti, formiche, api, ma anche per Homo sapiens, l’unica specie che abbia raggiunto anche la sesta tappa della complessità, lo sviluppo di un linguaggio simbolico astratto che consente un eccezionale coordinamento fra gli individui.

Questo primato, secondo Wilson, non ci deve però dare l’illusione di essere “speciali”: siamo, come tutti gli altri viventi, solo frutto di circostanze fortuite.

Il nostro successo deriva soprattutto dall’avere agili mani da primate, liberate poi dal camminare eretti, che ci hanno avvantaggiato nell’uso di oggetti su chi ha pinne, ali o artigli, e dall’aver ereditato il cervello di scimmie sociali, quindi già predisposto per la comunicazione e la decifrazione di emozioni e intenzioni altrui.

E’ con queste poche qualità che, circa cinque milioni di anni fa, abbiamo affrontato la savana, un ambiente ricco ma pericoloso, in cui la salvezza poteva venirci solo dall’agire collettivamente. Ciò ci ha spinto verso lo sviluppo ulteriore di comunicazione, solidarietà ed empatia, fino al sacrificio dei singoli a vantaggio del gruppo.

Nella savana abbiamo anche costruito i primi rifugi, dove alcuni badavano alla prole, e iniziato a usare il fuoco, che certo solo certi individui sapevano come gestire.

La presenza di un altruismo estremo, di un nido da difendere e di caste specializzate in certi compiti sono tutti segni di eusocialità” spiega Wilson.

Insomma i gruppi di ominidi, una volta nella savana, sono riusciti a sopravvivere solo diventando superorganismi sociali, come formicai o alveari, in grado di battere qualsiasi avversario e, con il tempo, hanno evoluto un linguaggio simbolico di gesti e suoni sempre più complesso, che ha consentito loro di mettere in comune anche le menti e, quindi, idee, ricordi e scenari futuri.

Ciò ha instaurato un circolo virtuoso fra crescente abilità nella caccia, più carne nella dieta, sviluppo di cervello e abilità cognitive, fino ad arrivare a Homo sapiens.

Uno scenario suggestivo, che però sembra avere un problema: noi non siamo insetti dall’altruismo geneticamente obbligato, possiamo scegliere se esserlo o meno. Se è l’eusocialità il segreto del nostro successo, come abbiamo fatto ad evitare la “trappola dell’altruismo” per cui, se in un gruppo ci sono altruisti ed egoisti, i secondi prosperano a spese dei primi, diffondendo di più i loro geni?

Questo è un punto molto dibattuto da decenni – risponde Wilson – La soluzione è arrivata con la teoria della selezione di gruppo, che in sintesi si può definire così: all’interno di un gruppo gli egoisti vincono, ma nella competizione fra gruppi vincono quelli con più altruisti.

In altre parole , la selezione individuale premia i più capaci ad accaparrarsi risorse e partner; ma se, come ci è accaduto nella savana, si ha bisogno di un gruppo solidale per sopravvivere, quelli con tanti egoisti dentro non ce la fanno, mentre quelli ricchi di altruisti prosperano, diffondendo, con gli scambi riproduttivi fra i gruppi, i geni della cooperazione e dell’empatia.

Con il tempo l’altruismo è diventato regola – premiare generosità e reciprocità accomuna tutte le società umane – con punizioni per chi non le rispetta. (…)

(…) Per Wilson è questo il punto chiave: è la contraddittoria “doppia selezione” a cui siamo stati sottoposti ad averci fatti diventare “sia angeli che demoni”.

Il dilemma del Bene e del Male è nato da questo contrasto.

La selezione individuale, che premia i singoli più capaci di riprodursi modellando istinti egoistici, è responsabile di buona parte di ciò che chiamiamo Peccato.

La selezione di gruppo, che premia le comunità più abili a sfruttare le risorse del territorio e modella istinti altruistici, è responsabile di buona parte di ciò che chiamiamo Virtù.

Il problema è che la virtù si esprime solo all’interno di ciò che consideriamo la nostra comunità: al di fuori tornano a dominare le pulsioni più egoistiche e distruttive.

Così, quando il gruppo è minacciato da un “nemico esterno”, contro di esso diventa ammissibile tutto ciò che puniamo all’interno del gruppo: omicidi, furti, stupri, torture.

Per evitarlo bisognerebbe riconoscere l’intera umanità come “nostro gruppo”, cosa intuita da varie filosofie e religioni.

Purtroppo la storia, con i suoi massacri, la cronaca – pensate agli scontri fra tifosi – e vari esperimenti psicologici dimostrano che amiamo tanto dividerci in comunità ristrette, separate da etnia, fede, ideologia, persino mode, e diffidenti delle altre.

Anche ai tempi di facebook e degli amici virtuali, il cerchio di quelli per cui ci sacrificheremmo resta limitato quanto quello di un cacciatore paleolitico, di cui in fondo abbiamo ancora geni e cervello.

In tempi in cui Homo sapiens decide dei destini della biosfera, superare il tribalismo è però questione di vita o di morte.

Sarebbe l’unico modo per trovare soluzioni globali a problemi globali come pandemie o cambiamento climatico, superando gli egoismi. Ma oramai dubito che ci riusciremo.

Sarebbe stato allora preferibile un’umanità-formicaio, con individui del tutto altruistici?

Forse, ma non avrei voluto viverci: è dalla spinta egoistica a migliorare la propria condizione che sono nate tante idee utili per tutti, mentre è dalla dualità bene/male che deriva gran parte della nostra produzione artistica.

Le formiche costruiscono città meravigliose, certo, ma non hanno uno Shakespeare che ne racconti i tormenti interiori.

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E adesso vorrei riportare le mie riflessioni nel merito delle affermazioni contenute nell’articolo.

1.La prima che mi viene è relativa al termine stesso “sociobiologia”, che mi piace molto, in quanto anche per me l’uomo (qualsiasi uomo, di qualsiasi contesto geografico e di qualsiasi epoca storica) è il frutto/risultato, la combinazione, sia di fattori genetici, biologici, sia di fattori ambientali, storico/culturali.

  1. Anche io penso che la caratteristica più tipica dell’homo sapiens, rispetto alle altre specie animali, sia il linguaggio. Tanto è vero che più è povero il suo linguaggio e tanto più l’essere umano si avvicina o si differenzia poco dalle altre specie animali.
  2. Concordo anche sul fatto che la necessità di affrontare i rischi di un ambiente esterno, ricco ma pericoloso, abbia stimolato nei primi ominidi lo spirito collaborativo. Anche se ritengo che non devono essere mancate anche a quell’epoca situazioni di conflitto e di aggressività all’interno dei gruppi ominidi.
  3. Ma sicuramente la tesi per me più interessante esposta da Wilson, alla quale vorrei dedicare la parte principale di questa mia riflessione, è quella della “doppia selezione”: la selezione che avviene all’interno dei gruppi e quella che avviene nella competizione tra i gruppi.

La prima favorisce gli “egoisti”: coloro che sanno appropriarsi della maggiore quantità di beni disponibili nell’ambiente e congiungersi alle donne più belle, più sane e più fertili.

La seconda favorisce gli “altruisti”, cioè coloro che hanno maggiore spirito collaborativo, che quindi sono più capaci di tenere il gruppo coeso, condizione questa necessaria per poter competere (e vincere) con gli altri gruppi.

Il dilemma del Bene e del Male è nato da questo contrasto”, dice Wilson. E, a mio avviso ha perfettamente ragione. La sua teoria fa giustizia delle opposte tesi che si sono succedute e contrastate nel corso della storia del pensiero filosofico.

Quelle secondo le quali (la minoranza di esse) l’uomo sarebbe fondamentalmente buono e virtuoso. E quelle secondo le quali (la maggioranza di esse) l’uomo sarebbe principalmente cattivo e vizioso.

A mio modesto modo di vedere (e mi fa piacere che le tesi di Wilson lo confermino), l’uomo non è né solamente buono, né solamente cattivo, ma è buono e cattivo, angelo e demone allo stesso tempo, un impasto di bontà/generosità e di cattiveria/egoismo.

In certe situazioni prevale – come giustamente nota la sociobiologia – la prima caratteristica: quando il gruppo, di cui l’individuo è parte, deve fronteggiare un nemico esterno, ad esempio un gruppo ostile o un pericolo naturale.

In altre situazioni prevale la seconda caratteristica, quando il rischio esterno è vissuto dal gruppo come remoto o del tutto assente.

Mi pare che alcune situazioni della nostra storia recente (mi riferisco in questo caso al periodo che va dalla fine della II guerra mondiale ai giorni nostri) lo confermino plasticamente. Ne cito solo alcune, ma se ne potrebbero credo riportare molte altre, anche di altri periodi storici.

La prima che mi viene in mente è quella che dal 1945 fino al 1989 ha visto competere due blocchi di paesi, raggruppati attorno a due grandi superpotenze: il blocco dei paesi del mondo occidentale, sotto l’egemonia imperiale degli Stati Uniti, e quello dei paesi dell’Est europeo e in parte anche dell’estremo oriente asiatico, sotto l’egemonia, altrettanto imperiale, dell’allora Unione Sovietica.

La forte e minacciosa competizione esistente tra questi due blocchi determinò in quella fase, all’interno di ciascuno di essi, un altrettanto forte (certo, non del tutto privo di contraddizioni e conflitti, per carità) spirito di solidarietà e di collaborazione.

Non a caso i decenni compresi tra il 1945 e il 1975 sono passati alla storia con la definizione di “trentennio glorioso” o di “compromesso aureo” tra il capitale e il lavoro, almeno nei paesi del blocco occidentale.

Ma analogo fenomeno, anche se con caratteristiche del tutto diverse, si verificò in fondo anche nel blocco opposto.

Ulteriore e molto significativa conferma (tra l’altro collegata alla prima) della teoria sociobiologica la possiamo avere dal fatto che – una volta crollato, imploso su se stesso, il blocco dei paesi dell’Est, imperniato sull’URSS – nei paesi occidentali, è venuto ben presto meno quello spirito solidale e collaborativo che li aveva caratterizzati nel primo trentennio postbellico, il cui massimo frutto era stato il “welfare-state”.

A sostituirlo è emerso un forte spirito individualistico e competitivo, espresso “magnificamente” e simbolicamente dall’affermazione del primo ministro britannico Margaret Thatcher “la società non esiste, esistono solo gli individui”.

Una volta scomparso il nemico esterno, si è affermato un pensiero unico ultraliberista (o neoliberista che dir si voglia) tutto basato sulla competizione estrema tra gli individui, tra i soggetti organizzati (ad esempio, tra padronato e sindacati), tra le nazioni, persino tra quelle omologhe ed affini per struttura socioeconomica, cultura, storia, organizzazione istituzionale-politica.

Sono entrati in crisi organismi sovranazionali quali l’ONU (l’Organizzazione delle Nazioni Unite), che è diventata poco più che un simulacro e, perfino, la stessa Comunità Europea.

Che (non a caso, a mio avviso) ha rinunciato al nome troppo impegnativo di Comunità per assumere quello molto più generico e vago di Unione, laddove di “unione” c’è ben poco, mentre vi prevale, appunto, una notevole competizione.

E’ quasi inutile qui evidenziare che in un tempo di mondializzazione sfrenata, come quello in cui ci troviamo attualmente, in cui il nostro pianeta sembra essere diventato un unico villaggio globale, di solidarietà se ne veda ben poca.

Si sono accorciate enormemente le distanze che fino a pochi decenni orsono separavano in maniera quasi incolmabile i popoli tra di loro, ma paradossalmente l’umanità sembra essere diventata una specie di giungla, dove ciascun uomo è lupo per l’altro uomo, dove quindi alcuni (pochi) vincono e altri (moltissimi) perdono, con un allargamento conseguente  della forbice delle disuguaglianze da far paura.

Cosa dobbiamo dedurre da questa brevissima e molto sommaria ricostruzione della storia di questi ultimi 70/75 anni? Che nella lotta, da sempre esistita, tra il Bene e il Male, tra l’Angelo e il Demone presenti nell’uomo, hanno, almeno per il momento, prevalso, se non vinto, se non proprio trionfato definitivamente, il Male e il Demone?

A giudicare dallo “stato presente” delle cose sembra di sì. E, a voler tener conto della teoria della “doppia selezione” di Wilson, sembra poter essere questo il risultato finale e definitivo della antica contesa.

Mancando, infatti, un “nemico” esterno ed essendo diventata l’Umanità un unico gruppo globalizzato, tutto sembra dirci che, al suo interno, prevarranno gli “istinti egoistici”, la tendenza cioè di individui e (piccoli o grandi) gruppi ad accaparrarsi (a danno di altri) quante più risorse possibili di quelle che mette a disposizione il nostro pianeta, diventato oramai un piccolo villaggio, per quanto globale.

A cominciare da una risorsa elementare e basilare quale l’acqua; e qualcuno già prevede per un prossimo futuro persino l’aria.

Questo potrebbe dar ragione al pensatore americano, Francis Fukuyama, che qualche anno fa profetizzò la fine della Storia. Nel senso della fine della dialettica tra opposti principi (bene e male) e opposti soggetti (sfruttati e sfruttatori), con la vittoria definitiva (dico io) dei secondi sui primi.

Se non è già così, sarà probabilmente così in un prossimo futuro. A meno che non si verifichino due scenari, che potrebbero ancora modificare questo esito, prima che esso diventi davvero finale e, soprattutto, irreversibile.

Il primo lo definirei apocalittico e molto poco desiderabile, anche se potrebbe in qualche modo anch’esso alimentare nuovamente la antica “doppia selezione” di cui parla la sociobiologia: quella tutta interna ai gruppi e quella tra gruppi e gruppi.

Il secondo potrebbe essere definito pre-apocalittico, ma, a differenza del primo, avrebbe quanto meno l’effetto di mobilitare le energie migliori dell’umanità, quelle che la sociobiologia definisce eusociali.

Il primo scenario potrebbe essere quello della ricostituzione di nuovi blocchi di potenze imperiali che si contrappongano nella lotta per l’egemonia globale sul pianeta.

Questo scenario non è affatto irrealistico, anzi è molto probabile che si realizzi (se non si è già realizzato), vista l’ascesa impetuosa e travolgente che ha avuto la Cina in questi ultimi due o tre decenni. Prossima oramai a contrastare da pari a pari l’egemonia degli Stati Uniti, in atto da almeno un secolo.

Se questa ascesa andrà avanti (come tutto lascia supporre), allora potrebbe succedere che, all’interno dei nuovi blocchi contrapposti che verrebbero a formarsi, riprenda vigore quello spirito cooperativo e solidaristico, che abbiamo visto si afferma quando è in atto una competizione tra gruppi ostili.

La non piena desiderabilità o la totale indesiderabilità di un tale scenario è dovuta al fatto che esso potrebbe sfociare prima o poi (come sempre è successo nella storia dell’Umanità) in un conflitto mondiale di portata ancora più devastante dei due già esplosi nel secolo scorso.

Probabilmente definitivo (questo sì!) per la vita dell’Umanità, perché non solo sarebbe di dimensioni globali (di gran lunga superiori a quelle dei primi due conflitti mondiali), ma anche perché vedrebbe il ricorso ad armi enormemente devastanti, in grado di distruggere forse la gran parte della vita (non solo umana) sul pianeta.

Il secondo scenario che ipotizzavo si potrebbe affermare in seguito al profilarsi di un pericolo o di più pericoli comuni, cioè condivisi dall’intero genere umano, al di là delle pur grandi differenze economiche, sociali, culturali, ideologiche, politiche, che oggi lo contraddistinguono.

In questo caso l’interesse a fronteggiare un pericolo o pericoli comuni potrebbe stimolare nel “gruppo globale Umanità” quei sentimenti solidaristici che sempre nella storia dell’uomo, fin dai tempi dei primi ominidi, si sono manifestati quando un determinato gruppo doveva fronteggiare un gruppo ostile o un problema esterno.

Quali potrebbero essere questi pericoli condivisi in grado di mobilitare le energie migliori dell’Umanità, i suoi sentimenti eusociali? Si possono fare già adesso delle ipotesi, delle supposizioni, delle proiezioni probabili in vista di un futuro più o meno prossimo, più o meno remoto? Certo! Se ne possono fare!

Uno, forse, lo stiamo già sperimentando in questi giorni. La pandemia del Covid 19 è un mostro che minaccia non un singolo popolo o un gruppo ristretto di popoli della Terra, ma tutti i popoli del pianeta, chi più e chi meno e però tutti indistintamente. Non ce n’è uno solo che possa dirsi al sicuro dalla sua minaccia.

Ecco allora che questo pericolo potrebbe costringere l’Umanità ad una cooperazione forzata, anche non voluta, anche non desiderata, ma alla quale essa si potrebbe vedere costretta, per non correre il rischio (mortale) di una estensione del contagio che danneggerebbe tutti i popoli della Terra e non solo alcuni a vantaggio di altri.

Il secondo pericolo è stato ampiamente segnalato dalla (gran parte della) comunità scientifica già da alcuni decenni: quello del surriscaldamento dell’atmosfera che circonda la Terra, in seguito alla forte emissione di gas (specie CO2) prodotti dall’uomo.

Tale surriscaldamento sta provocando, almeno da una decina d’anni a questa parte, vistosi cambiamenti climatici, che potrebbero entro pochi decenni apportare gravissimi e molto probabilmente irreversibili danni all’ecosistema che ha finora reso possibile la vita dell’uomo su questo pianeta.

Di questo allarme le istituzioni politiche nazionali e sovranazionali sono state tutte ampiamente avvertite. Non tutte però lo condividono allo stesso modo: anzi alcune – ad esempio, l’attuale amministrazione americana e quella brasiliana – non lo condividono per niente. Tutte indiscriminatamente, invece, chi più e chi meno, hanno fatto finora ben poco per porre rimedio al pericolo che incombe.

Da meno di due anni in qua, un po’ in tutto il mondo, (sotto l’impulso dell’attivismo di Greta Thumberg, una giovanissima ragazza svedese, che dall’agosto del 2018 ogni venerdì, ha iniziato a manifestare davanti al Parlamento del suo Paese, ponendo il problema del cambiamento climatico) è nato, dal basso e in modo del tutto spontaneo, un movimento, in prevalenza formato da giovani, denominato “Fridays for future”, che ha posto all’attenzione dell’opinione pubblica generale le questioni di cui sopra.

C’è realisticamente da sperare che questo movimento si estenda sempre di più, che lo imponga all’ordine del giorno delle agende politiche delle Istituzioni ai massimi livelli perché attuino misure all’altezza, che quindi un pericolo come questo, del cambiamento climatico, possa far sì che l’Umanità arrivi a sentirsi un corpo unico, minacciato dallo stesso e comune pericolo, e che questo la stimoli a sviluppare quegli elementi di solidarietà e di eusocialità, che negli ultimi decenni sono sempre più venuti a mancare?

Il professor Wilson sembra dubitarne: si dimostra piuttosto scettico e pessimista al riguardo. Io, invece, non ho del tutto perso la speranza e l’ottimismo. Almeno quello della volontà, se non quello della ragione.

Mi dico e dico agli altri, anche in questo articolo: se non altro bisogna provarci; almeno fino a quando ci saranno margini, pur minimi, per crederci ancora.

© Giovanni Lamagna