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Capacità orgasmica e gioia di vivere.

Per mia esperienza, oltre che per riflessione e studio, sento e penso ci sia uno stretto collegamento tra desiderio sessuale e amore per la vita in generale, tra capacità orgasmica (petite mort) e gioia di vivere (joie de vivre).

Il sesso non è certamente tutto nella vita; e, forse, manco la sua dimensione principale.

Ma è altrettanto certo, a mio modo di vedere, che a chi non vive una soddisfacente vita sessuale viene a mancare una quota importante di felicità possibile destinata, almeno in potenza, agli esseri umani.

Wilhelm Reich, medico, psichiatra e psicoanalista austriaco naturalizzato statunitense, allievo della prima ora di Sigmund Freud, ha avuto il merito con le sue intuizioni e ricerche di evidenziare questa realtà, forse ancora più del suo maestro.

E ciò gli ha assegnato di diritto uno dei posti di primo piano nella storia del movimento psicoanalitico.

© Giovanni Lamagna

Sul senso religioso della vita.

Ho già sostenuto altre volte la mia ferma convinzione che o come Umanità nel suo complesso (quantomeno, nella sua larga maggioranza) recuperiamo il senso religioso dell’esistere e, quindi, un atteggiamento religioso verso la vita, oppure andremo a sbattere di brutto e ci sfracelleremo, andremo incontro – presto o tardi (a mio avviso, più presto che tardi) – ad una sorta di suicidio collettivo.

Ho altresì già avuto modo di chiarire che, quando parlo di “senso religioso dell’esistere” non mi riferisco tanto (o perlomeno non solo) al sentimento di fede professato dalle religioni classiche e tradizionali, fede cioè nell’esistenza di una Entità metafisica, ultraterrena, e in una seconda vita (questa volta eterna) dopo la morte.

Ma mi riferisco piuttosto a quel sentimento religioso di cui parlava anche Einstein quando affermava: “La religione del futuro, sarà una religione cosmica. Trascenderà il Dio personale e lascerà da parte dogmi e teologia. Abbracciando insieme il naturale e lo spirituale, dovrà essere fondata su un senso religioso che nasce dall’esperienza di tutte le cose, naturali e spirituali, come facenti parte di un’unità intelligente.”

Qui vorrei pertanto meditare su che cosa sia concretamente, in termini del tutto laici e quindi esclusivamente psicologici e per niente teologici, l’esperienza di questo sentimento religioso, a quali atteggiamenti interiori e comportamenti esteriori esso corrisponda, per rintracciare ed evidenziarne le caratteristiche principali.

Prima di iniziare questa riflessione vorrei però chiarire anche una seconda cosa e, subito, in premessa: quando io parlo di senso religioso dell’esistenza, mi riferisco a qualcosa che ha a che fare più con la sfera dei sentimenti che con quella delle idee, più col cuore che con la testa.

In altre parole il sentimento religioso è per me, come tutti i sentimenti del resto, qualcosa di prerazionale o di arazionale, che nulla o ben poco ha a che fare con la ragione.

Credo che la ragione non lo possa contraddire, smentire, delegittimare; non è quindi un sentimento irrazionale o, addirittura, isterico, nevrotico, folle; ma credo che non lo possa manco avvalorare, allo stesso modo di come avvalora, dimostra, in maniera inconfutabile, una scoperta scientifica o, perfino, una “verità” filosofica.

E’ piuttosto (come ho già accennato in precedenza) un’esperienza, che si impone (o non si impone) all’uomo (o, meglio, ad alcuni uomini) con una sua evidenza apriori e non richiede quindi dimostrazioni di tipo razionale.

Può imporsi ben presto, sin dall’infanzia, quando il bambino nasce e cresce in un ambiente caratterizzato da un senso religioso dell’esistere; in questo caso tale sentimento il bambino lo assorbirà molto probabilmente dalla famiglia in cui è nato e cresciuto e dal contesto fisico, sociale e culturale che lo circonda.

O può imporsi ad un certo punto della vita, a causa di circostanze, esperienze e fattori, in genere molto forti, quasi al limite del trauma (anche se qui il trauma è da intendersi in senso positivo), che determinano una metanoia, una conversione, quindi un cambiamento radicale del modo di vedere e di vivere, della persona che ne è oggetto.

Una parola che di solito definisce questa sorta di trauma è quella di “grazia”: l’uomo raggiunto e trasformato da questa esperienza non ne ha nessun merito; comincia a sperimentare il sentimento religioso per una sorta di destino a lui benigno, senza che egli abbia fatto niente o molto poco per meritarlo; quindi per una “grazia ricevuta”.

Ovviamente (sia ben chiaro!) qui, per me, il termine “grazia” non ha e non vuole avere nessuna connotazione miracolistica e soprannaturale; per come la intendo io è una esperienza del tutto umana, terrena, laica; che ad alcuni uomini viene donata, offerta, regalata, e ad altri no (perciò “grazia”); anche se il clima psicologico, ambientale, in cui il soggetto, che ne viene raggiunto, è cresciuto, è stato allevato, certamente la favorisce, la predispone.

E veniamo finalmente al dunque: quali sono allora le caratteristiche essenziali di questo sentimento religioso, attorno alla cui definizione sto girando già da un bel po’ di parole e di frasi, senza averla però ancora articolata e resa chiara, per quanto sia possibile rendere chiara un’esperienza che si può cogliere nella sua essenza solo nella misura in cui la si esperimenta direttamente come singolo, come persona?

Cerco qui di seguito di indicarne alcune in maniera il più possibile chiara e perfino schematica.

1.La prima, anzi la più essenziale, caratteristica è data, a mio avviso, da quello che potremmo definire un sentimento di fiducia di base nella vita.

Quel sentimento che ci porta a pensare e a dire, se non sempre, almeno nella maggior parte delle nostre giornate, che la vita – nonostante tutto, nonostante i suoi dolori (fisici e spirituali), le sue paure, le sue angosce, i suoi fantasmi, che a volte ci assalgono – vale la pena di essere vissuta.

Ciò detto, si potrebbe pensare allora che tale sentimento di fiducia di base possa essere sperimentato e vissuto solo da coloro che la fortuna ha voluto godessero di una buona salute fisica e di una situazione esistenziale esteriore tutto sommato agiata, favorevole, in grado di soddisfare almeno i loro principali bisogni, quelli primari: il cibo, una casa, un lavoro, degli affetti, una buona salute fisica…

Ma l’osservazione, anche superficiale, dell’umanità che ci circonda ci dice invece che una tale supposizione non è del tutto vera; perché ci sono persone che nascono con malattie congenite, anche gravi, oppure si ammalano seriamente ad un certo punto della loro vita, persone che vivono in situazioni logistiche e materiali difficili, a volte estremamente precarie, ai limiti della sopravvivenza, e che però hanno voglia e desiderio di vivere, hanno una innata fiducia nella vita.

Mentre ce ne sono altre, alle quali apparentemente non è mancato e non manca nulla o, perlomeno, non sono mancate e non mancano le cose principali, e che però, al contrario delle prime, in teoria meno fortunate, non godono dello stesso desiderio e della stessa gioia di vivere; sono afflitte in altre parole da una sfiducia più o meno grave nell’esistenza, soffrono del male di vivere, non vedono luce nella loro vita, vivono in uno stato di fondamentale cupezza e depressione interiore.

Questo premesso, le prime sono per me persone predisposte a vivere il senso religioso dell’esistenza e spesso lo sperimentano come se fosse una condizione naturale, ovvia, scontata; le seconde no, non sanno manco dove stia di casa; anzi si meravigliano, stupiscono che altri possano viverlo e, perciò, molto spesso li irridono, quasi fossero vittime di un atteggiamento superficiale, irrazionale, alienante, illusorio, infantile, in altre parole nevrotico (Freud, ad esempio, fu una di queste persone).

2. La seconda, fondamentale, caratteristica di quello che io definisco “il senso religioso dell’esistenza” è data dall’atteggiamento di cura, potremmo anche dire di custodia, del sentimento di fiducia di base nella vita.

Questo sentimento, infatti, non è qualcosa che si può dare come scontato “vita natural durante”, una volta che lo si è sperimentato.

Una persona può nascere e vivere i suoi primi anni di presenza nel mondo con questo sentimento e poi perderlo ad un certo punto della sua vita; perderlo come, appunto, si perde (o si può perdere) la fede, quella che comunemente chiamiamo “fede in Dio” e che io invece chiamo molto più semplicemente e laicamente “sentimento di fiducia di base nella vita”.

E’ un sentimento, che, come ho già detto, viene ricevuto per grazia, quindi senza alcun merito, ma che va però curato, coltivato, perché esso si mantenga vigoroso e vitale, anche in mezzo alle prove a cui inevitabilmente il cammino della nostra esistenza ci sottoporrà.

Altrimenti è destinato a perdersi, ad essere smarrito.

E come va custodito? Con un atteggiamento di raccoglimento interiore, che accompagnerà tutte le nostre azioni e i nostri movimenti nel mondo.

Lo stesso, immagino, che caratterizzò Maria, la madre di Gesù, a partire dal messaggio dell’angelo che le annunciò la prossima nascita del figlio: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Vangelo di Luca; 1, 38).

Quello stesso atteggiamento che la caratterizzerà dopo la visita dei pastori alla mangiatoia, nella quale Gesù era nato, che, esultanti, “riferirono ciò che del bambino era stato detto loro” (Vangelo di Luca; 2, 17): “ed ella custodiva tutte queste cose, meditandole in cuor suo” (Vangelo di Luca; 2, 19).

Infatti, per vivere, sperimentare, il senso religioso della vita, non basta averlo ricevuto in dono, come grazia e senza alcun merito, ad un certo punto della propria esistenza, ma bisogna essere capaci, in seguito, dopo il momento di illuminazione iniziale, di averne cura, di mantenerlo in essere e anzi, possibilmente, farlo crescere.

Altrimenti esso è destinato gradualmente a spegnersi, rifluire, e, infine, fatalmente morire.

3. A questo punto occorre allora chiedersi: quali sono le condizioni per non disperdere questo sentimento, che ad un certo punto, lo ripeto: per grazia ricevuta, ci ha raggiunto?

La prima è quella di mantenersi in contatto con la voce interiore cha ha cominciato a parlarci, quando questo sentimento ci si è manifestato la prima volta.

In ciascuno di noi, infatti, esiste un Altro da sé, quello che qualcuno ha chiamato “il vero Sé”, una sorta di Maestro interiore, che è in grado, se ci mettiamo nella disposizione giusta, che è quella dell’ascolto, di indicarci la strada da seguire, quella più adatta alle nostre inclinazioni e alla nostra natura, quella che ci permetterà di realizzare, se la seguiremo, le nostre potenzialità, cioè i talenti di cui Madre Natura ci ha dotato.

Spesso noi manco sappiamo dell’esistenza di questa Realtà interiore, presi come siamo dal tran tran quotidiano, dal chiasso che ci circonda, dalla folla alla quale tendiamo nella maggior parte dei casi a conformarci, come fanno le pecore col loro gregge.

Se però abbiamo la fortuna di venirci in contatto e impariamo ad ascoltarne la voce, dapprima molto fioca e sottile, poi un poco alla volta sempre più chiara e distinta, capiamo, ci rendiamo conto di aver ricevuto un’enorme grazia e allora ci impegneremo a non mollarla più, a seguirne sempre più fedelmente i consigli e la guida.

4. La seconda condizione è molto legata alla prima, anzi ne è la premessa; è quella di imparare ad apprezzare il silenzio e la solitudine, almeno in alcuni momenti della nostra vita, e dedicare ad essi con costanza una sorta di rituali quotidiani, isolandoci dalla folla e dal chiasso, che di solito, almeno oggi, circonda la nostra vita.

Chi ha paura della solitudine e del silenzio, chi è incapace di sottrarsi ai rumori e a volte al vero proprio frastuono delle relazioni, dei mass media, dei contatti sui social, ben difficilmente riuscirà a mantenersi in contatto con la voce interiore – quand’anche ad un certo momento, si fosse da lui fatta sentire – e di coltivare, quindi, il senso religioso del vivere.

5. Ovviamente la pratica religiosa (anche se intesa nel senso che sto qui descrivendo) non è fatta solo di contemplazione, ovverossia di contatto e relazione col proprio mondo interiore; per quanto questa ne sia la condizione basica.

La pratica religiosa richiede, infatti, scelte e modi di agire, che comporteranno uno stile di vita, anche esteriore, che sia conseguente, coerente col proprio vissuto interiore.

Richiede una vera e propria “metanoia”, cioè la conversione ad un modo di vivere completamente diverso da quello che caratterizza la gran parte degli uomini che questo senso religioso del vivere non ce l’hanno.

Richiede la scelta di valori morali e sociali radicalmente alternativi a quelli comuni e normalmente diffusi.

6. Quali?

Innanzitutto un distacco dai beni materiali.

Non nel senso (come una certa – per me cattiva – ascesi tende a consigliare) della rinuncia radicale a tutti i beni materiali, di qualsiasi natura essi siano, in favore di una povertà assoluta.

Ma nel senso di una pratica della sobrietà, cioè del non attaccamento ai beni materiali e, soprattutto, della non avidità nella loro conquista e possesso.

La sobrietà, in altre parole, come il punto di giusto equilibrio tra la rinuncia assoluta ai beni in favore della povertà e l’avidità smodata dei beni in cerca della ricchezza.

L’uomo religioso per definizione non ambisce alla ricchezza, anche se non per questo ama o predilige la povertà.

L’uomo religioso vive una vita materiale in condizioni di sobrietà.

7. La pratica religiosa richiede altresì un certo distacco non solo dai beni materiali, ma anche dagli affetti e dalle passioni.

Non certo nel senso della rinuncia a sperimentare i sentimenti della fraternità, dell’amicizia e dell’amore erotico.

Ma nel senso di non farsi da essi dominare e travolgere in nome della brama di possesso, che genera fatalmente gelosie e invidie, sentimenti oltremodo tossici e ben poco spirituali.

L’uomo religioso è per me colui che è in grado di sperimentare pienamente e caldamente tutta la gamma dei sentimenti umani verso i suoi simili, ma non si attacca alle persone e non mira a che esse si attacchino a lui.

E’ in grado in altre parole di sperimentare la singolarità e allo stesso tempo l’universalità dei rapporti con gli altri suoi simili; senza farsene ingabbiare e monopolizzare; ma allo stesso tempo in maniera calda e profonda.

8. La pratica religiosa richiede, infine, la rinuncia alla propria volontà egoica ed egocentrica, intesa come puro arbitrio e assoluta libertà di scelta, al di fuori di ogni limite e confine.

Nel senso reso bene da alcune affermazioni bibliche, che, ben interpretate, possono essere recepite anche da uno come me che intende dare al “sentimento religioso” una valenza del tutto laica e umanistica.

Ne cito solo due: “… sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.” (Vangelo di Giovanni; 6, 38); e “… non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.” (Paolo; Lettera ai Galati; 2, 20)

Beninteso questa decentramento della propria volontà non comporterà che l’uomo religioso si faccia schiavo di qualcuno o di qualcosa; richiederà però la consapevolezza profonda che egli non è la misura di tutte le cose e l’obbligo a rispondere e ad obbedire alla voce interiore, che ad un certo punto della sua vita lo ha raggiunto e che gli indicherà e illuminerà, momento per momento, la via da seguire.

9. In altre parole lo stile di vita dell’homo religiosus – anche nel senso del tutto laico (e spero sufficientemente chiaro) che qui ho inteso dargli – sarà caratterizzato da un senso di profonda umiltà, dedizione e devozione.

Umiltà nel senso di consapevolezza di non essere lui l’autore e il padrone del proprio destino, ma di esserne solo strumento o, tutt’al più, coautore.

Dedizione ai valori della fiducia, della speranza nel futuro (di cui si sentirà responsabile costruttore in prima persona) e dell’amore fraterno e universale.

Devozione alla chiamata e alla guida interiore costituite dal Maestro spirituale che lo abita e che abita ognuno di noi, anche se e quando non ne siamo consapevoli.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “E’ stata la mano di Dio” (2021) di Paolo Sorrentino

Ho appena visto l’ultimo film di Paolo Sorrentino, “E’ stata la mano di Dio”, e dico subito che mi è piaciuto: è un bel film, senz’altro un film d’autore!

Certo Sorrentino non è Fellini, anche se al regista riminese chiaramente e dichiaratamente si ispira, per cui è quasi impossibile non paragonarlo col mostro sacro, suo mentore virtuale.

Sorrentino indubbiamente non ha il genio magico e, diciamolo pure, inimitabile di Fellini, però è certamente una persona molto interiore, che sa guardarsi dentro e, come tutte le persone interiori, ha perciò molte cose da dire.

Non lo sa fare nel modo visionario, incandescente, seduttivo, scoppiettante e incantatore di Fellini, ma lo sa fare sicuramente con buona maestria e padronanza, sia nel costruire le storie sia nel renderle sul grande schermo.

Questo film – tanto per restare all’accostamento con Fellini – è un vero e proprio Amarcord sorrentiniano. Così come “La grande bellezza” fu la versione sorrentiniana de “La dolce vita” felliniana.

L’idea da cui nasce è, infatti, probabilmente la stessa da cui originò il meraviglioso film di ricordi del regista riminese: il desiderio/esigenza di ripercorrere la propria adolescenza, di rivisitare i luoghi in cui essa si svolse, di ritrovare persone, episodi, atmosfere, dolori, tragedie, che la caratterizzarono.

Quasi per fare i conti con quella fase della vita, prolungatasi forse fin troppo a lungo, e per uscirne definitivamente, aprendone una nuova.

E, come il film di Fellini ovviamente era ambientato a Rimini, così l’Amarcord di Sorrentino non poteva che essere ambientato a Napoli.

Due contesti evidentemente molto diversi, immerso spesso nella nebbia più fitta il primo, estremamente luminoso e solare il secondo; entrambi però accomunati dall’allegria quasi ridanciana, dal gusto per lo scherzo, anzi per lo sberleffo, dal piacere di godere della sensualità dei corpi.

Fatta questa premessa, evidenzierei che il film di Sorrentino si divide in due tempi nettamente distinti tra di loro, quasi contrapposti.

Le caratteristiche principali del primo sono la risata, la gioia di vivere, la convivialità allegra. Nel corso del primo tempo si ride molto, sembra quasi di assistere ad un film comico; come d’altra parte si rideva molto nell’Amarcord felliniano.

Ma già l’ultima scena del primo tempo preannuncia un radicale cambio di registro, che si affermerà poi pienamente nel secondo tempo; alla commedia (spesso comica) subentrerà prima il dolore acuto e poi la vera e propria tragedia.

La svolta viene annunciata dal pianto e dal tremore isterico della madre (Teresa Saponangelo) del giovane Fabio (Filippo Scotti: Sorrentino adolescente), che scopre il tradimento (in corso forse già da svariati anni) del marito (Toni Servillo) con una sua collega di ufficio.

E si realizza pienamente con la scena dei due genitori di Fabio, che dopo la breve separazione, dopo essersi riappacificati, quando hanno coronato finalmente il loro sogno (molto piccolo-borghese) di avere una casa in montagna (a Roccaraso), accendono il camino e sprovvedutamente vi si addormentano davanti, seduti sul divano, mentre l’uno legge “Un uomo” di Oriana Fallaci e l’altra sferruzza a maglia; respirano così l’aria che diventa sempre più velenosa per le esalazioni del monossido di carbonio e vanno incontro ad una tragica e prematura morte.

I tre figli riescono a salvarsi dalla stessa sorte per puro miracolo, perché non hanno accompagnato i genitori (come pure questi avrebbero desiderato) nel weekend a Roccaraso: Marchino (Marlon Joubert), perché tutto preso dal nuovo amore per una ragazza, Daniela (Rossella Di Lucca), perché vive isolata in un mondo tutto suo (e, infatti, nel film compare pochissimo), infine Fabietto, perché non voleva perdersi la partita Napoli-Empoli, dove avrebbe visto giocare il suo idolo Diego Armando Maradona, nuovo acquisto del Napoli.

Questo di Maradona è uno dei capitoli più importanti dell’adolescenza di Fabio/Sorrentino e, per conseguenza del film; uno di quelli sul quale si è maggiormente costruito l’immaginario del giovane adolescente; Maradona è visto come una specie di divinità calata in terra, che compensa le frustrazioni di un’intera città e ne realizza i sogni a lungo, troppo a lungo, repressi, perché considerati impossibili.

Emblematica, quasi onirica, la scena in cui il ragazzo, mentre attraversa la strada, vede Maradona in un’auto ferma ad un semaforo rosso: il suo sguardo resta paralizzato per svariati secondi, i suoi occhi non credono a quello che stanno vedendo, e con in suoi quelli della piccola folla che ha ricevuto la grazia di una simile visione.

Come non riandare con la memoria alla scena felliniana dei riminesi che a bordo delle loro barche si spingono al largo per assistere nel buio della notte e col mare mosso al passaggio luccicante e favoloso del transatlantico Rex?

L’altro personaggio molto significativo dell’adolescenza di Fabio-Sorrentino è la zia Patrizia (Luisa Ranieri), sorella della madre, donna di straordinaria e prorompente bellezza, che accende le fantasie e le pulsioni erotico-sessuali del giovane ragazzo e di quelle del fratello Marchino.

Patrizia è una bellissima donna, ma anche estremamente frustrata, sia perché non riesce a rimanere incinta, sia perché vive con un marito, Franco (Massimiliano Gallo) che spesso e volentieri la riempie di botte; per questo dà spesso in stranezze.

Emblematica la scena della famiglia allargata ai numerosissimi parenti, in gita su un grande gozzo al largo della penisola sorrentina, quando Patrizia, col massimo candore e allo stesso tempo massima spudoratezza, si toglie tutti i vestiti di dosso e si stende completamente nuda, meravigliosamente nuda, sulla tolda della barca e tutti gli astanti la guardano allibiti e allo stesso tempo desideranti.

Come non riandare anche qui ad una delle scene madri dell’Amarcord felliniano: quella in cui la tabaccaia prosperosa e sensuale alla sera, prima sella chiusura, fa entrare nel suo negozio i ragazzi del borgo che sono soliti guardarla sbavanti e pieni di desiderio, abbassa la saracinesca e mostra loro, seduttiva e complice, le sue enormi, debordanti tette?

Patrizia è per Fabietto l’altro mito della sua adolescenza, l’unico che può competere nel suo immaginario sognante con quello di Maradona.

La morte tragica di Saverio e Maria segna, come una ferita non più rimarginabile, la vita dei tre figli, in modo particolare quella di Fabietto, che al contrario del fratello maggiore, Marchino, il quale intende darsi alla bella vita per rimuovere il dolore per la perdita dei genitori, non se ne fa una ragione, non riesce ad allontanare da sé le tracce del trauma vissuto.

Si rifugia così nel mondo dell’immaginario, che gli sembra senza ombra di dubbi preferibile alla realtà che egli definisce “scadente”. E in questo modo dentro di lui affiora un poco alla volta e infine si manifesta chiaramente la vocazione a fare il regista di film.

In questo suo percorso di (parziale) elaborazione del trauma (la elaborazione definitiva avverrà forse proprio con la costruzione e realizzazione di questo film: ecco il suo senso e la sua motivazione di fondo!) lo aiutano quattro figure significative.

1. La zia Patrizia, che non solo, come abbiamo già visto, è stato il primo oggetto dei suoi ardori erotici e sessuali, in quanto incarnazione stessa, sublime, della femminilità e dell’erotismo; ma è anche colei che incoraggia subito, appena Fabio glielo rivela, e con grande forza il suo sogno di diventare un autore di film.

2. Armando (Biagio Manna) un giovane contrabbandiere (Fabio lo incontra per caso allo stadio e con lui familiarizza condividendo il tifo per Maradona), che lo introduce in un mondo per lui (cresciuto in un ambiente piccolo borghese) completamente altro, quello della camorra e della violenza, alternata però anche a grande generosità e persino tenerezza.

3. La baronessa Focale (Betti Pedrazzi), una signora anziana, nobile decaduta, dall’aria solo apparentemente altera e distaccata, che abitava nello stesso palazzo ed era di famiglia in casa Schisa.

Che, quando si rende conto del momento molto difficile che sta attraversando Fabio, con un pretesto lo attira a casa sua e con modi molto garbati ed estremamente seduttivi, lo introduce ai misteri del sesso: la prima volta di Fabio!

E’ questa una delle scene più sexy e conturbanti del film, paragonabile e forse addirittura superiore a quella della zia Patrizia completamente nuda sulla tolda della barca davanti ad un pubblico di spettatori che la guardavano carichi di stupore e meraviglia.

Lì c’era il trionfo solare e spettacolare della bellezza fisica di Luisa Ranieri (zia Patrizia), esaltata dalla luce e dalla natura, con la monta ovvia del desiderio degli astanti maschili, in particolare di Fabio e di suo fratello Marchino, e forse persino l’invidia delle astanti femminili.

Qui, invece, si realizzano – nella penombra di una camera da letto e nel tete a tete – la celebrazione delle arti seduttive, affinate con gli anni e con l’esperienza, di un’anziana signora e il rito di iniziazione al sesso di un giovane, che fino ad allora lo aveva solamente fantasticato e, quindi, si mostra timido e imbranato.

Anche qui come non associare la scena dell’anziana baronessa che seduce e inizia al sesso il giovane Fabio a quella felliniana della splendida Gradisca che maliziosamente attizza prima e poi svezza, anche se solo con un bacio, i giovani adolescenti riminesi che sbavavano per lei?

4. Infine, Antonio Capuano (Ciro Capano), un regista napoletano, un po’ di nicchia, che all’inizio strapazza violentemente il giovane Fabio, che gli ha confidato il suo desiderio di diventare regista cinematografico, come per metterlo alla prova e saggiare l’autenticità della sua vocazione.

Ma poi si addolcisce, intenerisce e gli dà persino alcuni consigli, il più importante dei quali mi pare è “Non disunirti!”.

Che io ho interpretato così: non perdere i contatti con le tue radici, quindi con la tua famiglia, con la tua città di origine, con i simboli e i miti che hanno segnato la tua adolescenza, con il tuo dolore di fondo; perché è da lì che potrai ricevere la linfa che alimenterà la tua creatività, le cose che vorrai dire e tradurre in immagini.

Il film si conclude (anche qui sulla falsariga dell’Amarcord felliniano) con la scena di Fabio che viaggia in treno, direzione Roma, per inseguire il suo sogno di fare il regista.

E in sottofondo si ascolta la famosa canzone di Pino Daniele “Napule è”, come a dire che Fabio lascia la città che lo ha visto nascere e crescere, ma non si “disunisce”: le sue radici rimangono a Napoli e daranno linfa continua alla sua creatività artistica.

© Giovanni Lamagna

Genio e malinconia

Per Schopenhauer “il genio è affine alla melanconia”.

Per Aristotele “tutti gli uomini di genio sono malinconici”.

Sono d’accordo, ma solo in parte.

Perché è vero che i melanconici sono particolarmente portati alla riflessione e alla meditazione; forse perché nella riflessione e nella meditazione trovano riparo, almeno momentaneo, per sfuggire alla loro triste e dolorosa condizione.

Ho avuto modo, però, di conoscere uomini che associavano l’ingegno alla serenità d’animo e, perfino, a buone dosi di umorismo; segno, a mio modesto avviso, che genio e allegria, persino genio e gioia di vivere, non sono del tutto incompatibili.

© Giovanni Lamagna

Tre modi di rapportarsi al piacere

Ci sono tre modi di rapportarsi al piacere.

Il primo è quello di assecondare indiscriminatamente tutti gli stimoli che ci provocano, ci spingono a provare piacere.

Il secondo è quello di difendersi indifferentemente da tutti questi stimoli, ignorandoli, rimuovendoli, quasi anestetizzandoli.

Sia detto per inciso: gli stimoli al piacere possono provenire sia dall’esterno (il più delle volte) sia dall’interno (meno spesso, ma può succedere).

Questi due modi (estremi) di rapportarsi al piacere sono entrambi contro la vita e, quindi, malsani, nevrotici, se non addirittura psicotici.

Il primo modo, infatti, se protratto nel tempo, conduce alla dissipazione interiore, ad uno smembramento progressivi e sempre più gravi dell’apparato psichico, che perde così ogni confine, ogni controllo, ogni identità.

Il soggetto, che persegue un godimento senza limiti (senza Legge: direbbe Lacan), potremmo anche dire bulimico, assecondando tutti gli stimoli al piacere, come è portato a fare il bambino, specie nella fase orale del suo sviluppo, diventa una zattera in balia delle onde, una “folle banderuola” al vento.

Il secondo modo di rapportarsi al piacere, opposto al primo, porta il soggetto ad una sorta di apatia, di atarassia psichica, nella quale tutto il mondo, quello esterno e quello interno, gli diventa indifferente , incolore ed insapore.

Il soggetto erge tra sé e gli stimoli al piacere una sorta di muro, di barriera, che gli dà un perfetto controllo e dominio su di essi, ma lo rende anche del tutto insensibile, psicologicamente frigido, anoressico, incapace di abbandono e godimento.

Questo modo di rapportarsi al piacere, in alcuni casi particolarmente patologici, porta il soggetto addirittura a preferire il dolore e la sofferenza al piacere a alla gioia di vivere.

In questi casi il soggetto gode non solo della sua capacità di rinunciare al godimento, ma anche e perfino della sua capacità di abbracciare l’opposto del godimento sano e possibile: gode, addirittura, della sofferenza

Il terzo modo possibile di rapportarsi al piacere è quello di vagliare gli stimoli che ci vengono a godere, ogni volta in base al principio di realtà.

Questo consente al soggetto di selezionare gli stimoli, tra quelli buoni e sani, cioè compatibili con la nostra salute fisica e psichica, e quelli cattivi e insani, cioè dannosi per essa.

Per assecondare i primi e lasciarsi andare ad essi, senza inutili e autolesionistiche difese. Quelle che mette in atto, invece, il soggetto vittima della depressione melanconica.

E respingere i secondi, per difendere (come fanno gli anticorpi con i virus) la propria integrità fisica e psichica. Come non fa, invece, il soggetto vittima della euforia bulimica.

© Giovanni Lamagna

Sulla sensualità

Come definire la sensualità? Per me, in estrema sintesi, è la capacità, del tutto particolare e specifica, che hanno alcune persone (mentre altre non la posseggono per niente) di farsi desiderare sessualmente. Innanzitutto per le caratteristiche che ha il loro corpo. Ma ancora di più per i loro modi di essere, il loro modo di parlare, i loro gesti, le loro movenze, il loro modo di vestire. La sensualità è in altre parole la capacità di sedurre, di attrarre a sé.

Non si identifica, sic et simpliciter, con la bellezza fisica. Anche se questa può costituire un suo prerequisito. Può, ma non necessariamente. Infatti, ci sono persone molto belle fisicamente, che però non sono sensuali. E persone sensuali che non sono dei campioni/modelli di bellezza fisica.

Sono state sensuali alcune attrici famose e bellissime, come Marilin Monroe o Brigitte Bardot o Ava Gardner. Mentre non lo erano (almeno per me) attrici come Greta Garbo o la stessa Ingrid Bergman, donne altrettanto belle, ma un po’ algide e non altrettanto sensuali come le prime.

E’ la sensualità un valore? Per me sì. Perché entrare in contatto con una persona sensuale trasmette energia, dona gioia di vivere, ci fa sentire il desiderio di fare sesso, ingenera adrenalina. Sarebbe ipocrita non riconoscerlo.

La sensualità è quindi per me un valore. Allo stesso modo di come lo sono la bellezza fisica, l’intelligenza, la cultura, la simpatia del carattere, la bontà dell’animo, l’altruismo…, per indicare solo alcune (le principali, a mio avviso) delle caratteristiche che possono rendere attraente per noi una persona, un essere umano.

So benissimo che qualcuno nega valore a questa caratteristica umana e che alcuni anzi, addirittura, la disprezzano, ritenendola un disvalore, un che di deplorevole, un qualcosa di affine alla lascivia o alla lussuria.

E però io penso che tali giudizi nascano dall’invidia, dal fatto cioè che si vorrebbe essere sensuali e che non si riesce ad esserlo. O che siano ingenerati da un cattivo rapporto con la propria carnalità, col proprio corpo e con tutto ciò che ha a che fare con la sessualità. Tali giudizi, dunque, lungi dal segnalare una virtù, cioè un pieno di qualità, indicano una mancanza, una deprivazione, una nevrosi in chi li esprime.

So bene, d’altra parte, che altri sopravvalutano la sensualità, che la considerano l’unica dote o la principale, per la quale una donna (specie una donna) o un uomo possano essere ritenuti desiderabili e attraenti. Io non mi metto in questa categoria di persone. Non penso affatto che la sensualità sia l’unica dote o la principale delle doti che mi fa sentire attraente una persona.

E però (ripeto) considero la sensualità un valore. Un valore aggiunto per una persona che possegga anche altre doti. Sarebbe ipocrita per me negarlo!

Giovanni Lamagna

Quali sono le cause della depressione?

2 marzo 2014

Da quali cause scaturisce, si origina la malattia (ammesso che sia una malattia) della depressione?

A me sembra che le risposte a questa domanda possano essere essenzialmente tre.

Ci sono vicende dolorose che a volte, per la loro oggettiva gravità, segnano indelebilmente la vita di una persona, specie se sono avvenute nella sua infanzia, l’età della vita che, come tutti sappiamo, maggiormente ci segna e ci modella.

E in questo caso penso che la depressione abbia una ragione profonda, direi quasi oggettiva. Se siamo nati nel dolore e se abbiamo vissuto i primi anni della nostra esistenza nell’angoscia del vivere, come potrebbe questa esperienza fondamentale non dare un imprinting definitivo a tutto il resto della nostra esistenza?

Ma ci sono anche altre cause che possono originare una condizione fondamentale di depressione.

Una è, forse, il desiderio onnipotente di vivere una felicità senza macchie e senza ombre, un Eden perpetuo, una primavera o un’estate infinite, senza mai autunni e inverni, uno stato di perenne fioritura e gaiezza.

Forse questo desiderio impossibile da realizzarsi, che è in stridente conflitto con la condizione di incombente precarietà dell’esistenza, ci impedisce di godere anche dei piccoli o grandi piaceri e gioie che la vita pure ci offre, inevitabilmente alternandoli con i dispiaceri e le sofferenze.

E getta un’ombra pesante su ogni luce che illumina la nostra vita, rannuvola ogni sole che riscalda la nostra giornata, ci intossica ogni gioia e intacca ogni piacere.

L’altra causa è, secondo me, legata ai sensi di colpa. O, meglio, a un senso di colpa fondamentale, connesso a quello che la teologia cattolica definisce come “peccato originale”.

Per cui ad alcuni di noi è impossibile provare piacere senza in qualche modo e in qualche misura provare anche un sottile o vistoso, interiore senso di colpa. Come se quel piacere non ci spettasse o non fosse giusto che lo sperimentassimo allo stato puro.

Ecco allora che il piacere per noi si deve accompagnare sempre (o quasi sempre) a un qualche dispiacere, a un quid che in qualche modo lo limiti o lo intossichi. Solo a queste condizioni siamo in grado di provare il piacere, che ovviamente in questo caso sarà sempre e solo un piacere parziale, limitato, intaccato.

In entrambi questi casi la nostra vita non sarà quella del depresso cronico e acclarato, ma sarà comunque accompagnata e contraddistinta da una vena sottile di malinconia, cioè di depressione latente. Sarà una vita incapace di godere fino in fondo della gioia di vivere.

E’ forse impossibile uscire dalla depressione grave, cioè quella cronica ed eclatante. La si può, in alcuni casi, tamponare coi farmaci, ma guarirne del tutto e in via definitiva è obiettivo disperato.

Si può, invece, ragionevolmente ipotizzare la guarigione dagli altri due tipi di depressione, quella più latente, quella dalle manifestazioni meno eclatanti.

A condizione, però, di riuscire a cambiare il proprio sguardo sull’esistenza.

Nel primo caso riuscendo ad accettare che la vita è fatta di luci e di ombre, di notti e di giorni, di stagioni diverse ed opposte, che si alternano, così come tutto in natura. Superando, trascendendo, quindi, il senso di onnipotenza che pretenderebbe di escludere ogni contingenza e precarietà dallo scenario della propria esistenza.

Nel secondo caso riuscendo a liberarsi di assurde mitologie, che l’umanità si è costruita da sola con le sue mani, in base alle quali l’uomo sarebbe nato per espiare una colpa originaria e che la sua vita quindi debba svolgersi inevitabilmente nel dolore di questa espiazione.

Intendiamoci, anche questi due cambiamenti non sono affatto semplici da realizzarsi. Implicano un cammino “terapeutico” faticoso e in genere lungo da praticare. Ma non sono, almeno in via ipotetica, da escludere.

Giovanni Lamagna