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Capacità orgasmica e gioia di vivere.
Per mia esperienza, oltre che per riflessione e studio, sento e penso ci sia uno stretto collegamento tra desiderio sessuale e amore per la vita in generale, tra capacità orgasmica (petite mort) e gioia di vivere (joie de vivre).
Il sesso non è certamente tutto nella vita; e, forse, manco la sua dimensione principale.
Ma è altrettanto certo, a mio modo di vedere, che a chi non vive una soddisfacente vita sessuale viene a mancare una quota importante di felicità possibile destinata, almeno in potenza, agli esseri umani.
Wilhelm Reich, medico, psichiatra e psicoanalista austriaco naturalizzato statunitense, allievo della prima ora di Sigmund Freud, ha avuto il merito con le sue intuizioni e ricerche di evidenziare questa realtà, forse ancora più del suo maestro.
E ciò gli ha assegnato di diritto uno dei posti di primo piano nella storia del movimento psicoanalitico.
© Giovanni Lamagna
Recensione del film “E’ stata la mano di Dio” (2021) di Paolo Sorrentino
Ho appena visto l’ultimo film di Paolo Sorrentino, “E’ stata la mano di Dio”, e dico subito che mi è piaciuto: è un bel film, senz’altro un film d’autore!
Certo Sorrentino non è Fellini, anche se al regista riminese chiaramente e dichiaratamente si ispira, per cui è quasi impossibile non paragonarlo col mostro sacro, suo mentore virtuale.
Sorrentino indubbiamente non ha il genio magico e, diciamolo pure, inimitabile di Fellini, però è certamente una persona molto interiore, che sa guardarsi dentro e, come tutte le persone interiori, ha perciò molte cose da dire.
Non lo sa fare nel modo visionario, incandescente, seduttivo, scoppiettante e incantatore di Fellini, ma lo sa fare sicuramente con buona maestria e padronanza, sia nel costruire le storie sia nel renderle sul grande schermo.
Questo film – tanto per restare all’accostamento con Fellini – è un vero e proprio Amarcord sorrentiniano. Così come “La grande bellezza” fu la versione sorrentiniana de “La dolce vita” felliniana.
L’idea da cui nasce è, infatti, probabilmente la stessa da cui originò il meraviglioso film di ricordi del regista riminese: il desiderio/esigenza di ripercorrere la propria adolescenza, di rivisitare i luoghi in cui essa si svolse, di ritrovare persone, episodi, atmosfere, dolori, tragedie, che la caratterizzarono.
Quasi per fare i conti con quella fase della vita, prolungatasi forse fin troppo a lungo, e per uscirne definitivamente, aprendone una nuova.
E, come il film di Fellini ovviamente era ambientato a Rimini, così l’Amarcord di Sorrentino non poteva che essere ambientato a Napoli.
Due contesti evidentemente molto diversi, immerso spesso nella nebbia più fitta il primo, estremamente luminoso e solare il secondo; entrambi però accomunati dall’allegria quasi ridanciana, dal gusto per lo scherzo, anzi per lo sberleffo, dal piacere di godere della sensualità dei corpi.
Fatta questa premessa, evidenzierei che il film di Sorrentino si divide in due tempi nettamente distinti tra di loro, quasi contrapposti.
Le caratteristiche principali del primo sono la risata, la gioia di vivere, la convivialità allegra. Nel corso del primo tempo si ride molto, sembra quasi di assistere ad un film comico; come d’altra parte si rideva molto nell’Amarcord felliniano.
Ma già l’ultima scena del primo tempo preannuncia un radicale cambio di registro, che si affermerà poi pienamente nel secondo tempo; alla commedia (spesso comica) subentrerà prima il dolore acuto e poi la vera e propria tragedia.
La svolta viene annunciata dal pianto e dal tremore isterico della madre (Teresa Saponangelo) del giovane Fabio (Filippo Scotti: Sorrentino adolescente), che scopre il tradimento (in corso forse già da svariati anni) del marito (Toni Servillo) con una sua collega di ufficio.
E si realizza pienamente con la scena dei due genitori di Fabio, che dopo la breve separazione, dopo essersi riappacificati, quando hanno coronato finalmente il loro sogno (molto piccolo-borghese) di avere una casa in montagna (a Roccaraso), accendono il camino e sprovvedutamente vi si addormentano davanti, seduti sul divano, mentre l’uno legge “Un uomo” di Oriana Fallaci e l’altra sferruzza a maglia; respirano così l’aria che diventa sempre più velenosa per le esalazioni del monossido di carbonio e vanno incontro ad una tragica e prematura morte.
I tre figli riescono a salvarsi dalla stessa sorte per puro miracolo, perché non hanno accompagnato i genitori (come pure questi avrebbero desiderato) nel weekend a Roccaraso: Marchino (Marlon Joubert), perché tutto preso dal nuovo amore per una ragazza, Daniela (Rossella Di Lucca), perché vive isolata in un mondo tutto suo (e, infatti, nel film compare pochissimo), infine Fabietto, perché non voleva perdersi la partita Napoli-Empoli, dove avrebbe visto giocare il suo idolo Diego Armando Maradona, nuovo acquisto del Napoli.
Questo di Maradona è uno dei capitoli più importanti dell’adolescenza di Fabio/Sorrentino e, per conseguenza del film; uno di quelli sul quale si è maggiormente costruito l’immaginario del giovane adolescente; Maradona è visto come una specie di divinità calata in terra, che compensa le frustrazioni di un’intera città e ne realizza i sogni a lungo, troppo a lungo, repressi, perché considerati impossibili.
Emblematica, quasi onirica, la scena in cui il ragazzo, mentre attraversa la strada, vede Maradona in un’auto ferma ad un semaforo rosso: il suo sguardo resta paralizzato per svariati secondi, i suoi occhi non credono a quello che stanno vedendo, e con in suoi quelli della piccola folla che ha ricevuto la grazia di una simile visione.
Come non riandare con la memoria alla scena felliniana dei riminesi che a bordo delle loro barche si spingono al largo per assistere nel buio della notte e col mare mosso al passaggio luccicante e favoloso del transatlantico Rex?
L’altro personaggio molto significativo dell’adolescenza di Fabio-Sorrentino è la zia Patrizia (Luisa Ranieri), sorella della madre, donna di straordinaria e prorompente bellezza, che accende le fantasie e le pulsioni erotico-sessuali del giovane ragazzo e di quelle del fratello Marchino.
Patrizia è una bellissima donna, ma anche estremamente frustrata, sia perché non riesce a rimanere incinta, sia perché vive con un marito, Franco (Massimiliano Gallo) che spesso e volentieri la riempie di botte; per questo dà spesso in stranezze.
Emblematica la scena della famiglia allargata ai numerosissimi parenti, in gita su un grande gozzo al largo della penisola sorrentina, quando Patrizia, col massimo candore e allo stesso tempo massima spudoratezza, si toglie tutti i vestiti di dosso e si stende completamente nuda, meravigliosamente nuda, sulla tolda della barca e tutti gli astanti la guardano allibiti e allo stesso tempo desideranti.
Come non riandare anche qui ad una delle scene madri dell’Amarcord felliniano: quella in cui la tabaccaia prosperosa e sensuale alla sera, prima sella chiusura, fa entrare nel suo negozio i ragazzi del borgo che sono soliti guardarla sbavanti e pieni di desiderio, abbassa la saracinesca e mostra loro, seduttiva e complice, le sue enormi, debordanti tette?
Patrizia è per Fabietto l’altro mito della sua adolescenza, l’unico che può competere nel suo immaginario sognante con quello di Maradona.
La morte tragica di Saverio e Maria segna, come una ferita non più rimarginabile, la vita dei tre figli, in modo particolare quella di Fabietto, che al contrario del fratello maggiore, Marchino, il quale intende darsi alla bella vita per rimuovere il dolore per la perdita dei genitori, non se ne fa una ragione, non riesce ad allontanare da sé le tracce del trauma vissuto.
Si rifugia così nel mondo dell’immaginario, che gli sembra senza ombra di dubbi preferibile alla realtà che egli definisce “scadente”. E in questo modo dentro di lui affiora un poco alla volta e infine si manifesta chiaramente la vocazione a fare il regista di film.
In questo suo percorso di (parziale) elaborazione del trauma (la elaborazione definitiva avverrà forse proprio con la costruzione e realizzazione di questo film: ecco il suo senso e la sua motivazione di fondo!) lo aiutano quattro figure significative.
1. La zia Patrizia, che non solo, come abbiamo già visto, è stato il primo oggetto dei suoi ardori erotici e sessuali, in quanto incarnazione stessa, sublime, della femminilità e dell’erotismo; ma è anche colei che incoraggia subito, appena Fabio glielo rivela, e con grande forza il suo sogno di diventare un autore di film.
2. Armando (Biagio Manna) un giovane contrabbandiere (Fabio lo incontra per caso allo stadio e con lui familiarizza condividendo il tifo per Maradona), che lo introduce in un mondo per lui (cresciuto in un ambiente piccolo borghese) completamente altro, quello della camorra e della violenza, alternata però anche a grande generosità e persino tenerezza.
3. La baronessa Focale (Betti Pedrazzi), una signora anziana, nobile decaduta, dall’aria solo apparentemente altera e distaccata, che abitava nello stesso palazzo ed era di famiglia in casa Schisa.
Che, quando si rende conto del momento molto difficile che sta attraversando Fabio, con un pretesto lo attira a casa sua e con modi molto garbati ed estremamente seduttivi, lo introduce ai misteri del sesso: la prima volta di Fabio!
E’ questa una delle scene più sexy e conturbanti del film, paragonabile e forse addirittura superiore a quella della zia Patrizia completamente nuda sulla tolda della barca davanti ad un pubblico di spettatori che la guardavano carichi di stupore e meraviglia.
Lì c’era il trionfo solare e spettacolare della bellezza fisica di Luisa Ranieri (zia Patrizia), esaltata dalla luce e dalla natura, con la monta ovvia del desiderio degli astanti maschili, in particolare di Fabio e di suo fratello Marchino, e forse persino l’invidia delle astanti femminili.
Qui, invece, si realizzano – nella penombra di una camera da letto e nel tete a tete – la celebrazione delle arti seduttive, affinate con gli anni e con l’esperienza, di un’anziana signora e il rito di iniziazione al sesso di un giovane, che fino ad allora lo aveva solamente fantasticato e, quindi, si mostra timido e imbranato.
Anche qui come non associare la scena dell’anziana baronessa che seduce e inizia al sesso il giovane Fabio a quella felliniana della splendida Gradisca che maliziosamente attizza prima e poi svezza, anche se solo con un bacio, i giovani adolescenti riminesi che sbavavano per lei?
4. Infine, Antonio Capuano (Ciro Capano), un regista napoletano, un po’ di nicchia, che all’inizio strapazza violentemente il giovane Fabio, che gli ha confidato il suo desiderio di diventare regista cinematografico, come per metterlo alla prova e saggiare l’autenticità della sua vocazione.
Ma poi si addolcisce, intenerisce e gli dà persino alcuni consigli, il più importante dei quali mi pare è “Non disunirti!”.
Che io ho interpretato così: non perdere i contatti con le tue radici, quindi con la tua famiglia, con la tua città di origine, con i simboli e i miti che hanno segnato la tua adolescenza, con il tuo dolore di fondo; perché è da lì che potrai ricevere la linfa che alimenterà la tua creatività, le cose che vorrai dire e tradurre in immagini.
Il film si conclude (anche qui sulla falsariga dell’Amarcord felliniano) con la scena di Fabio che viaggia in treno, direzione Roma, per inseguire il suo sogno di fare il regista.
E in sottofondo si ascolta la famosa canzone di Pino Daniele “Napule è”, come a dire che Fabio lascia la città che lo ha visto nascere e crescere, ma non si “disunisce”: le sue radici rimangono a Napoli e daranno linfa continua alla sua creatività artistica.
© Giovanni Lamagna
Genio e malinconia
Per Schopenhauer “il genio è affine alla melanconia”.
Per Aristotele “tutti gli uomini di genio sono malinconici”.
Sono d’accordo, ma solo in parte.
Perché è vero che i melanconici sono particolarmente portati alla riflessione e alla meditazione; forse perché nella riflessione e nella meditazione trovano riparo, almeno momentaneo, per sfuggire alla loro triste e dolorosa condizione.
Ho avuto modo, però, di conoscere uomini che associavano l’ingegno alla serenità d’animo e, perfino, a buone dosi di umorismo; segno, a mio modesto avviso, che genio e allegria, persino genio e gioia di vivere, non sono del tutto incompatibili.
© Giovanni Lamagna
Tre modi di rapportarsi al piacere
Ci sono tre modi di rapportarsi al piacere.
Il primo è quello di assecondare indiscriminatamente tutti gli stimoli che ci provocano, ci spingono a provare piacere.
Il secondo è quello di difendersi indifferentemente da tutti questi stimoli, ignorandoli, rimuovendoli, quasi anestetizzandoli.
Sia detto per inciso: gli stimoli al piacere possono provenire sia dall’esterno (il più delle volte) sia dall’interno (meno spesso, ma può succedere).
Questi due modi (estremi) di rapportarsi al piacere sono entrambi contro la vita e, quindi, malsani, nevrotici, se non addirittura psicotici.
Il primo modo, infatti, se protratto nel tempo, conduce alla dissipazione interiore, ad uno smembramento progressivi e sempre più gravi dell’apparato psichico, che perde così ogni confine, ogni controllo, ogni identità.
Il soggetto, che persegue un godimento senza limiti (senza Legge: direbbe Lacan), potremmo anche dire bulimico, assecondando tutti gli stimoli al piacere, come è portato a fare il bambino, specie nella fase orale del suo sviluppo, diventa una zattera in balia delle onde, una “folle banderuola” al vento.
Il secondo modo di rapportarsi al piacere, opposto al primo, porta il soggetto ad una sorta di apatia, di atarassia psichica, nella quale tutto il mondo, quello esterno e quello interno, gli diventa indifferente , incolore ed insapore.
Il soggetto erge tra sé e gli stimoli al piacere una sorta di muro, di barriera, che gli dà un perfetto controllo e dominio su di essi, ma lo rende anche del tutto insensibile, psicologicamente frigido, anoressico, incapace di abbandono e godimento.
Questo modo di rapportarsi al piacere, in alcuni casi particolarmente patologici, porta il soggetto addirittura a preferire il dolore e la sofferenza al piacere a alla gioia di vivere.
In questi casi il soggetto gode non solo della sua capacità di rinunciare al godimento, ma anche e perfino della sua capacità di abbracciare l’opposto del godimento sano e possibile: gode, addirittura, della sofferenza
Il terzo modo possibile di rapportarsi al piacere è quello di vagliare gli stimoli che ci vengono a godere, ogni volta in base al principio di realtà.
Questo consente al soggetto di selezionare gli stimoli, tra quelli buoni e sani, cioè compatibili con la nostra salute fisica e psichica, e quelli cattivi e insani, cioè dannosi per essa.
Per assecondare i primi e lasciarsi andare ad essi, senza inutili e autolesionistiche difese. Quelle che mette in atto, invece, il soggetto vittima della depressione melanconica.
E respingere i secondi, per difendere (come fanno gli anticorpi con i virus) la propria integrità fisica e psichica. Come non fa, invece, il soggetto vittima della euforia bulimica.
© Giovanni Lamagna
Quali sono le cause della depressione?
2 marzo 2014
Da quali cause scaturisce, si origina la malattia (ammesso che sia una malattia) della depressione?
A me sembra che le risposte a questa domanda possano essere essenzialmente tre.
Ci sono vicende dolorose che a volte, per la loro oggettiva gravità, segnano indelebilmente la vita di una persona, specie se sono avvenute nella sua infanzia, l’età della vita che, come tutti sappiamo, maggiormente ci segna e ci modella.
E in questo caso penso che la depressione abbia una ragione profonda, direi quasi oggettiva. Se siamo nati nel dolore e se abbiamo vissuto i primi anni della nostra esistenza nell’angoscia del vivere, come potrebbe questa esperienza fondamentale non dare un imprinting definitivo a tutto il resto della nostra esistenza?
Ma ci sono anche altre cause che possono originare una condizione fondamentale di depressione.
Una è, forse, il desiderio onnipotente di vivere una felicità senza macchie e senza ombre, un Eden perpetuo, una primavera o un’estate infinite, senza mai autunni e inverni, uno stato di perenne fioritura e gaiezza.
Forse questo desiderio impossibile da realizzarsi, che è in stridente conflitto con la condizione di incombente precarietà dell’esistenza, ci impedisce di godere anche dei piccoli o grandi piaceri e gioie che la vita pure ci offre, inevitabilmente alternandoli con i dispiaceri e le sofferenze.
E getta un’ombra pesante su ogni luce che illumina la nostra vita, rannuvola ogni sole che riscalda la nostra giornata, ci intossica ogni gioia e intacca ogni piacere.
L’altra causa è, secondo me, legata ai sensi di colpa. O, meglio, a un senso di colpa fondamentale, connesso a quello che la teologia cattolica definisce come “peccato originale”.
Per cui ad alcuni di noi è impossibile provare piacere senza in qualche modo e in qualche misura provare anche un sottile o vistoso, interiore senso di colpa. Come se quel piacere non ci spettasse o non fosse giusto che lo sperimentassimo allo stato puro.
Ecco allora che il piacere per noi si deve accompagnare sempre (o quasi sempre) a un qualche dispiacere, a un quid che in qualche modo lo limiti o lo intossichi. Solo a queste condizioni siamo in grado di provare il piacere, che ovviamente in questo caso sarà sempre e solo un piacere parziale, limitato, intaccato.
In entrambi questi casi la nostra vita non sarà quella del depresso cronico e acclarato, ma sarà comunque accompagnata e contraddistinta da una vena sottile di malinconia, cioè di depressione latente. Sarà una vita incapace di godere fino in fondo della gioia di vivere.
E’ forse impossibile uscire dalla depressione grave, cioè quella cronica ed eclatante. La si può, in alcuni casi, tamponare coi farmaci, ma guarirne del tutto e in via definitiva è obiettivo disperato.
Si può, invece, ragionevolmente ipotizzare la guarigione dagli altri due tipi di depressione, quella più latente, quella dalle manifestazioni meno eclatanti.
A condizione, però, di riuscire a cambiare il proprio sguardo sull’esistenza.
Nel primo caso riuscendo ad accettare che la vita è fatta di luci e di ombre, di notti e di giorni, di stagioni diverse ed opposte, che si alternano, così come tutto in natura. Superando, trascendendo, quindi, il senso di onnipotenza che pretenderebbe di escludere ogni contingenza e precarietà dallo scenario della propria esistenza.
Nel secondo caso riuscendo a liberarsi di assurde mitologie, che l’umanità si è costruita da sola con le sue mani, in base alle quali l’uomo sarebbe nato per espiare una colpa originaria e che la sua vita quindi debba svolgersi inevitabilmente nel dolore di questa espiazione.
Intendiamoci, anche questi due cambiamenti non sono affatto semplici da realizzarsi. Implicano un cammino “terapeutico” faticoso e in genere lungo da praticare. Ma non sono, almeno in via ipotetica, da escludere.
Giovanni Lamagna