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Solo nella misura in cui l’uomo si trascende realizza se stesso

Sono del tutto d’accordo con Victor Frankl quando, a pag. 187 del suo “Logoterapia e analisi esistenziale”, afferma:

“Solo nella misura in cui l’uomo si trascende realizza se stesso…

Egli diventa se stesso quando si proietta oltre se stesso e, ciò facendo, si dimentica”.

E’ vero, l’uomo nasce racchiuso in un guscio (apparentemente) protettivo, che è il suo Ego.

Questo guscio all’inizio assolve alla funzione positiva, allevatrice, educatrice, di garantirne la crescita.

Ma, col tempo, si rivela sempre più una gabbia, una prigione, una camera a gas, che corre il rischio di asfissiarlo ed ucciderlo, se egli non sarà capace, ad un certo punto, di romperlo ed uscirne, stavo per dire scapparne.

E incontrare così il Tu, anzi i Tu, che saranno capaci di liberarlo dal suo narcisismo e permettergli di espandersi, di realizzare la sua vocazione socializzante, di “persona-comunità” e non di “individuo-monade”.

L’uomo per diventare pienamente se stesso deve trascendere il suo Ego, deve, stavo per dire, addirittura, dimenticare (il verbo, a mio avviso del tutto appropriato, che utilizza Frankl) il suo Ego.

E questo può farlo solo se si apre ad un Tu, all’Altro da sé.

Che gli consenta di diventare, già in sé, un Noi.

L’individuo è, per definizione, Ego, è Narciso; nasce Narciso.

Ma, se resta Narciso, è destinato ad appassire, a ripiegare su se stesso e ad affogare, prima o poi, nella sua stessa immagine.

L’individuo che muore all’Io e si apre al Tu diventa, invece, persona e rifiorisce.

Così, solo così, può realizzare se stesso.

© Giovanni Lamagna

Religioso, spirituale, contemplativo, estatico, mistico

L’atto più profondamente religioso e spirituale che conosco (i due termini – spirituale e religioso – per me sono quasi sinonimi) è quello che ci mette in comunione con qualcosa che va al di là dei confini ristretti del nostro Ego.

Più il nostro Ego si dilata, si trascende – non in senso fisico ma psichico – e più noi viviamo un’esperienza religiosa e spirituale.

Arrivare a sentirsi parte del Tutto, dell’Umanità e, persino, del Cosmo, vivere questa esperienza non solo sul piano mentale, ma anche su quello emotivo e perfino su quello fisico-percettivo, è l’esperienza massima della spiritualità.

Quella che comunemente viene definita un’esperienza contemplativa, estatica o mistica.

© Giovanni Lamagna

Le fasi di un rapporto: nascita, crisi, rottura.

Ogni rapporto nasce per realizzare non una fusione (che sarebbe cosa impossibile e, forse manco auspicabile) ma almeno una integrazione dei percorsi di vita, un rimescolamento, negli auspici un arricchimento, delle identità delle due persone che si incontrano.

Quando questa integrazione non riesce (perché una delle due persone – o tutte e due – frappongono ostacoli e resistenze, faticano a mettere in discussione se stesse, non riescono in altre parole ad uscire dal loro ego individuale per realizzare un noi), il rapporto fallisce.

Si determina, allora, dopo la prima fase di apertura spontanea, caratterizzata a volte perfino da entusiasmo ed euforia, un allontanamento reciproco, che all’inizio è quasi impercettibile, poi gradualmente diventa sempre più vistoso, fino a giungere, in alcuni casi, anche alla rottura.

© Giovanni Lamagna

Dialoghi attorno al volere e non volere

Tempo fa ho pubblicato su facebook un post che ha dato origine ad un dialogo con alcuni amici, dialogo che reputo di un qualche interesse. E per questo lo ripropongo.

Il post iniziale era il seguente:

Volere e non volere

Per quanto mi riguarda, per “volere il giusto” occorre (paradossalmente) non volere; occorre, cioè, sospendere la propria volontà; o, meglio, la volontà dell’Ego.

E affidarsi alla volontà dell’Alter-Ego, cioè del nostro “maestro interiore”, che ci ispirerà e suggerirà, momento per momento, cosa sarà giusto fare.

A seguire il dialogo che ne è scaturito.

P. R. : Il tuo è un modo ateistico di affidarsi a chi non si conosce, come fa il credente; due idealizzazioni distinte: una dentro me e l’altra fuor di me. È solo una questione di scelta, ma il risultato è identico.

Giovanni Lamagna: Nel mio caso io conosco bene chi è colui a cui mi affido, il mio “maestro interiore”.

E’ la sintesi, la sovrapposizione simbolica di tutti i maestri in carne ed ossa che ho conosciuto, incontrato nel corso della mia vita.

E’, dunque, esterno ed interno allo stesso tempo: un esterno che è diventato interno, interiore.

B. C. : Giovanni cosa ti fa supporre che il “maestro interiore” sia più giusto dell’Ego? E cosa intendi per Ego? L’io cosciente (e quindi anche senziente e volente) o qualche altra cosa?

G. L. : In questo caso per Ego intendo qualcosa che sta a metà tra l’ES freudiano e l’EGO sempre freudiano.

Qualcosa che non è più il puro istinto o la pura pulsione (l’Es freudiano), ma non è neanche la piena coscienza (l’Ego freudiano).

E’ qualcosa che ha preso consapevolezza della realtà, dei limiti che la realtà pone all’Es. E quindi è già coscienza, non è più inconscio.

Ma non ha ancora preso consapevolezza di quali sono tutte le sue potenzialità.

Queste, a mio avviso, non ce le rende consapevoli solo la realtà (che in molti casi, invece, tende a mortificare le nostre potenzialità), ma ce le fanno intravedere i Maestri, quando e se abbiamo la fortuna di incontrarli e riconoscerli (perché non basta solo incontrarli, bisogna pure riconoscerli come tali) nel corso della nostra vita.

L’insieme, la sovrapposizione simbolica (diciamo pure la sintesi di tutti questi Maestri in carne ed ossa), forma, costituisce dentro di noi una sorta di Maestro interiore, che è quello che io chiamo l’Alter Ego.

Che può guidarci con la sua saggezza, non facendoci appiattire semplicemente su ciò che chiamiamo (spesso un po’ troppo frettolosamente) “la realtà”. A questo “Maestro interiore” io affido la mia volontà.

Non certo per una sorta di fede religiosa, ma perché ho una fiducia, più volte confermata dall’esperienza, in lui.

Almeno fino a prova contraria. Fino a quando cioè un altro/nuovo maestro non metterà in discussione (ai miei occhi) gli insegnamenti del mio attuale “maestro interiore”. Cosa che segnerebbe (come a volte mi è successo in passato) una svolta nella mia vita.

B. C. :Allora nella tua topica abbiamo:

– l’ego freudiano (la piena coscienza),

– l’ego “lamagnano” (a metà tra l’ego freudiano e l’es freudiano)

– il super-io freudiano

– l’es freudiano

– l’alter-ego (il maestro interiore, sintesi di tutti gli altri ego)

Corretto? E’ una tua concezione originale o l’hai presa da qualche autore?

Rimane la mia domanda: cosa ti fa supporre che il maestro interiore sia il più saggio di tutti? Solo una “fiducia sperimentata”?

Giovanni Lamagna: La tua mi sembra una ricostruzione abbastanza corretta, nella quale mi riconosco abbastanza.

A parte la definizione dell’Ego freudiano come “piena coscienza”. Per me l’Ego freudiano è troppo appiattito sulla cosiddetta (presunta) “realtà”. E’ insomma più realista del Re.

Per me la “piena coscienza” è fatta anche degli insegnamenti dei Maestri, che mi hanno insegnato non solo a tener conto dei limiti della cruda realtà, ma anche delle sue (non sempre visibili ed esplicite) potenzialità.

No, questa mia “concezione” non l’ho presa da nessuna parte: è il frutto della mia esperienza e della mia riflessione.

Se poi, prima di me (come è probabile), altri sono arrivati alle stesse idee, non è da loro che ho ricavato le mie. Vuol dire che in questo caso ho sfondato, senza saperlo, delle porte già aperte.

Quanto alla tua ultima domanda: il “mio maestro interiore” è PER ME il più saggio di tutti, perché, se ritenessi che ce n’è un altro più saggio, ovviamente seguirei questo.

Non ho la pretesa, però, che sia il più saggio in assoluto, che cioè lo sia anche per gli altri: mi basta che lo sia PER ME.

In ogni caso la mia fiducia in lui (come già scrivevo prima) è sempre condizionata: la sottopongo a verifiche continue e mai definitive, valevoli cioè una volta e per sempre.

In altre parole, ho fiducia, ma allo stesso tempo sto all’erta e in un certo senso diffido. Anche di quello che considero il mio Maestro interiore. Dubito ergo sum!

© Giovanni Lamagna

Schiavi o padroni di noi stessi?

Siamo chiamati a procurarci il necessario per vivere una vita sobria e dignitosa.

Desiderare di più ci rende schiavi della nostra ingordigia.

Siamo chiamati a godere dei piaceri della vita, in primo luogo di quello sessuale.

Dobbiamo evitare, però, di diventare succubi dei piaceri, specie di quello sessuale.

Diventando schiavi di quello che Lacan definiva “godimento senza limiti”.

Siamo, infine, chiamati a realizzare la volontà del nostro Maestro interiore, cioè del nostro Alter-Ego.

Non a seguire la nostra volontà narcisista, diventando schiavi del nostro Ego.

© Giovanni Lamagna

Cos’è la contemplazione per me?

Il percorso contemplativo per me è essenzialmente un cammino dall’inconscio al conscio: “Dov’è l’ES ci sarà l’EGO”.

E’, dunque, un percorso senza fine, “interminabile”, per citare Freud (che usava però il termine in tutt’altro contesto).

Perché l’inconscio è un mare di cui non si tocca mai il fondo, una montagna di cui non si raggiunge mai la cima.

© Giovanni Lamagna

Cosa intendo per illuminazione

Capire che amare il prossimo (cioè aprirsi agli altri e non rimanere ripiegati sul nostro ego, chiusi nel proprio narcisismo) equivale alla “salvezza” (di sé, come individui, e del mondo, come Umanità) è per gli esseri umani (o, meglio, per coloro tra di essi che la vivono) sempre l’esito di una esperienza, in qualche modo mistica, di una vera e propria illuminazione.

E non c’è nessun merito nel ricevere questa illuminazione. Perché essa è frutto di pura fortuna, figlia del puro caso.

Che ad alcuni (non molti, invero) accade. Ad altri (molti) non accade. Almeno a giudicare da come è andato il mondo e da come si è svolta la storia finora.

Ognuno di noi può solo predisporsi o, meglio, non frapporre troppi ostacoli affinché questa illuminazione lo raggiunga. Ma essa non dipende per la massima parte da noi.

Allo stesso modo che noi possiamo aprire le finestre al mattino per fare entrare la luce del sole in casa nostra. Ma, se il sole (per assurdo) non spuntasse al mattino, quando fa alba, non basterebbe aprire le finestre di casa nostra per farvi entrare luce.

Ci sono cose, insomma, che dipendono da noi. Come, per restare alla metafora, aprire le finestre.

Ma ce ne sono altre, che prescindono del tutto da noi, che non dipendono per niente da noi. Come, per continuare a stare nella metafora, il sorgere del sole.

L’illuminazione (mistica o filosofica che dir si voglia; a dire il vero più mistica che filosofica) è una di queste. E così la capacità di amare, che di questa illuminazione è in genere figlia. Anzi con essa coincide sostanzialmente.

Si impara ad amare (e si riceve l’illuminazione che nell’amore sta la “salvezza”; non parlo qui – come credo si sia capito – di una salvezza ultraterrena, ma di una salvezza tutta terrena, situata nel qui ed ora) non per merito proprio. Ma perché si è ricevuto amore, perché si è stati amati, cioè desiderati, accuditi, curati, coltivati nel modo giusto, quando si è venuti al mondo e nei primi anni di vita.

L’amore, infatti, genera naturalmente amore. L’amore può nascere solo dall’amore. Così come dal disamore o dallo scarso amore derivano inevitabilmente frustrazione e, quindi, rabbia, rivolta, ribellione, che sono tutte madri dell’odio.

Se all’amore non frapponiamo ostacoli, se all’amore non reagiamo col rifiuto e col disamore (ma questo in genere non accade: perché non dovremmo amare, se siamo diventati serbatoio di amore ricevuto?), in noi germoglia, prima o poi, come frutto naturale, l’illuminazione che ci porta a nostra volta ad amare gli altri.

L’incapacità di amare (il non aver compreso cioè che nell’amore sta la nostra “salvezza”) è sempre figlia di un “non amore” ricevuto o di un amore ricevuto in maniera sbagliata, quando siamo venuti al mondo e nei primi anni della nostra esistenza, quando l’amore ci era indispensabile come il latte che succhiavamo dalle mammelle di nostra madre.

Di questo sono fermamente convinto.

Giovanni Lamagna

Il “sentimento oceanico” e il “sentimento egoico primitivo”.

Secondo Sigmund Freud il “sentimento oceanico”, cioè la sensazione di essere tutt’uno con l’universo (ovvero l’equivalente del sentimento religioso secondo Romain Rolland, il letterato francese suo contemporaneo con il quale il fondatore della psicoanalisi aveva avuto un importante scambio epistolare), se esiste, è il “sentimento egoico primitivo” preservato dopo la fine dell’infanzia.

Il sentimento egoico primitivo precede, secondo Freud, la creazione dell’ego vero e proprio ed esiste fino a quando la madre non cessa l’allattamento al seno. Fino a quando viene allattato regolarmente, in genere in risposta al suo pianto, il bambino non ha idea che il seno non gli appartenga. Pertanto, il bambino non ha la percezione del “sé” o, meglio, considera il seno della madre come parte di sé.

Freud sostiene che coloro che sperimentano un sentimento oceanico da adulti stanno in realtà rivivendo un sentimento egoico primitivo. In altre parole lo stesso sentimento che prova il bambino quando è attaccato al seno della madre e non ha ancora percepito che il seno della madre è altro da sé.

Il sentimento oceanico è, dunque, per Freud lo stesso che prova il bambino per tutta la fase dell’allattamento fino al suo svezzamento. Quindi una sorta di vera e propria regressione a quella fase della vita infantile.

Mi permetto (pur con tutto l’ovvio rispetto dovuto al geniale fondatore della psicoanalisi) di essere in disaccordo con questa interpretazione di Freud. E per almeno due motivi.

Il primo è, perfino, banale a dirsi.

Se il sentimento oceanico di cui parla Rolland è sperimentato da adulti, cioè da persone che sono evidentemente uscite dalla fase del “sentimento egoico primitivo” ed hanno acquisito una piena e matura percezione del sé, non si capisce come possano tornare a sperimentare ancora una volta il “sentimento egoico primitivo”.

Si potrà tutt’al più affermare che l’esperienza del “sentimento oceanico” ha delle somiglianze, delle affinità emozionali-affettive con il “sentimento egoico primitivo”. Ma non si potrà dire che quello coincida con questo. Non si potrà dire che si tratti dello stesso “sentimento egoico”, preservato in una specie di memoria bioenergetica.

Il secondo motivo è molto più profondo e significativo del primo.

Il bambino che vive nella fase del “sentimento egoico primitivo” è un soggetto profondamente egocentrico, narcisista, potremmo dire perfino egoista. Tutto concentrato, cioè, sui suoi bisogni primari e del tutto indifferente a quelli degli altri. Tanto è vero che, se, avendo fame, il seno non gli viene dato immediatamente, piange come un disperato e può diventare perfino aggressivo.

L’adulto che vive l’autentico “sentimento oceanico”, quello di cui parla Romain Rolland è, invece, profondamente sensibile ai bisogni degli altri, quasi come (se non, in alcuni casi, addirittura di più) che ai suoi. Rispettoso e amante non solo degli altri esseri umani suoi simili, ma di tutto ciò che ha a che fare con la natura, dal mondo minerale a quello vegetale a quello animale, dall’aria all’acqua in primis.

Queste così diverse manifestazioni esteriori (evidenti a chiunque le voglia osservare senza pregiudizi pseudoscientifici) rendono del tutto irriducibile il “sentimento oceanico”, di cui parla Rolland, al “sentimento egoico primario”, di cui parla Freud. Trattasi di due esperienze completamente e profondamente diverse. Forse addirittura opposte.

Potremmo, infatti, dire (penso senza tema di esagerare troppo) che l’esperienza del “sentimento oceanico” è addirittura lo stigma inequivocabile del completo e definitivo superamento della fase del “sentimento egoico primitivo” nell’uomo, l’uscita completa dalla condizione infantile per addivenire a quella adulta.

La persona che è in grado di sperimentare il cosiddetto “sentimento oceanico” è uscita definitivamente dalla fase egoica primaria del Sé (mi verrebbe di dire) tutto ripiegato su di sé, (cioè dalla fase del narcisismo tipica dell’infanzia e anche – se vogliamo – dell’adolescenza) e si è aperta alla dimensione dell’Altro da sé, che è (o dovrebbe essere) quella tipica dell’età adulta pienamente realizzata.

Chi prova il vero, autentico, “sentimento oceanico” si fonde (o tende a fondersi) con l’Altro da sé non, certo, con il seno della madre, ovverossia con l’immagine di sé proiettata nella madre, come avviene al bambino. Vive un’esperienza del tutto diversa, anzi addirittura opposta, a quella del bambino.

Giovanni Lamagna

Feuerbach, la religione e l’ateismo.

Feuerbach è un grande! Ha avuto delle intuizioni geniali.

Ha compreso, in modo particolare, la funzione delle religioni nello sviluppo culturale, cioè nella crescita dei livelli di consapevolezza dell’Umanità.

La religione è servita per sviluppare nell’uomo la dimensione dell’Altro da Sé.

Ha adempiuto, potremmo dire, a livello sociale e collettivo, alla stessa funzione a cui adempiono, ad un livello individuale e personale, la figura materna e quella paterna.

La religione ha aiutato l’uomo a crescere, a vedersi come in uno specchio, a riconoscere le sue possibilità e potenzialità, i suoi poteri.

Ed è stata questa la funzione positiva della religione: una grande funzione!

Senza la religione, infatti, l’uomo sarebbe rimasto una bestia, incapace di avere una coscienza riflessa, incapace di guardarsi allo specchio, incapace di dialogo con l’Altro da Sé, senza parola, senza linguaggio, afono, infantile (nel senso etimologico del termine).

Ma c’è anche – ci dice Feuerbach – una funzione negativa della religione.

Che è quella di onnipotentizzare l’Altro da Sé, di viverlo come una Entità realmente e totalmente separata da sé, assoluta e del tutto superiore. Alla quale, quindi, sottomettersi, di cui diventare schiavo (religioni primitive) o essere tutt’al più figli (Cristianesimo).

L’uomo religioso è destinato, quindi, alla schiavitù o ad una figliolanza senza termine. A restare, quindi, eternamente subalterno, inferiore.

L’uomo non religioso, l’uomo che si libera di Dio, l’uomo ateo (senza Dio), non perde l’autocoscienza, trovata grazie alla religione, ma prende consapevolezza che l’Altro da Sé, a cui con la religione aveva attribuito i caratteri della divinità, altro non è che la proiezione di sé. Quindi una sua produzione.

Una produzione necessariamente e per forza di cose autolimitante, ma non schiavizzante, non repressiva.

L’uomo ateo è l’uomo liberato, finalmente consapevole di sé, diventato finalmente adulto. L’uomo cresciuto, che non ha più bisogno di un Padre (e di una Madre), da cui dipendere e da cui farsi condurre per mano. E’ l’uomo che finalmente riesce a camminare da solo, poggiandosi esclusivamente sulle sue gambe.

………………………..

  1. S. Questa riflessione abbisogna, però, di una postilla.

Infatti, c’è l’ateo che si libera di Dio, ma conserva il rapporto con “l’altro da sé”; l’ateo che non ha più bisogno di figure genitoriali perché è oramai diventato adulto, quindi genitore di se stesso.

E, però, c’è anche l’ateo che si è ribellato a Dio, che ne rifiuta l’autorità paterna, genitoriale, ma non se ne è veramente liberato, ne è ancora succube, nonostante le apparenze, perché ha introiettato i suoi dettami, divieti, censure e lo vive come un incubo, un Super Ego ancora ben presente, anzi opprimente.

Quest’ateo è come l’adolescente ribelle, che si rivolta capriccioso contro l’autorità dei suoi genitori, ma in fondo ne è ancora molto dipendente. E’ l’adolescente non ancora diventato adulto e che, forse, non lo diventerà mai. E’ l’adolescente che si è fermato (Freud avrebbe detto “fissato”) nella terra di mezzo, non ha mai attraversato fino in fondo il guado che separa la fanciullezza dall’età adulta.

E’ l’adolescente che vive e coltiva un futile e sciocco senso di onnipotenza, senza coscienza dei propri limiti e della propria condizione mortale. E’ l’uomo destinato a vivere in uno stato di perenne frustrazione nello scontro tra la sfrenata ambizione del proprio Ego, fattosi centro del Mondo, e la dura realtà, sempre pronta a ridimensionarlo.

Non è questo, però, a me sembra, l’ateismo di cui parlava Feuerbach. E’, semmai, (forse) quello esaltato e vissuto da Nietzsche. Che non a caso, a mio avviso, ha avuto un esito esistenziale disastroso, di natura psichiatrica: la perdita del senno, la pazzia.

Giovanni Lamagna

Il narcisismo e il suo superamento.

In ognuno di noi è presente, fin dalla nascita o, perlomeno, fin dai primi anni della nostra vita, una componente narcisista, che è una potente spinta all’azione, forse la più potente che esista.

Ora questa componente è vero che costituisce l’energia necessaria, anzi indispensabile, per mettere in moto la nostra spinta ad agire. Ma è anche vero che, se resta la motivazione dominante di essa, la inquina (e a volte gravemente) sia nelle sue modalità che nei suoi esiti finali.

Occorre, quindi, che noi lavoriamo (spiritualmente e psicologicamente: i due termini per me sono quasi sinonimi) sul nostro narcisismo.

E’ necessario che lo mettiamo in conto e che non ce ne sentiamo in colpa al punto da farcene paralizzare.

Ma è anche necessario che non ci arrendiamo passivamente ad esso, né tantomeno che ce ne crogioliamo, come se esso fosse l’equivalente omologo dell’assertività e della giusta volontà di affermare noi stessi.

Occorre che lavoriamo su noi stessi per purificare la motivazione iniziale del nostro agire (fatalmente e inevitabilmente narcisista) e farla coincidere il più possibile con una motivazione oggettiva, quasi impersonale, una specie di chiamata (vocatio) che ci viene rivolta dall’esterno a realizzare un determinato compito, anzi il compito stesso (complessivo) della nostra vita.

In questo modo usciamo da noi stessi, dal nostro Ego (inevitabilmente narcisista) e guardiamo al di fuori di noi, all’Alter Ego, che ci stimola e ci spinge all’azione.

Non perché questo ci fa belli, ci rende piacenti agli altri e ci rimanda il loro gradimento, il loro consenso o, addirittura, il loro amore.

Ma perché ciò è giusto, è bello, è vero, è utile in sé, a prescindere dal nostro immediato tornaconto, interesse, piacere immediato.

Nella consapevolezza, però, che, se è giusto, bello, vero e utile in sé, non può non esserlo, in fondo, anche per noi in quanto singoli individui.

In quanto ognuno di noi è parte di un tutto. E o si identifica con il tutto o non potrà mai stare veramente bene.

A pensarci bene sta proprio qui la differenza tra chi è narcisista e chi narcisista non è.

Il narcisista sente e pensa che il mondo coincida con il proprio Sé. Che al di fuori di sé non ci sia nulla. Perlomeno nulla che abbia una qualche importanza e valore.

Chi non è narcisista sa e sente che fuori di sé c’è tutto un mondo che è altro da sé. E che in fondo è suo interesse profondo non rimanere chiuso in se stesso, ma aprirsi il più possibile al mondo che è fuori di sé.

Fino a, in qualche modo e il più possibile, far coincidere se stesso con il mondo fuori di sé.

Il narcisista è indifferente al bene-essere dell’Altro da sé. Convinto, anzi, che non ci sia un Altro da sé.

Per lui vale la regola: “Pensa solo a te e fregatene degli altri”.

Il non narcisista è consapevole che non ci può essere il bene-essere per sé, se non in connessione e in comunione con l’Altro da sé.

Per lui vale la regola d’oro: “Non fare agli altri ciò che non vorresti gli altri facessero a te e fai agli altri ciò che vorresti gli altri facessero a te”.

Nessuno all’inizio della sua vita è in grado di applicare questa regola. Infatti, il bambino è naturalmente, strutturalmente narcisista.

E, forse, nessuno, sarà mai in grado di applicarla integralmente, fino in fondo, neanche da adulto.

Si può uscire dal narcisismo solo con l’educazione e con uno sforzo personale e graduale, figlio della consapevolezza che il narcisismo protratto oltre l’infanzia diventerebbe una vera e propria malattia.

Purtroppo alcuni rimangono narcisisti, quindi bambini, per tutta la loro vita. Manco si rendono conto che il loro infantilismo non ha più niente a che fare con la bellezza e il candore che sono propri dei bambini.

Giovanni Lamagna