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Linguaggio e contenuti.
La prosa di Sigmund Freud è – quasi sempre – di una chiarezza adamantina, esemplare.
Eppure è utilizzata per esprimere concetti niente affatto semplici, meno che mai banali, anzi spesso molto complessi.
Dovrebbe essere di lezione, quindi, per quanti fanno generalmente ricorso ad un linguaggio oscuro, anche per esprimere concetti tutto sommato abbastanza semplici o, addirittura, elementari.
Come se si compiacessero nel non essere compresi.
E come se l’acutezza, la profondità e la complessità dei contenuti si misurassero dal linguaggio poco chiaro o addirittura incomprensibile ai più.
© Giovanni Lamagna
Il nuovo, lo stesso, il diverso.
Sono pienamente d’accordo con Recalcati quando afferma che “il nuovo” e “lo stesso” non sono per forza di cose due concetti opposti, che debbano stare in antitesi.
Come, d’altra parte, “il nuovo” e “il diverso” non sono necessariamente sinonimi, non è scontato che vadano naturalmente e automaticamente sempre d’accordo.
Si può, infatti, trovare del “nuovo” nello “stesso”.
Mentre non è detto che si trovi sempre e davvero del “nuovo” nel “diverso”.
Fatta questa premessa, possiamo dire che è del tutto legittimo cercare le novità nella propria vita: questo fa parte del naturale, fisiologico bisogno di cambiare periodicamente pelle e dell’altrettanto naturale desiderio di arricchirsi umanamente, di crescere, di evolvere, di non restare fermi allo stesso palo per tutta la vita.
Cosa particolarmente vera, giusta, legittima, nelle relazioni, specie in quelle di coppia.
Non bisogna, però, cadere nell’illusione ingannevole che la novità la si trovi semplicemente cercando il nuovo; ad esempio, un nuovo partner.
Perché ci potremmo molto facilmente ritrovare con un partner nuovo molto simile, nelle sue caratteristiche psicologiche e, persino, in quelle fisiche, al partner vecchio, dal quale ci siamo separati per andare a vivere col nuovo.
Molto meno ingannevole e illusorio potrebbe essere il ricercare la novità, anzi le novità, all’interno dello stesso rapporto, anche se questo magari dura da anni.
La cosa è indubbiamente più faticosa e impegnativa per entrambi i partner di una relazione, ma molto meno a rischio di andare incontro a un (nuovo) fallimento.
Anche se, ovviamente, richiede una disponibilità continua, permanente, costante, alla ricerca, al rinnovamento e al cambiamento.
Richiede in altre parole che entrambi i partner siano persone evolutive, in cammino, disposte a rischiare, a mettersi in continua discussione; e non statiche, ferme, poltronare (oggi si direbbe “divaniste”), piccolo-borghesi, benpensanti, in cerca (solo) di rassicurazioni e conferme l’uno dall’altro.
© Giovanni Lamagna
L’arte può essere concettuale?
L’arte concettuale è, a mio avviso, un ossimoro, una contraddizione in termini.
In quanto, da che mondo è mondo, l’arte tende a trasmettere emozioni più che idee, concetti.
Anzi tende a trasmettere essenzialmente emozioni.
Le idee, semmai, sono solo veicoli per muovere emozioni.
Se voglio trasmettere un concetto, scrivo un pensiero, un articolo, un saggio, un trattato.
Non ambisco a fare un’opera d’arte.
© Giovanni Lamagna
La funzione dei pregiudizi
Tutti abbiamo, che ne siamo consapevoli o meno, dei pregiudizi.
Ovverossia una nostra conoscenza pregressa, una nostra visione del mondo, dei fatti e delle cose, che si è venuta formando nel corso del tempo, in base alla nostra esperienza e ai ragionamenti, alle riflessioni che l’hanno accompagnata, o che ci è stata trasmessa direttamente – noi del tutto inconsapevoli, prima ancora che acquistassimo “l’uso della ragione” – da coloro che ci hanno allevato e formato nei primi mesi ed anni della nostra vita.
Questa conoscenza pregressa – come ha sostenuto del resto, ben prima e molto più autorevolmente di me, un grande filosofo del 900, Hans Gadamer – costituisce, appunto, un pre-giudizio; inevitabile e imprescindibile rispetto alle nuove esperienze e alle nuove conoscenze che andremo a fare nel corso di tutta la nostra vita.
Queste nuove esperienze e queste nuove conoscenze manco sarebbero possibili se non avessimo questo bagaglio di conoscenze e di esperienze pregresse, accumulate nel corso del tempo; che costituiscono in un certo senso la griglia esperienziale e concettuale entro la quale sistemiamo le nuove conoscenze e le nuove esperienze.
A questo punto però – bisogna dire – la forma del pre-giudizio può assumere due caratteristiche completamente diverse, anzi opposte: negative le une, positive le altre.
C’è il pre-giudizio rigido, ottuso, che non si lascia scalfire e mettere in discussione minimamente dalle nuove conoscenze ed esperienze. Che nega quindi i nuovi dati di realtà, che di fronte perfino all’evidenza di fatti e conoscenze che invalidano i precedenti, non cambia, non vuole cambiare giudizi, opinioni e convinzioni precedenti.
E c’è il pre-giudizio, che, pur partendo (come è inevitabile) da conoscenze, concetti, esperienze formatisi e consolidatisi in precedenza, sulla base dei quali valutare i nuovi dati da apprendere, si lascia mettere in discussione, si fa plasmare da essi, sino ad arrivare in certi casi a invalidare e quindi modificare i precedenti giudizi e le precedenti convinzioni.
In questo secondo caso il pre-giudizio svolge una funzione positiva e costruttiva, consente l’evoluzione delle conoscenze e del nostro adeguamento al mondo nel quale viviamo: è la base di partenza di ogni nostra nuova conoscenza.
Nel primo caso il pre-giudizio svolge, invece, una funzione solo e del tutto difensiva e, quindi, negativa; è di freno alla ulteriore conoscenza, ne impedisce l’evoluzione, la crescita e l’eventuale, necessario, aggiornamento.
© Giovanni Lamagna
Maestro, concetti e stile di vita.
Un maestro spirituale non trasmette solo e innanzitutto dei concetti.
Ma anche, anzi in primo luogo, un modo di vivere.
@ Giovanni Lamagna
Cosa è il Nirvana per me?
Il Nirvana, di cui parla Buddha, è lo stadio finale della meditazione.
Buddha così lo definisce “… un luogo ove non è acqua né terra, né luce né aria, né infinità spaziale né infinità razionale, in cui non c’è nessuna cosa di alcun genere e nemmeno il superamento simultaneo di rappresentazione e non rappresentazione… non è né un quaggiù né un lassù né un sito intermedio…”
Potremmo dire, dunque, è un “non-luogo”.
Ma un “non-luogo” è una pura astrazione della mente, a cui non corrisponde nessuna realtà oggettiva.
Se, infatti, vi corrispondesse qualche realtà, sarebbe un luogo come gli altri e, quindi, non potrebbe avere le caratteristiche che il Buddha attribuisce al Nirvana: quelle di un “non-luogo”.
Ma il “non-luogo”, dunque, altro non è che un’astrazione concettuale, non-esistente nella realtà, una pura invenzione della mente.
La quale, quindi, non sfugge (né potrebbe sfuggire) a se stessa.
Come, invece, Buddha auspica che avvenga nello stato del Nirvana, cioè nello stadio supremo della meditazione.
Anche a questo stadio, dunque, la mente c’è.
Se non ci fosse (la mente), anche nello stato del Nirvana, Buddha non potrebbe nemmeno descriverlo e parlarcene. Per quanto in negativo, cioè per sottrazione di attributi concreti e materiali.
Il Nirvana, allora, è da intendersi piuttosto come uno stato dell’anima. Dell’anima pacificata, che ha superato (più che la mente e i concetti, che dalla mente sono inseparabili) il turbinio delle passioni e l’inquietudine che da queste derivano.
L’anima che non ha affatto “lasciato andare il desiderio” (come pure Buddha invita a fare nella seconda delle sue nobili verità), ma non se ne lascia neppure condurre o, peggio, trascinare.
E’ lo stato dell’anima che accoglie i desideri (e non potrebbe fare altrimenti, senza perseguire – se lo facesse – una pulsione di morte), ma li guida sapiente, con discernimento, come l’auriga esperta i suoi cavalli, anche i più selvaggi e riottosi.
Giovanni Lamagna
Tutti gli uomini hanno una vita spirituale?
Vorrei rispondere qui ad alcune domande, che mi sono state poste talvolta e sulle quali ho riflettuto spesso e approfonditamente.
Tutti gli uomini hanno una vita spirituale, per il fatto stesso di essere uomini? La spiritualità è una caratteristica intrinseca, naturale, quindi spontanea, della umanità, che non ha perciò bisogno di essere attivata e di seguire determinate procedure (starei per dire determinati protocolli), in qualche modo standard?
O la vita spirituale abbisogna di un atto di volontà specifico, è il frutto di una scelta, che non tutti gli uomini fanno o sono in grado di fare, presuppone cioè un certo stile di vita, che non è intrinsecamente e spontaneamente connaturato all’essere umano, per cui ci sono uomini che vivono una vita spirituale ed altri che non la vivono?
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La mia prima risposta a queste domande è: dipende; dipende da che cosa intendiamo per spiritualità e per vita spirituale.
Se per vita spirituale intendiamo la semplice vita delle emozioni o, tutt’al più, una ricca e intensa vita emozionale, allora, certo, tutti gli esseri umani, chi più e chi meno, hanno una loro vita spirituale.
Se per vita spirituale intendiamo l’emozione che si può provare di fronte ad un’alba o a un tramonto, di fronte ad un paesaggio particolarmente suggestivo, di fronte ad un’opera d’arte, di fronte alla bontà e alla generosità di un gesto, dinanzi ad una scoperta scientifica o ad un’intuizione filosofica, allora tutti gli esseri umani, chi più e chi meno, hanno una loro vita spirituale.
Anche se a questa affermazione si potrebbe obbiettare subito che pure gli animali vivono delle emozioni. Per quanto ad un livello di complessità e di intensità indubbiamente diverso da quello di cui sono capaci gli esseri umani.
Se, infatti, osserviamo gli animali, possiamo facilmente verificare che anche loro, al loro livello, incomparabile certo con il nostro, ma non strutturalmente dissimile dal nostro, sono capaci di vivere, sperimentare stati emozionali.
Ne possiamo dedurre quindi che la vita emozionale non è uno specifico degli uomini.
Per cui, se identificassimo la vita spirituale con la vita emozionale, dovremmo ricavarne che anche gli animali, sia pure ad un livello diverso dagli uomini, vivono una loro vita spirituale. Il che è quantomeno arduo da affermare.
Ancora. Se per vita spirituale intendiamo la vita della mente, della ragione, la cosiddetta vita intellettuale, allora possiamo senz’altro affermare che tutti gli uomini, anche se a livelli ovviamente diversi, hanno una loro vita spirituale.
E qui non vale neanche l’obiezione che abbiamo preso in considerazione prima a proposito delle emozioni nel mondo animale.
Perché, mentre possiamo riconoscere agli animali emozioni abbastanza simili a quelle umane, certo non possiamo riconoscere loro una vita intellettuale, neanche lontanamente paragonabile a quella degli uomini, anche del più rozzo intellettualmente parlando, del più ignorante e del più incolto degli esseri umani.
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E, però, qui si pone una questione: la vita spirituale si identifica con la vita delle emozioni? O con la vita della mente, dell’intelletto? O anche delle emozioni e dell’intelletto messi insieme, compresenti?
La mia risposta a queste domande è negativa: no, la vita spirituale è altra cosa dalla semplice vita emozionale; ed è altra cosa anche dalla stessa vita intellettuale, fosse anche la vita intellettuale più alta e più sublime, fosse anche la vita intellettuale di un Kant e di un Hegel, di un Freud o di un Marx o di un Einstein, per considerare solo alcuni dei più grandi pensatori dell’epoca moderna.
Ne consegue che per me la risposta alla domanda che mi sono posto all’inizio è la seguente ed è molto chiara, molto netta: no, io non penso che la vita spirituale sia connaturata a tutti gli esseri umani, che sia cioè un frutto spontaneo e naturale della stessa condizione umana.
Io penso che la vita spirituale sia il frutto non di una condizione già presente in natura, ma di un atto di volontà, di una precisa e consapevole scelta (di avviarsi in un percorso, di sposare un certo stile di vita), di una vera e propria conversione (metanoia) che alcuni uomini compiono ed altri uomini no.
Per cui, da questo punto di vista, ci sono uomini che vivono una vita spirituale ed altri no. E sia i primi che i secondi sono riconoscibili.
Ci sono alcuni fattori, alcuni elementi, alcuni tratti di personalità che li contraddistinguono e li rendono riconoscibili.
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Quali sono questi fattori, questi elementi, questi tratti di personalità? Provo a delinearne due o tre, quelli che mi sembrano i più essenziali, i principali.
Una persona che vive una vita spirituale è per me in primo luogo una persona che ha scelto, deciso di unificarsi, di trovare un’unità dentro di sé.
Unità, che per nessun uomo è un dato di partenza, perché nessun uomo nasce già interiormente unificato: tutti gli uomini in qualche modo, chi più e chi meno, nascono interiormente divisi, frammentati.
Il processo di unificazione interiore si avvia (se si avvia) solo ad una certa età, nella fase dell’adolescenza, quando si comincia a diventare adulti.
Ed è il frutto di una scelta, di una vera e propria decisione, che molti che hanno vissuto questa esperienza ricordano perfino nei particolari, nei tempi e nei luoghi in cui essa è avvenuta.
Perché è un’esperienza fortissima, anzi unica, in alcuni casi addirittura sconvolgente, in genere frutto o figlia di un vero e proprio insight o illuminazione interiore. Corrisponde potremmo dire ad una vera e propria seconda nascita.
Era ad essa, forse, che si riferiva Gesù quando pronunciò queste parole: “In verità, in verità io ti dico che se uno non è nato di nuovo, non può vedere il regno di Dio. Nicodemo gli disse: Come può un uomo nascere quand’è vecchio? Può egli entrare una seconda volta nel seno di sua madre e nascere? Gesù rispose: In verità, in verità io ti dico che se uno non è nato d’acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne, è carne; e quel che è nato dallo Spirito, è spirito. Non ti meravigliare se t’ho detto: Bisogna che nasciate di nuovo. Il vento soffia dove vuole, e tu ne odi il rumore, ma non sai né donde viene né dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito” (Giovanni; 3:3-8).
Qui non sto parlando di un’esperienza straordinaria (tipo la conversione di Paolo di Tarso fulminato e caduto da cavallo sulla via di Damasco) né di un’esperienza miracolosa o anche soltanto esoterica.
E neanche di un’esperienza legata necessariamente ad una scelta religiosa, mistica in senso classico. No, qui io penso ad un’esperienza e ad una scelta forte, importante, radicale, che segna la vita, ma del tutto ordinaria e laica.
Il risultato di questa scelta, di questa decisione, di questo insight, di questa illuminazione interiore, di questa vera e propria seconda nascita, è la che la vita di chi ne è stato protagonista cambia profondamente.
Certo non da un giorno all’altro, ma gradualmente, progressivamente. E, però, un giorno dopo l’altro, senza soste significative, ogni giorno di più.
Questa scelta segna un prima e un dopo, nel senso che ciò che prima era frammentato, disunito, a volte caotico e dispersivo, si unifica gradualmente, si ricompone. Al caos interiore di prima subentra un’armonia, sempre crescente, tra le varie parti di sé.
Le emozioni non contrastano più con gli impulsi istintuali e con i dettami dell’intelligenza. Impulsi istintuali, emozioni, sentimenti, idee, concetti si unificano tra di loro in un’armonia prima del tutto sconosciuta e via, via sempre più profonda e più completa.
Questa esperienza dona una pace e a volte perfino una gioia impagabili, diverse da tutte le altre, a cui non si è più disposti a rinunciare e a cui non si rinuncerebbe neanche in cambio dei più grandi tesori del mondo.
La persona che vive questa esperienza (in ciò consiste quella che io chiamo “vita spirituale”) è come se avesse trovato una potente leva con cui spostare il mondo o un filo rosso che oramai guiderà tutte le sue scelte e le sue azioni.
Una persona così, pertanto, non vive più insicura, incerta, confusa, come magari lo era prima, ma diventa assertiva, perentoria, decisa, senza per questo essere ottusa e intollerante al confronto con gli altri.
Al confronto con gli altri, però, arriva sempre con una sua posizione, disposta magari a metterla in discussione nel dialogo, ma mai a svenderla per qualche forma di timore reverenziale, di insicurezza cronica o di dipendenza dal giudizio altrui.
La vita spirituale, così intesa, è per sua natura e definizione un work in progress, un cammino, un pellegrinaggio, un viaggio, un percorso evolutivo.
Chi vive una vita spirituale, come qui la intendo io, è ogni giorno nuovo, diverso, non mastica mai lo stesso cibo, fa della sua vita un’avventura continua, è disposto al rischio, non ha paura delle novità.
Al contrario, chi non vive una vita spirituale, come la intendo io, (e a giudicare da quello che vedo attorno a me sono purtroppo la maggior parte degli esseri umani) è una persona quantomeno malinconica, spesso triste, talvolta depressa o, quantomeno, tendente alla depressione, o inquieta, agitata, confusa, vittima di indecisioni croniche e di dipendenza dagli altri, paurosa delle novità, incapace di affrontare i rischi che la vita comporta.
E’ una persona che si accontenta del già visto, che si muove sempre nello stesso orticello o cortile, che cerca (quando li cerca) rapporti rassicuranti e confortanti più che rapporti stimolanti ed eccitanti, che ha paura a guardare dentro di sé, per non affrontare i propri problemi, che anche quando si decide ad affrontarli in realtà fa finta di farlo.
E’ una persona che magari si lamenta della sua vita, ma poi non fa niente (o quasi niente) di serio per modificarla, trasformarla veramente, significativamente e in profondità. Dà a vedere o, meglio, mostra l’intenzione di voler cambiare, ma solo in apparenza, solo in superficie, perché in realtà non vuole cambiare nulla nella sostanza e in profondità.
Al modo del famoso principe del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che, non a caso, il suo autore intitolò “Il gattopardo”.
Giovanni Lamagna