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Gli uomini e il sesso.

Krishnamurti (ne “La quiete della mente”; Ubaldini Editore; pag. 152) si chiede: “… perché la società ha attribuito al sesso questa straordinaria importanza?”.

E subito dopo si interroga sulle “sanzioni religiose che ne derivano”, che tendono a porre degli argini all’esperienza di “piacere” e di “bellezza” che gli uomini collegano al sesso.

Voglio pormi queste stesse domande e provare a dare le mie risposte.

Quanto alla prima domanda la mia risposta è molto semplice, anche se duplice: 1) nel sesso gli uomini sperimentano forse il massimo del piacere fisico, emotivo e mentale, in certi casi anche spirituale, che è dato loro provare nella vita; 2) al sesso è collegata la sopravvivenza della specie, quindi la continuazione della vita stessa.

Ci può essere, dunque, un interesse superiore a quello che gli uomini provano normalmente per il sesso? Ci può essere, quindi, nella vita una realtà superiore al sesso, che sia più importante del sesso?

Sì, ci può essere; ma in qualche modo essa sarà sempre e comunque gemmazione della pulsione sessuale, una forma di filiazione da quella primaria, primordiale, che è il sesso; ne sarà, come ci hanno insegnato Freud e la psicoanalisi, una sua sublimazione.

In molti casi positiva, utile, necessaria, senza alternative: non si può certo passare tutto il proprio tempo a fare sesso; come minimo, oltre a fare sesso, bisognerà lavorare per procurarsi quanto è necessario a sopravvivere.

In altri casi negativa, inutile, addirittura dannosa, produttiva di malattie fisiche e mentali, nevrosi e in alcuni casi persino psicosi: quando si fa poco sesso o addirittura vi si rinuncia, perché si è incapaci – per timori inconsci, ma ben reali – di goderne.

Anche alla seconda domanda di Krishnamurti la mia risposta è semplice: gli uomini hanno sentito il bisogno (soprattutto attraverso le religioni) di imporsi delle sanzioni che limitassero la loro naturale e tendenzialmente sconfinata propensione verso il sesso, per il timore, la paura (che, ricordiamolo, non sono mai del tutto separabili dal piacere e dal desiderio) di esserne travolti, di non riuscire più ad occuparsi anche di altre cose nella vita, pur esse necessarie, anzi senz’altro più necessarie del sesso.

Pensiamo, ad esempio, alle necessità – anche solo quelle primarie, cui ho già fatto riferimento in precedenza – di procurarsi del cibo, una casa, degli abiti e, inoltre, di occuparsi dell’allevamento della prole, incapace da sola, nei primi anni di vita, di badare alla propria sopravvivenza.

C’era il rischio, dunque, per l’uomo che il sesso con la sua fortissima carica attrattiva, potesse essere vissuto come una sorta di canto delle sirene, di droga, che avrebbe potuto distrarlo da altre incombenze, indubbiamente meno o, in certi casi, per nulla seducenti, legate alla fatica del vivere; o, meglio, innanzitutto del sopravvivere.

Di qui la necessità di crearsi degli argini, persino degli ostacoli, di imporre dei limiti alla fortissima pulsione del sesso, di non farlo diventare una sorta di ossessione, come invece rischiava di diventare, se gli uomini non si fossero dati delle norme e non avessero previsto delle sanzioni collegate alla mancata osservanza di queste norme.

Come possiamo verificare in alcuni casi patologici, anche oggi, perfino nelle nostre odierne società, ipermoderne ed evolute, molto razionali e culturalmente avanzate, addestrate ormai a controllare (forse addirittura fin troppo!) gli istinti primari e persino le emozioni e i sentimenti.

Accade anche oggi, infatti, che il sesso in alcuni individui (nevrotici o, addirittura psicotici) diventi una pulsione maniacale, che norme e sanzioni sociali, tuttora vigenti, non riescono ad arginare, generando quindi disagi, più o meno acuti; nel soggetto malato innanzitutto, ma anche nel contesto ambientale in cui egli vive ed opera.

© Giovanni Lamagna

La nostra ambivalenza nei confronti della pulsione sessuale.

Nel quarto capitolo de “Il disagio della civiltà” Freud elenca molti motivi che dimostrano la tendenza della civiltà a limitare la vita sessuale delle persone.

Mi pare però che non ne abbia elencato uno che a me sembra fondamentale e forse è addirittura quello principale.

A mio avviso nei confronti della pulsione sessuale gli esseri umani hanno un atteggiamento ambivalente.

Da un lato ne sono fortemente attratti; perché, “avendo sperimentato che l’amore sessuale (genitale) … procurava (loro) il massimo soddisfacimento”, arrivano a identificare nel piacere sessuale il modello di riferimento di ogni altro piacere; e quindi della stessa felicità; per cui tendono a porre “l’erotismo genitale al centro della vita stessa”. (p. 237; Bollati Boringhieri; 2019)

Dall’altro ne diffidano, ne hanno quasi timore e persino panico; proprio perché la pulsione sessuale è dotata di una tale forza (e, mi verrebbe di dire, persino violenza) che gli uomini evidentemente temono di esserne travolti, perdendo il controllo di sé stessi; col rischio paventato di dissiparsi e quasi disintegrarsi, psicologicamente, se non fisicamente.

Questo sembra spiegare, d’altra parte, perché, da sempre, “eros” è associato a “thanatos”.

E perché i francesi (ma non solo i francesi) denomino l’orgasmo con l’espressione “petit mort” (piccola morte), come a significare che nell’orgasmo il soggetto in qualche modo si dissolve, perde i suoi confini o quantomeno la consapevolezza di essi, esattamente come quando sopravviene la morte.

La conseguenza di questo asserto è – a mio avviso e sia detto a latere del ragionamento fin qui svolto – che l’ambivalenza nei confronti della vita sessuale può essere superata, forse, solo da chi ha instaurato un buon rapporto con la morte, da chi ha fatto pace con la morte.

E chi possiamo dire ha fatto pace con la morte?

Solo chi ad un certo punto della sua vita ha avuto il coraggio di guardarla bene in faccia e di accettare e amare la vita, nonostante la morte.

Anzi di godersi le gioie che la vita – pur alternandole a molte e indubbie sofferenze e persino angosce – è in grado di donare.

In altre parole, chi è in grado di godersi la vita nonostante l’incombere della morte.

In altre parole ancora, forse solo chi ha imparato ad affrontare la morte, il “timor panico” che si accompagna all’idea della morte, non avrà paura di abbandonarsi senza resistenze alla “piccola morte”, a quel “sentimento oceanico”, di pura estasi, che l’orgasmo comporta.

Al contrario chi, per una ragione o per l’altra, con l’idea della morte (e col “timor panico” che essa comporta) non ha ancora fatto i conti molto probabilmente avrà delle resistenze a vivere una vita sessuale senza troppe ambivalenze.

Anzi, in certi casi estremi e nevrotici, ne avrà persino un vero e proprio rifiuto.

Paradosso dei paradossi, visto che, come sostiene giustamente Freud, l’amore sessuale procura il massimo soddisfacimento possibile per un essere umano e che l’erotismo sessuale è normalmente associato all’idea stessa di piacere.

© Giovanni Lamagna

Vivere erotico

Il nostro modo di vivere (mi verrebbe di definirlo “il nostro stile di vita”) si muove sempre in continuità con la nostra pulsione sessuale.

Non potrebbe, d’altra parte, essere altrimenti: la libido è la nostra pulsione fondamentale, quella che dà la spinta e l’energia primarie all’intera nostra vita.

C’è, però, un modo di vivere che è, in buona sostanza, una rimozione o, nel migliore dei casi, una sublimazione totale della pulsione sessuale.

Anche se ne è del tutto inconsapevole o solo molto parzialmente consapevole.

E’ un modo di vivere che distorce, in qualche modo potremmo anche dire “perverte” la pulsione sessuale.

C’è, poi, un altro modo di vivere, che, invece, si muove in perfetta continuità e coerenza con la pulsione sessuale, pure quando fa tutt’altro dal sesso.

Tutto quello che fa è un modo di vivere il sesso con altri mezzi e in altre forme.

E ne è, per giunta, pienamente consapevole, lo fa con piena lucidità.

Questo secondo modo di vivere io lo definisco “erotico”, anche quando non è esplicitamente sessuale.

Il primo, invece, è il contrario, la negazione di quello che intendo per e definisco “un modo erotico di vivere la propria vita”.

Ovviamente, per quanto mi riguarda, va preferito questo secondo modo di vivere: è di gran lunga più sano, oltre che più felice.

© Giovanni Lamagna

Qual è lo scopo ultimo della specie umana?

Nella risposta ad una lettrice che, su “D la Repubblica” del 31 agosto 2019, si (e gli) chiedeva: “Se l’individualità dell’uomo deve sacrificarsi per la sopravvivenza della specie, qual è lo scopo ultimo della specie? Se il dolore è necessario alla morte dell’individuo per far sì che la specie si perpetui, qual è il significato ultimo di questa?”, Umberto Galimberti così scriveva:

Lei affonda il suo sguardo sul tema più tragico della condizione umana, proprio laddove confliggono le due soggettività che ci costituiscono: la soggettività dell’Io che tutti conosciamo e che dirige la nostra esistenza a partire dai suoi progetti, le sue ideazioni, i suoi sogni; e la soggettività della specie, del tutto indifferente ai progetti, le ideazioni, i sogni dell’Io.

Infatti, ciò che alla specie importa è solo la procreazione che garantisce la sua continuità; per questo ci fornisce di due pulsioni: quella sessuale per la procreazione e quella aggressiva per la difesa della prole.

A che scopo?, lei si chiede. Per nessun scopo, perché, come scrive Schopenhauer: “Il soggetto del gran sogno della vita è uno soltanto: la volontà di vivere”.

Per questo senza ragione cresce l’erba sul ciglio della strada se appena, appena c’è un po’ di terra, senza ragione germoglia un fiore se un po’ di rugiada ne inumidisce il seme.

Ora sia le domande della lettrice che la risposta di Galimberti mi inducono alcune riflessioni che vorrei provare ad articolare.

Non ci sono dubbi che la domanda posta dalla lettrice sia, come dice Galimberti, la domanda centrale del pensiero filosofico. La domanda, del resto, che si pongono un po’ tutti gli uomini, chi più e chi meno, in maniera più o meno cosciente, più o meno approfondita.

Galimberti alla domanda risponde in maniera molto netta e drastica: la volontà di perpetuarsi della specie (quella che Schopenhauer chiama “la volontà di vivere”) non ha alcuno scopo: è semplice volontà di autoriproduzione.

E, secondo me, dà una risposta corretta: anch’io penso che la vita non abbia alcuno scopo meta-fisico, alcuno scopo, cioè, che sia fuori di sé, oltre la vita.

Non c’è, infatti, un’altra vita dopo di questa, un’altra vita (ultraterrena) che dia uno scopo e una giustificazione a questa terrena, come vogliono farci credere la maggior parte delle religioni che abbiamo conosciuto nella storia.

E però mi chiedo: la risposta di Galimberti (che del resto è simile a quella molto nota di Schopenhauer) è del tutto corretta, nel senso che esaurisce le possibilità di risposta alla domanda della lettrice? E qui mi viene qualche dubbio.

Dubbio, che si esplicita, d’istinto prima che di ragione, nella seguente affermazione: no, a mio avviso, la risposta di Schopenhauer e di Galimberti non è completa; e, quindi, non soddisfa del tutto la nostra ragione. Provo ad argomentarla.

La “volontà di vivere” di cui parlano sia Schopenhauer che Galimberti, al livello dei singoli individui, cioè delle singole soggettività umane, non è solo una qualsivoglia volontà di vivere, ma una volontà di vivere ben precisa: è “la volontà di vivere bene” (il più possibile bene), di essere felici (o il più possibile felici).

Non è una pura e semplice volontà di sopravvivenza, comunque sia.

Questo vuol dire che nella natura stessa della specie è inscritto qualcosa in più del semplice istinto alla procreazione, cioè alla propria autoriproduzione: quasi una terza pulsione, dopo quella sessuale e quella aggressiva.

E’ inscritto qualcosa che punta al bene-essere (e non solo, quindi, al semplice essere) e prelude pertanto alla cultura, che è l’insieme della forme che la specie umana ha inventato, per consentirsi, garantirsi, il massimo bene-essere possibile.

Sono inscritte, quindi, già nel programma filogenetico della specie, nel suo DNA: i miti, le religioni, la mistica, la filosofia, la morale, la politica, l’arte, la scienza…

La specie umana, dunque e per concludere, è ben di più che semplice “volontà di vivere”. E’ anche (e io direi soprattutto) volontà di produrre cultura, che potremmo definire anche “volontà di trascendersi”.

L’uomo è, quindi, fatto non solo per generare opere della carne, per procreare (come si limitano a fare gli altri animali), ma anche per generare opere dello spirito.

E questo dà un valore aggiunto e una motivazione ulteriore alla sua “volontà di vivere” su questa terra: quella di “ex-sistere” e non solo “sistere”.

© Giovanni Lamagna

Il sentimento oceanico e lo stato di innamoramento.

Nella risposta ad un lettore, che lo interpellava sul tema della “felicità”, su “D la Repubblica” del 7 luglio 2018, Umberto Galimberti così scriveva:

Ma forse la felicità risiede, come ipotizza Freud, in quel “sentimento oceanico” che ciascuno di noi ha sperimentato in quella condizione prenatale nel ventre della madre, da cui un giorno fuoriuscimmo per nascere come individui separati. Questa primitiva felicità può essere recuperata per brevi istanti, come scrive Freud: “Al culmine dell’innamoramento, il confine tra l’Io e l’oggetto minaccia di dissolversi. Contro ogni attestato dei sensi, l’innamorato afferma che l’Io e il Tu sono una cosa sola ed è pronto a comportarsi come se davvero fosse così”.

Vorrei riprendere ciascuna delle affermazioni di Galimberti e sottoporle a qualche riflessione critica.

1.Anche io penso che quel poco o molto di felicità che è dato sperimentare a ciascuno di noi esseri umani abbia parecchio a che fare con l’esperienza del “sentimento oceanico”.

Per conseguenza ritengo che chi non ha mai fatto esperienza di questo sentimento (o ne abbia fatta ben poca e in maniera solo episodica e saltuaria) non abbia sperimentato una quota parte importante (in qualità e grandezza) della felicità possibile agli umani.

  1. Ma che cos’è il “sentimento oceanico”?

L’espressione “sentimento oceanico” si deve a Romain Rolland (scrittore francese, premio Nobel della Letteratura nel 1915), al quale Freud aveva inviato il suo scritto “L’avvenire di un’illusione”, dedicato al tema della “religione”.

Dopo aver letto il testo di Freud, Rolland gli invia una lettera, in cui, tra l’altro, così scrive:

… mi sarebbe piaciuto vederti fare un’analisi del “sentimento religioso spontaneo” o, più esattamente, del “sentimento religioso”, che è … il fatto semplice e diretto del “sentimento dell’eterno” (che può benissimo non essere eterno , ma semplicemente senza limiti percepibili, e come “oceanico”, per così dire).

Per Rolland il sentimento religioso è, dunque, un sentimento spontaneo che ci fa sentire parte di un tutto, è un’esperienza mistica più che l’adesione a un credo dogmatico, ad una fede specifici.

Infatti, Rolland non si riconosce in nessuna Chiesa, manco in qualcuna delle chiese cristiane. Egli si sente molto più semplicemente un uomo in cammino, alla ricerca della verità.

Freud è umanamente colpito dalla persona di Rolland e dalle cose che dice e scrive lo scrittore francese. Tanto è vero che produce una delle sue opere più famose, “Il disagio della civiltà”, proprio per replicare alle affermazioni di Rolland e dopo aver meditato sugli stimoli intellettuali da lui ricevuti.

Ma le sue resistenze intellettualistiche e le sue difese razionalistiche sono troppo forti. Egli tende a ridurre quindi il sentimento oceanico, di cui gli ha parlato l’amico, a nient’altro che il “sentimento egoico primitivo”, che prova il bambino durante la fase dell’allattamento, quando egli non è ancora in grado di distinguere il suo sé dal corpo (in particolare dal seno) della madre.

Il “sentimento oceanico” è dunque per Freud nient’altro che la memoria preservata di un sentimento primitivo, quindi una forma di regressione ad uno stadio immaturo della psiche, immaturo perché non differenziato.

Ho già avuto modo di muovere delle obiezioni a questo modo di leggere il sentimento oceanico da parte di Freud, in un mio precedente scritto. Per cui non ci ritorno.

Quello che voglio qui sinteticamente ribadire è che per me il “sentimento oceanico” è cosa ben diversa da quel “sentimento egoico primitivo”, che “ciascuno di noi ha sperimentato nella condizione prenatale”, cioè nei nove mesi di incubazione “nel ventre della madre, dal quale un giorno fuoriuscimmo per nascere come individui separati”.

  1. Mi interessa, invece, qui approfondire l’accostamento (citato da Galimberti) che fa Freud tra il sentimento oceanico e lo stato dell’innamoramento.

Per Freud, al culmine dell’innamoramento, il confine tra l’Io (del soggetto innamorato) e il Tu (dell’oggetto d’amore) quasi si dissolve, così come nel sentimento oceanico il confine dell’Io (del soggetto che lo prova) quasi si dissolve nel Tutto (dell’Universo e dell’Eterno, a detta di Rolland). Questo rende le due esperienze assimilabili (a detta di Freud).

Io colgo le indubbie analogie tra le due esperienze (che sono però più apparenti che sostanziali), ma vedo anche le differenze, che sono molto più profonde e significative delle analogie.

Quali sono queste differenze?

La prima differenza sta nel fatto che quello dell’innamoramento è un sentimento primario, primitivo, non particolarmente elaborato, che sorge spontaneo, in maniera istintiva, non ha bisogno di particolari predisposizioni. Potremmo anche definirlo un sentimento grezzo, alla portata di tutti, a prescindere dal livello socioeconomico, da quello culturale e da quello spirituale.

Il sentimento oceanico è, invece, un sentimento, che, per quanto possa sorgere spontaneo anch’esso, richiede, invece, almeno un minimo di preparazione e di predisposizione. Non tutti, insomma, sono in grado di sperimentarlo, ma solo quelli che hanno un cuore puro e libero, che hanno abbandonato un certo numero e un certo tipo di difese.

Freud, ad esempio, pur essendo indubbiamente un uomo di intelligenza, sensibilità e cultura superiori, non fu mai in grado di sperimentarlo, se non forse in un’occasione molto particolare, quella della sua visita al Partenone di Atene nel 1904. E, senz’altro, non è un caso che egli citi questa esperienza, raccontandola nei suoi particolari, in una delle sue lettere a Romain Rolland.

La seconda differenza sta nel fatto che il sentimento di innamoramento si manifesta in genere in forme molto vivaci, se non proprio violente. Chi è innamorato vive una fase emotiva di forte, anzi eccezionale, eccitazione. I sensi ne sono esaltati. La pulsione sessuale, che in genere è il primo motore dell’innamoramento, è alla sua massima potenza.

Il sentimento oceanico, all’incontrario, si associa a sensazioni di pace e serenità profonde. Non è un sentimento forte e violento come l’innamoramento, ma un sentimento disteso e diffuso, che, anziché eccitare ed esaltare, pacifica ed ammorbidisce i sensi. Nel sentimento oceanico la pulsione sessuale, se non proprio spenta, è quantomeno “addomesticata” e sublimata.

Terza differenza. Il sentimento dell’innamoramento è tutto concentrato su un oggetto specifico, molto preciso, particolare e individualizzato: “l’oggetto piccolo”, avrebbe detto Lacan. Io mi innamoro proprio di quel corpo, di quello sguardo, di quel carattere, di quella intelligenza, di quella particolare persona e non di altre.

Nel sentimento oceanico è, invece, proprio l’oggetto specifico, particolare, individualizzato, che viene meno, perché ciò che viene in evidenza, ciò con cui si ha la sensazione di essere in contatto è il Tutto, nel quale le singole parti sfumano, si dileguano, perdono quasi completamente importanza e significato.

La quarta differenza è forse la più importante. Il sentimento di innamoramento ci porta a stravedere per l’altro. L’altro si pone al centro di tutte le nostre emozioni e i nostri pensieri. L’altro è presente spiritualmente anche quando è assente fisicamente. L’altro è non solo il primo, ma per certi aspetti l’unico, il solo. Sull’altro proiettiamo i nostri desideri e le nostre attese primordiali. L’innamoramento è, insomma, una specie di delirio, che tende a deformare l’oggetto del suo amore, anche lo divinizza, anzi proprio perché lo divinizza.

Il sentimento oceanico, invece, esalta le nostre capacità di guardare il mondo a 360°. Non si concentra su nessun oggetto o aspetto di esso in particolare, ma mira a cogliere quanti più oggetti della realtà (e aspetti di essi) è possibile nel loro insieme, con uno sguardo panoramico e ad ampio spettro. Di conseguenza riesce a vedere gli oggetti non solo nella loro individualità e singolarità, ma anche nelle loro interazioni e influenze reciproche. La sua visione del reale è, quindi, la più obiettiva e meno deformata possibile.

A voler approfondire l’argomento, sarebbe forse possibile rintracciare anche altre differenze tra il sentimento dell’innamoramento e il sentimento oceanico. Ma credo che le quattro da me individuate bastino e avanzino per evidenziare a sufficienza la radicale diversità e irriducibilità tra i due sentimenti, pur nelle loro (superficiali) analogie.

Giovanni Lamagna