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Sul senso religioso della vita.

Ho già sostenuto altre volte la mia ferma convinzione che o come Umanità nel suo complesso (quantomeno, nella sua larga maggioranza) recuperiamo il senso religioso dell’esistere e, quindi, un atteggiamento religioso verso la vita, oppure andremo a sbattere di brutto e ci sfracelleremo, andremo incontro – presto o tardi (a mio avviso, più presto che tardi) – ad una sorta di suicidio collettivo.

Ho altresì già avuto modo di chiarire che, quando parlo di “senso religioso dell’esistere” non mi riferisco tanto (o perlomeno non solo) al sentimento di fede professato dalle religioni classiche e tradizionali, fede cioè nell’esistenza di una Entità metafisica, ultraterrena, e in una seconda vita (questa volta eterna) dopo la morte.

Ma mi riferisco piuttosto a quel sentimento religioso di cui parlava anche Einstein quando affermava: “La religione del futuro, sarà una religione cosmica. Trascenderà il Dio personale e lascerà da parte dogmi e teologia. Abbracciando insieme il naturale e lo spirituale, dovrà essere fondata su un senso religioso che nasce dall’esperienza di tutte le cose, naturali e spirituali, come facenti parte di un’unità intelligente.”

Qui vorrei pertanto meditare su che cosa sia concretamente, in termini del tutto laici e quindi esclusivamente psicologici e per niente teologici, l’esperienza di questo sentimento religioso, a quali atteggiamenti interiori e comportamenti esteriori esso corrisponda, per rintracciare ed evidenziarne le caratteristiche principali.

Prima di iniziare questa riflessione vorrei però chiarire anche una seconda cosa e, subito, in premessa: quando io parlo di senso religioso dell’esistenza, mi riferisco a qualcosa che ha a che fare più con la sfera dei sentimenti che con quella delle idee, più col cuore che con la testa.

In altre parole il sentimento religioso è per me, come tutti i sentimenti del resto, qualcosa di prerazionale o di arazionale, che nulla o ben poco ha a che fare con la ragione.

Credo che la ragione non lo possa contraddire, smentire, delegittimare; non è quindi un sentimento irrazionale o, addirittura, isterico, nevrotico, folle; ma credo che non lo possa manco avvalorare, allo stesso modo di come avvalora, dimostra, in maniera inconfutabile, una scoperta scientifica o, perfino, una “verità” filosofica.

E’ piuttosto (come ho già accennato in precedenza) un’esperienza, che si impone (o non si impone) all’uomo (o, meglio, ad alcuni uomini) con una sua evidenza apriori e non richiede quindi dimostrazioni di tipo razionale.

Può imporsi ben presto, sin dall’infanzia, quando il bambino nasce e cresce in un ambiente caratterizzato da un senso religioso dell’esistere; in questo caso tale sentimento il bambino lo assorbirà molto probabilmente dalla famiglia in cui è nato e cresciuto e dal contesto fisico, sociale e culturale che lo circonda.

O può imporsi ad un certo punto della vita, a causa di circostanze, esperienze e fattori, in genere molto forti, quasi al limite del trauma (anche se qui il trauma è da intendersi in senso positivo), che determinano una metanoia, una conversione, quindi un cambiamento radicale del modo di vedere e di vivere, della persona che ne è oggetto.

Una parola che di solito definisce questa sorta di trauma è quella di “grazia”: l’uomo raggiunto e trasformato da questa esperienza non ne ha nessun merito; comincia a sperimentare il sentimento religioso per una sorta di destino a lui benigno, senza che egli abbia fatto niente o molto poco per meritarlo; quindi per una “grazia ricevuta”.

Ovviamente (sia ben chiaro!) qui, per me, il termine “grazia” non ha e non vuole avere nessuna connotazione miracolistica e soprannaturale; per come la intendo io è una esperienza del tutto umana, terrena, laica; che ad alcuni uomini viene donata, offerta, regalata, e ad altri no (perciò “grazia”); anche se il clima psicologico, ambientale, in cui il soggetto, che ne viene raggiunto, è cresciuto, è stato allevato, certamente la favorisce, la predispone.

E veniamo finalmente al dunque: quali sono allora le caratteristiche essenziali di questo sentimento religioso, attorno alla cui definizione sto girando già da un bel po’ di parole e di frasi, senza averla però ancora articolata e resa chiara, per quanto sia possibile rendere chiara un’esperienza che si può cogliere nella sua essenza solo nella misura in cui la si esperimenta direttamente come singolo, come persona?

Cerco qui di seguito di indicarne alcune in maniera il più possibile chiara e perfino schematica.

1.La prima, anzi la più essenziale, caratteristica è data, a mio avviso, da quello che potremmo definire un sentimento di fiducia di base nella vita.

Quel sentimento che ci porta a pensare e a dire, se non sempre, almeno nella maggior parte delle nostre giornate, che la vita – nonostante tutto, nonostante i suoi dolori (fisici e spirituali), le sue paure, le sue angosce, i suoi fantasmi, che a volte ci assalgono – vale la pena di essere vissuta.

Ciò detto, si potrebbe pensare allora che tale sentimento di fiducia di base possa essere sperimentato e vissuto solo da coloro che la fortuna ha voluto godessero di una buona salute fisica e di una situazione esistenziale esteriore tutto sommato agiata, favorevole, in grado di soddisfare almeno i loro principali bisogni, quelli primari: il cibo, una casa, un lavoro, degli affetti, una buona salute fisica…

Ma l’osservazione, anche superficiale, dell’umanità che ci circonda ci dice invece che una tale supposizione non è del tutto vera; perché ci sono persone che nascono con malattie congenite, anche gravi, oppure si ammalano seriamente ad un certo punto della loro vita, persone che vivono in situazioni logistiche e materiali difficili, a volte estremamente precarie, ai limiti della sopravvivenza, e che però hanno voglia e desiderio di vivere, hanno una innata fiducia nella vita.

Mentre ce ne sono altre, alle quali apparentemente non è mancato e non manca nulla o, perlomeno, non sono mancate e non mancano le cose principali, e che però, al contrario delle prime, in teoria meno fortunate, non godono dello stesso desiderio e della stessa gioia di vivere; sono afflitte in altre parole da una sfiducia più o meno grave nell’esistenza, soffrono del male di vivere, non vedono luce nella loro vita, vivono in uno stato di fondamentale cupezza e depressione interiore.

Questo premesso, le prime sono per me persone predisposte a vivere il senso religioso dell’esistenza e spesso lo sperimentano come se fosse una condizione naturale, ovvia, scontata; le seconde no, non sanno manco dove stia di casa; anzi si meravigliano, stupiscono che altri possano viverlo e, perciò, molto spesso li irridono, quasi fossero vittime di un atteggiamento superficiale, irrazionale, alienante, illusorio, infantile, in altre parole nevrotico (Freud, ad esempio, fu una di queste persone).

2. La seconda, fondamentale, caratteristica di quello che io definisco “il senso religioso dell’esistenza” è data dall’atteggiamento di cura, potremmo anche dire di custodia, del sentimento di fiducia di base nella vita.

Questo sentimento, infatti, non è qualcosa che si può dare come scontato “vita natural durante”, una volta che lo si è sperimentato.

Una persona può nascere e vivere i suoi primi anni di presenza nel mondo con questo sentimento e poi perderlo ad un certo punto della sua vita; perderlo come, appunto, si perde (o si può perdere) la fede, quella che comunemente chiamiamo “fede in Dio” e che io invece chiamo molto più semplicemente e laicamente “sentimento di fiducia di base nella vita”.

E’ un sentimento, che, come ho già detto, viene ricevuto per grazia, quindi senza alcun merito, ma che va però curato, coltivato, perché esso si mantenga vigoroso e vitale, anche in mezzo alle prove a cui inevitabilmente il cammino della nostra esistenza ci sottoporrà.

Altrimenti è destinato a perdersi, ad essere smarrito.

E come va custodito? Con un atteggiamento di raccoglimento interiore, che accompagnerà tutte le nostre azioni e i nostri movimenti nel mondo.

Lo stesso, immagino, che caratterizzò Maria, la madre di Gesù, a partire dal messaggio dell’angelo che le annunciò la prossima nascita del figlio: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Vangelo di Luca; 1, 38).

Quello stesso atteggiamento che la caratterizzerà dopo la visita dei pastori alla mangiatoia, nella quale Gesù era nato, che, esultanti, “riferirono ciò che del bambino era stato detto loro” (Vangelo di Luca; 2, 17): “ed ella custodiva tutte queste cose, meditandole in cuor suo” (Vangelo di Luca; 2, 19).

Infatti, per vivere, sperimentare, il senso religioso della vita, non basta averlo ricevuto in dono, come grazia e senza alcun merito, ad un certo punto della propria esistenza, ma bisogna essere capaci, in seguito, dopo il momento di illuminazione iniziale, di averne cura, di mantenerlo in essere e anzi, possibilmente, farlo crescere.

Altrimenti esso è destinato gradualmente a spegnersi, rifluire, e, infine, fatalmente morire.

3. A questo punto occorre allora chiedersi: quali sono le condizioni per non disperdere questo sentimento, che ad un certo punto, lo ripeto: per grazia ricevuta, ci ha raggiunto?

La prima è quella di mantenersi in contatto con la voce interiore cha ha cominciato a parlarci, quando questo sentimento ci si è manifestato la prima volta.

In ciascuno di noi, infatti, esiste un Altro da sé, quello che qualcuno ha chiamato “il vero Sé”, una sorta di Maestro interiore, che è in grado, se ci mettiamo nella disposizione giusta, che è quella dell’ascolto, di indicarci la strada da seguire, quella più adatta alle nostre inclinazioni e alla nostra natura, quella che ci permetterà di realizzare, se la seguiremo, le nostre potenzialità, cioè i talenti di cui Madre Natura ci ha dotato.

Spesso noi manco sappiamo dell’esistenza di questa Realtà interiore, presi come siamo dal tran tran quotidiano, dal chiasso che ci circonda, dalla folla alla quale tendiamo nella maggior parte dei casi a conformarci, come fanno le pecore col loro gregge.

Se però abbiamo la fortuna di venirci in contatto e impariamo ad ascoltarne la voce, dapprima molto fioca e sottile, poi un poco alla volta sempre più chiara e distinta, capiamo, ci rendiamo conto di aver ricevuto un’enorme grazia e allora ci impegneremo a non mollarla più, a seguirne sempre più fedelmente i consigli e la guida.

4. La seconda condizione è molto legata alla prima, anzi ne è la premessa; è quella di imparare ad apprezzare il silenzio e la solitudine, almeno in alcuni momenti della nostra vita, e dedicare ad essi con costanza una sorta di rituali quotidiani, isolandoci dalla folla e dal chiasso, che di solito, almeno oggi, circonda la nostra vita.

Chi ha paura della solitudine e del silenzio, chi è incapace di sottrarsi ai rumori e a volte al vero proprio frastuono delle relazioni, dei mass media, dei contatti sui social, ben difficilmente riuscirà a mantenersi in contatto con la voce interiore – quand’anche ad un certo momento, si fosse da lui fatta sentire – e di coltivare, quindi, il senso religioso del vivere.

5. Ovviamente la pratica religiosa (anche se intesa nel senso che sto qui descrivendo) non è fatta solo di contemplazione, ovverossia di contatto e relazione col proprio mondo interiore; per quanto questa ne sia la condizione basica.

La pratica religiosa richiede, infatti, scelte e modi di agire, che comporteranno uno stile di vita, anche esteriore, che sia conseguente, coerente col proprio vissuto interiore.

Richiede una vera e propria “metanoia”, cioè la conversione ad un modo di vivere completamente diverso da quello che caratterizza la gran parte degli uomini che questo senso religioso del vivere non ce l’hanno.

Richiede la scelta di valori morali e sociali radicalmente alternativi a quelli comuni e normalmente diffusi.

6. Quali?

Innanzitutto un distacco dai beni materiali.

Non nel senso (come una certa – per me cattiva – ascesi tende a consigliare) della rinuncia radicale a tutti i beni materiali, di qualsiasi natura essi siano, in favore di una povertà assoluta.

Ma nel senso di una pratica della sobrietà, cioè del non attaccamento ai beni materiali e, soprattutto, della non avidità nella loro conquista e possesso.

La sobrietà, in altre parole, come il punto di giusto equilibrio tra la rinuncia assoluta ai beni in favore della povertà e l’avidità smodata dei beni in cerca della ricchezza.

L’uomo religioso per definizione non ambisce alla ricchezza, anche se non per questo ama o predilige la povertà.

L’uomo religioso vive una vita materiale in condizioni di sobrietà.

7. La pratica religiosa richiede altresì un certo distacco non solo dai beni materiali, ma anche dagli affetti e dalle passioni.

Non certo nel senso della rinuncia a sperimentare i sentimenti della fraternità, dell’amicizia e dell’amore erotico.

Ma nel senso di non farsi da essi dominare e travolgere in nome della brama di possesso, che genera fatalmente gelosie e invidie, sentimenti oltremodo tossici e ben poco spirituali.

L’uomo religioso è per me colui che è in grado di sperimentare pienamente e caldamente tutta la gamma dei sentimenti umani verso i suoi simili, ma non si attacca alle persone e non mira a che esse si attacchino a lui.

E’ in grado in altre parole di sperimentare la singolarità e allo stesso tempo l’universalità dei rapporti con gli altri suoi simili; senza farsene ingabbiare e monopolizzare; ma allo stesso tempo in maniera calda e profonda.

8. La pratica religiosa richiede, infine, la rinuncia alla propria volontà egoica ed egocentrica, intesa come puro arbitrio e assoluta libertà di scelta, al di fuori di ogni limite e confine.

Nel senso reso bene da alcune affermazioni bibliche, che, ben interpretate, possono essere recepite anche da uno come me che intende dare al “sentimento religioso” una valenza del tutto laica e umanistica.

Ne cito solo due: “… sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.” (Vangelo di Giovanni; 6, 38); e “… non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.” (Paolo; Lettera ai Galati; 2, 20)

Beninteso questa decentramento della propria volontà non comporterà che l’uomo religioso si faccia schiavo di qualcuno o di qualcosa; richiederà però la consapevolezza profonda che egli non è la misura di tutte le cose e l’obbligo a rispondere e ad obbedire alla voce interiore, che ad un certo punto della sua vita lo ha raggiunto e che gli indicherà e illuminerà, momento per momento, la via da seguire.

9. In altre parole lo stile di vita dell’homo religiosus – anche nel senso del tutto laico (e spero sufficientemente chiaro) che qui ho inteso dargli – sarà caratterizzato da un senso di profonda umiltà, dedizione e devozione.

Umiltà nel senso di consapevolezza di non essere lui l’autore e il padrone del proprio destino, ma di esserne solo strumento o, tutt’al più, coautore.

Dedizione ai valori della fiducia, della speranza nel futuro (di cui si sentirà responsabile costruttore in prima persona) e dell’amore fraterno e universale.

Devozione alla chiamata e alla guida interiore costituite dal Maestro spirituale che lo abita e che abita ognuno di noi, anche se e quando non ne siamo consapevoli.

© Giovanni Lamagna

Il tema del consenso nei regimi scopertamente autoritari

Nel suo libretto “Gramsci” (Tascabili economici Newton; 1996) Antonio A. Santucci afferma quanto segue: “Nel caso dei regimi scopertamente autoritari, il problema della verità risulta in fondo secondario. Infatti, per definizione, dittatori e gruppi oligarchici non si curano di guadagnare il consenso dei ceti dominati. Per lo più non mentono neppure, non badano a nascondere i loro interessi e scopi. Possono persino esibire con sincerità prevaricazioni e intenti tirannici, a fini di propaganda e a monito degli oppositori, giacché comandano mediante la coercizione violenta. Le forze democratico-borghesi inclinano invece a camuffare la reale natura di interessi sociali ed economici contrapposti. Occultano quindi la verità, allo scopo di ottenere un consenso passivo, spacciato per libera adesione o addirittura sostegno partecipativo.” Concordo solo molto parzialmente con questa valutazione.

Certamente i “regimi scopertamente autoritari” “comandano (essenzialmente e primariamente) mediante la coercizione violenta”, mentre quelli democratico-borghesi tendono a conquistare il consenso delle masse subalterne, in primis camuffando e distorcendo la reale natura dei rapporti di classe, quindi ingannando e occultando la verità (in epoca contemporanea soprattutto attraverso i mass media).

Non sono d’accordo, invece, che il tema/obiettivo del consenso (per quanto distorto e passivo, ottenuto cioè con l’inganno) si ponga solo per i regimi democratico-borghesi e non anche per quelli apertamente autoritari.

Perché penso che nessun regime (neanche quello più ferocemente autoritario e dotato di ampi e sofisticati strumenti repressivi) possa reggersi alla lunga senza una qualche forma di consenso.

Sono convinto, insomma, che anche le dittature più “solide ed efficienti” si debbano porre il problema del “consenso dei ceti dominati” e che non possano affidarsi solo e semplicemente agli strumenti repressivi e prevaricatori.

Nessun regime autoritario sarebbe in grado, infatti, di reggere all’urto e alla ribellione della gran parte della popolazione sottomessa, laddove venisse meno il consenso dato al regime in forme più o meno passive, più o meno esplicite.

Per questo (e non a caso) l’arma della propaganda fa parte della strumentazione tipica a cui fanno ricorso i regimi autoritari, anche quelli più scopertamente tirannici, per ottenere un minimo di consenso o, quantomeno, di non attiva ed esplicita opposizione.

Ne sono stati conferma importante il regime fascista in Italia, quello nazista in Germania e quelli comunisti nei paesi dell’Europa dell’Est, per citare solo tre esempi del secolo appena trascorso.

Fin quando questi regimi hanno avuto una base ampia e possiamo pure dire sostanzialmente maggioritaria di consenso, essi hanno tenuto. Anche se avevano indubbiamente bisogno per reggersi anche di un mostruoso apparato repressivo.

Quando questa base di consenso è venuta meno, per una molteplicità e varietà di fattori, essi sono miseramente crollati, nonostante l’enorme e mostruoso apparato repressivo che ancora continuava a supportarli.

© Giovanni Lamagna

Piccolo villaggio e villaggio globale

L’avvento della società di massa ha determinato (paradossalmente) una crescita esponenziale dell’anonimato e, per conseguenza, della privacy nei rapporti reali tra le persone.

“Privacy”, parola – tanto per cambiare – inglese, bella ed elegante, che in realtà significa il più delle volte “solitudine” nera e, spesso, cupa “disperazione”.

Per fare un solo esempio, la vita delle persone e la natura delle loro relazioni nelle metropoli sono totalmente diverse rispetto a quelle del piccolo villaggio, dove tutti sanno tutto degli altri, non c’è praticamente privacy e vige sovrano il pettegolezzo.

E però (guarda un po’!) al pettegolezzo reale, interpersonale, caratteristica dei rapporti vis a vis, si è sostituito il pettegolezzo virtuale dei mass media, soprattutto dei talk-show, specie dei cosiddetti “reality”.

I mass media hanno costituito così un villaggio globale, nel quale paradossalmente vigono le stesse regole del piccolo villaggio: assoluta mancanza di privacy; chiacchiericcio e pettegolezzi continui.

Giovanni Lamagna

Perché i più rinunciano a realizzare il loro potenziale.

3 aprile 2016

Perché i più rinunciano a realizzare il loro potenziale.

La psicologia umanistica e quella transpersonale sostengono (e, a mio avviso, con molta ragione) che la maggior parte delle persone realizza al massimo il 30% del proprio potenziale umano.

E questo perché preferisce “dormire” (in senso metaforico, ovviamente) o, nella migliore delle ipotesi, campare in uno stato di mezza veglia o mezzo sonno.

Che si manifesta in mille forme. Qui ne indico solo alcune, quelle che mi sembrano le più eclatanti e diffuse:

– una scarsa concentrazione e attenzione alla realtà (tanto è vero che almeno una parte degli incidenti – ad esempio, le cadute – di cui siamo vittima possono essere attribuiti a questo modo di vivere);

– una inclinazione a razionalizzare, a vivere in una dimensione prevalentemente o puramente mentale, intellettuale;

– una incapacità ad emozionarsi;

– all’opposto, una tendenza ad essere succubi delle emozioni, incapaci di controllarle e di gestirle;

– il ricorso alle droghe, da quelle più leggere a quelle più pesanti;

– il sottoutilizzo del proprio senso critico, l’accontentarsi di sposare idee prese in prestito dai mass media o, peggio, il ricorso agli stereotipi e ai luoghi comuni;

– lo scarso senso civico;

– il disinteresse a partecipare alla convivenza civile attraverso un impegno politico attivo.

Viene da chiedersi: perché? perché la maggior parte degli esseri umani propende a vivere così? (Dire “sceglie” di vivere così sarebbe un ossimoro, contraddittorio con la premessa da cui sono partito).

Perché propende a vivere così, dal momento che in questo modo si perde – con tutta evidenza – il meglio?

Un po’ come succederebbe a un viaggiatore che restasse per tutto il tempo del viaggio a dormire nell’albergo dove ha trovato alloggio o camminasse per le strade e i luoghi che andasse a visitare con gli occhi socchiusi, non del tutto aperti.

Ci deve essere una risposta a questa domanda. Che cosa spiega un tale atteggiamento?

L’unica risposta che riesco a trovare è che la realtà fa paura, vedere le cose come stanno provoca ansia e, in qualche caso, perfino angoscia.

Avere consapevolezza (per fare solo un esempio, quello più estremo) che la nostra vita, per quanto bella e soddisfacente, si concluderà inevitabilmente, prima o poi, con la morte, può ingenerare perfino terrore e, quindi, fuga da tale consapevolezza, rimozione di questo pensiero.

Inoltre stare sempre concentrati, vivere cioè pienamente l’attimo presente, comporta una fatica, uno sforzo, almeno all’inizio, quando non si è abituati a farlo.

Ecco allora che, per difendersi dalla paura, dall’ansia e dall’angoscia, per evitare lo sforzo dell’impegno e vincere la pigrizia, si preferisce campare in uno stato di incoscienza o di semi-coscienza, in una condizione di indolente torpore.

Ovviamente in questo modo ci si protegge (forse) dalla paura, dall’ansia e dall’angoscia (anche se queste poi spesso si manifestano in altre forme e per altre vie: insoddisfazione, noia, disgusto, nausea, mancanza di empatia, incapacità di entrare in relazione profonda con gli altri, apatia, rinuncia all’eros, astenia o, perfino, impotenza sessuale, depressione più o meno profonda).

Allo stesso modo si evitano sforzi e fatiche (anche se, poi, paradossalmente spesso si è stanchi lo stesso).

Ma, nello stesso momento e in pari grado, ci si impedisce di godere appieno di tutte le cose belle della vita o, meglio, delle cose migliori della vita.

Che richiedono, per essere apprezzate, lo sguardo vigile, l’orecchio attento, la mente sveglia, l’animo aperto, un impegno attivo e costante, anche se faticoso.

Giovanni Lamagna