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Il tema del consenso nei regimi scopertamente autoritari
Nel suo libretto “Gramsci” (Tascabili economici Newton; 1996) Antonio A. Santucci afferma quanto segue: “Nel caso dei regimi scopertamente autoritari, il problema della verità risulta in fondo secondario. Infatti, per definizione, dittatori e gruppi oligarchici non si curano di guadagnare il consenso dei ceti dominati. Per lo più non mentono neppure, non badano a nascondere i loro interessi e scopi. Possono persino esibire con sincerità prevaricazioni e intenti tirannici, a fini di propaganda e a monito degli oppositori, giacché comandano mediante la coercizione violenta. Le forze democratico-borghesi inclinano invece a camuffare la reale natura di interessi sociali ed economici contrapposti. Occultano quindi la verità, allo scopo di ottenere un consenso passivo, spacciato per libera adesione o addirittura sostegno partecipativo.” Concordo solo molto parzialmente con questa valutazione.
Certamente i “regimi scopertamente autoritari” “comandano (essenzialmente e primariamente) mediante la coercizione violenta”, mentre quelli democratico-borghesi tendono a conquistare il consenso delle masse subalterne, in primis camuffando e distorcendo la reale natura dei rapporti di classe, quindi ingannando e occultando la verità (in epoca contemporanea soprattutto attraverso i mass media).
Non sono d’accordo, invece, che il tema/obiettivo del consenso (per quanto distorto e passivo, ottenuto cioè con l’inganno) si ponga solo per i regimi democratico-borghesi e non anche per quelli apertamente autoritari.
Perché penso che nessun regime (neanche quello più ferocemente autoritario e dotato di ampi e sofisticati strumenti repressivi) possa reggersi alla lunga senza una qualche forma di consenso.
Sono convinto, insomma, che anche le dittature più “solide ed efficienti” si debbano porre il problema del “consenso dei ceti dominati” e che non possano affidarsi solo e semplicemente agli strumenti repressivi e prevaricatori.
Nessun regime autoritario sarebbe in grado, infatti, di reggere all’urto e alla ribellione della gran parte della popolazione sottomessa, laddove venisse meno il consenso dato al regime in forme più o meno passive, più o meno esplicite.
Per questo (e non a caso) l’arma della propaganda fa parte della strumentazione tipica a cui fanno ricorso i regimi autoritari, anche quelli più scopertamente tirannici, per ottenere un minimo di consenso o, quantomeno, di non attiva ed esplicita opposizione.
Ne sono stati conferma importante il regime fascista in Italia, quello nazista in Germania e quelli comunisti nei paesi dell’Europa dell’Est, per citare solo tre esempi del secolo appena trascorso.
Fin quando questi regimi hanno avuto una base ampia e possiamo pure dire sostanzialmente maggioritaria di consenso, essi hanno tenuto. Anche se avevano indubbiamente bisogno per reggersi anche di un mostruoso apparato repressivo.
Quando questa base di consenso è venuta meno, per una molteplicità e varietà di fattori, essi sono miseramente crollati, nonostante l’enorme e mostruoso apparato repressivo che ancora continuava a supportarli.
© Giovanni Lamagna
Piccolo villaggio e villaggio globale
L’avvento della società di massa ha determinato (paradossalmente) una crescita esponenziale dell’anonimato e, per conseguenza, della privacy nei rapporti reali tra le persone.
“Privacy”, parola – tanto per cambiare – inglese, bella ed elegante, che in realtà significa il più delle volte “solitudine” nera e, spesso, cupa “disperazione”.
Per fare un solo esempio, la vita delle persone e la natura delle loro relazioni nelle metropoli sono totalmente diverse rispetto a quelle del piccolo villaggio, dove tutti sanno tutto degli altri, non c’è praticamente privacy e vige sovrano il pettegolezzo.
E però (guarda un po’!) al pettegolezzo reale, interpersonale, caratteristica dei rapporti vis a vis, si è sostituito il pettegolezzo virtuale dei mass media, soprattutto dei talk-show, specie dei cosiddetti “reality”.
I mass media hanno costituito così un villaggio globale, nel quale paradossalmente vigono le stesse regole del piccolo villaggio: assoluta mancanza di privacy; chiacchiericcio e pettegolezzi continui.
Giovanni Lamagna
Perché i più rinunciano a realizzare il loro potenziale.
3 aprile 2016
Perché i più rinunciano a realizzare il loro potenziale.
La psicologia umanistica e quella transpersonale sostengono (e, a mio avviso, con molta ragione) che la maggior parte delle persone realizza al massimo il 30% del proprio potenziale umano.
E questo perché preferisce “dormire” (in senso metaforico, ovviamente) o, nella migliore delle ipotesi, campare in uno stato di mezza veglia o mezzo sonno.
Che si manifesta in mille forme. Qui ne indico solo alcune, quelle che mi sembrano le più eclatanti e diffuse:
– una scarsa concentrazione e attenzione alla realtà (tanto è vero che almeno una parte degli incidenti – ad esempio, le cadute – di cui siamo vittima possono essere attribuiti a questo modo di vivere);
– una inclinazione a razionalizzare, a vivere in una dimensione prevalentemente o puramente mentale, intellettuale;
– una incapacità ad emozionarsi;
– all’opposto, una tendenza ad essere succubi delle emozioni, incapaci di controllarle e di gestirle;
– il ricorso alle droghe, da quelle più leggere a quelle più pesanti;
– il sottoutilizzo del proprio senso critico, l’accontentarsi di sposare idee prese in prestito dai mass media o, peggio, il ricorso agli stereotipi e ai luoghi comuni;
– lo scarso senso civico;
– il disinteresse a partecipare alla convivenza civile attraverso un impegno politico attivo.
Viene da chiedersi: perché? perché la maggior parte degli esseri umani propende a vivere così? (Dire “sceglie” di vivere così sarebbe un ossimoro, contraddittorio con la premessa da cui sono partito).
Perché propende a vivere così, dal momento che in questo modo si perde – con tutta evidenza – il meglio?
Un po’ come succederebbe a un viaggiatore che restasse per tutto il tempo del viaggio a dormire nell’albergo dove ha trovato alloggio o camminasse per le strade e i luoghi che andasse a visitare con gli occhi socchiusi, non del tutto aperti.
Ci deve essere una risposta a questa domanda. Che cosa spiega un tale atteggiamento?
L’unica risposta che riesco a trovare è che la realtà fa paura, vedere le cose come stanno provoca ansia e, in qualche caso, perfino angoscia.
Avere consapevolezza (per fare solo un esempio, quello più estremo) che la nostra vita, per quanto bella e soddisfacente, si concluderà inevitabilmente, prima o poi, con la morte, può ingenerare perfino terrore e, quindi, fuga da tale consapevolezza, rimozione di questo pensiero.
Inoltre stare sempre concentrati, vivere cioè pienamente l’attimo presente, comporta una fatica, uno sforzo, almeno all’inizio, quando non si è abituati a farlo.
Ecco allora che, per difendersi dalla paura, dall’ansia e dall’angoscia, per evitare lo sforzo dell’impegno e vincere la pigrizia, si preferisce campare in uno stato di incoscienza o di semi-coscienza, in una condizione di indolente torpore.
Ovviamente in questo modo ci si protegge (forse) dalla paura, dall’ansia e dall’angoscia (anche se queste poi spesso si manifestano in altre forme e per altre vie: insoddisfazione, noia, disgusto, nausea, mancanza di empatia, incapacità di entrare in relazione profonda con gli altri, apatia, rinuncia all’eros, astenia o, perfino, impotenza sessuale, depressione più o meno profonda).
Allo stesso modo si evitano sforzi e fatiche (anche se, poi, paradossalmente spesso si è stanchi lo stesso).
Ma, nello stesso momento e in pari grado, ci si impedisce di godere appieno di tutte le cose belle della vita o, meglio, delle cose migliori della vita.
Che richiedono, per essere apprezzate, lo sguardo vigile, l’orecchio attento, la mente sveglia, l’animo aperto, un impegno attivo e costante, anche se faticoso.
Giovanni Lamagna