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La libertà (3).
In cosa consiste (per me) la libertà dell’uomo?
Non tanto nella possibilità di fare ciò che egli vuole fare, ma nel poter non fare ciò che egli è chiamato a fare.
Nella possibilità di non realizzare il compito che la natura gli ha assegnato nella vita.
In altre parole, di non corrispondere al proprio destino.
La nostra libertà, dunque, non sta nel fare ciò che ci pare e piace.
Ma nel non fare (stupidamente, autolesionisticamente) ciò che il nostro daimon, il nostro Maestro interiore, ci ispira a fare.
In questo senso la libertà può essere definita anche come la possibilità che ci è data di perderci, di non realizzarci umanamente.
In altre parole di firmare la nostra condanna, con le nostre stesse mani.
© Giovanni Lamagna
Conclusioni (Genesi 2,7 – 3,24).
9 novembre 2014
Conclusioni (Genesi 2,7 – 3,24).
Sono giunto al termine del mio viaggio all’interno di Genesi 2,7 – 3,24. Tiro quindi qualche conclusione.
E’ del tutto evidente che il racconto biblico non è un racconto storico. Ma non è neanche una semplice favoletta. Rientra piuttosto nella categoria dei miti, cioè di quei racconti che, pur se sotto forma di “favola” (ci sono aspetti favolistici nel mito), tendono a dire cose che hanno a che fare con “i misteri del mondo, le sue origini, i suoi valori, il suo senso”, con la natura profonda dell’uomo, addirittura con i suoi archetipi, direbbero gli junghiani.
Come tutti i miti, quindi, esso non va preso alla lettera, ma interpretato. Anche alla luce della propria cultura, quindi al di fuori del contesto storico e/o geografico nel quale esso è nato ed è stato trascritto.
Quattro sono le figure principali che animano il mito di Genesi e due i contesti spaziali nei quali esse si muovono ed agiscono. Ogni figura interpreta un ruolo ed ha un significato. Anche i due contesti spaziali lo hanno.
Il primo attore del mito è Dio il Signore, che nel mito della Genesi, a mio avviso, rappresenta la Legge o, meglio, la cattiva coscienza dell’uomo, il Super Ego, la segnalazione del Limite, oltre il quale si corre il rischio della “caduta”, della perdizione e, quindi, della condanna.
Il secondo attore è il serpente, il quale, secondo la mia interpretazione, in questo mito rappresenta il Desiderio, che è il motore di ogni azione dell’uomo.
Rappresenta, quindi, secondo il linguaggio psicoanalitico, l’Es. Che, lasciato allo sbando, cioè senza il confronto con la Realtà e quello con la Legge, condanna l’uomo alla perdizione.
L’uomo, a mio avviso, si trova ad agire, a navigare sempre tra le opposte rive di Scilla, cioè della Legge, e di Cariddi, cioè del Desiderio.
Se rinuncia del tutto al Desiderio si condanna all’inazione e alla passività.
Se vive solo in funzione della Legge e della repressione del Desiderio, diventa triste, malinconico.
Se si abbandona del tutto al Desiderio, si condanna alla dissipazione e alla disintegrazione interiore.
Se ignora del tutto la Legge, non è in grado neanche di godere pienamente del desiderio, perché l’esistenza della Legge, lungi dal deprimere il desiderio, lo esalta.
Adamo, in questo mito, rappresenta l’Uomo ad uno stadio ancora “bambino”.
E non certo perché cede alla tentazione del suo desiderio. Non sarebbe stata, infatti, una scelta saggia obbedire a una Legge che lo voleva “felice” ma, al contempo, non libero e non consapevole. Quanto perché non sa assumersi la responsabilità dell’azione commessa. Addirittura la scarica sulla sua compagna Eva.
Adamo è dunque l’Uomo ancora bambino, che deve ancora crescere. E molto!
Eva dimostra maggiore maturità rispetto al compagno Adamo. Se non altro è più coraggiosa e intraprendente. Ma anche lei, di fronte alla voce della sua coscienza che la rimprovera, non sa assumersi fino in fondo la sua responsabilità e la scarica puerilmente sul serpente.
Anche Eva è dunque una donna ancora bambina, ha bisogno di crescere. E molto!
Entrambi, Adamo ed Eva, nel mito di Genesi rappresentano dunque l’Umanità nella fase, nello stadio che potremmo definire della fanciullezza. Ci vorranno ancora alcuni millenni perché l’Umanità arrivi allo stadio della sua piena maturità, impari cioè a riconoscere fino in fondo il proprio desiderio, ad affermarlo anche di fronte alla Legge, senza farsene del tutto inibire, ma senza neanche farsi del tutto travolgere da un desiderio senza Legge.
Oggi, forse, l’Umanità (almeno quella del mondo occidentale industrializzato evoluto) si trova nella fase della sua adolescenza, in una fase in cui ha imparato a riconoscere e ad affermare il suo Desiderio, ma prescindendo totalmente dalla Legge, come se questa non avesse più nessun senso e nessuna funzione.
I due contesti spaziali del mito a cui accennavo all’inizio sono quello dell’Eden, cioè del Paradiso in terra, e quello del Mondo alla sua alba, cioè alla preistoria dell’Umanità.
L’Eden, più che il Paradiso perduto, come vorrebbe farci intendere il Mito, è il Mondo come l’Umanità lo sogna, è l’Utopia, il Mondo come l’Uomo vorrebbe che fosse o diventasse. E’ il Mondo del futuro (auspicato e sognato) e non del passato (di cui si ha nostalgia e rimpianto).
Il Mondo della preistoria, il mondo nel quale l’Uomo è stato gettato a vivere quando è comparso sulla terra, è un luogo infame, inospitale, dove l’uomo è costretto a un duro lavoro per procurarsi il cibo e la donna è costretta alle doglie tremende (talvolta mortali) del parto per assicurare continuità alla specie.
Non è il luogo a cui l’Uomo è stato condannato dopo aver commesso una colpa, ma è il luogo a cui lo ha destinato la Natura, che proprio così lo ha pensato e creato.
Sarà l’Uomo, se vorrà e se ne sarà capace, (e nessun Dio al suo posto) a renderlo un posto meno inospitale e più a dimensione dei suoi desideri.
Ma, per realizzare il suo desiderio, l’Uomo ha bisogno di coltivare un sogno, anzi un’utopia. L’utopia che nel mito della Genesi è rappresentato dall’Eden, dal Paradiso Terrestre originario.
Mai esistito nella realtà, ma della cui Idea l’uomo ha bisogno per provare a costruirlo, per farlo diventare davvero realtà.
Giovanni Lamagna
Dio condanna la donna (Genesi 3, 16)
19 ottobre 2015
Dio condanna la donna (Genesi 3, 16)
3,16 Alla donna disse: «Io moltiplicherò grandemente le tue pene e i dolori della tua gravidanza; con dolore partorirai figli; i tuoi desideri si volgeranno verso tuo marito ed egli dominerà su di te».
Dopo la pena inflitta al serpente viene immediatamente quella inflitta alla donna. Anche qui Dio mostra di essere maschilista. Egli avalla, infatti, completamente l’ordine, la graduatoria delle responsabilità avanzata dal maschio: è la donna che ha indotto l’uomo alla infrazione della Legge. Quindi ella sarà condannata prima dell’uomo.
Due sono i castighi a cui viene condannata la donna ed entrambi sono collegati alla sfera della sessualità, il primo in modo diretto, il secondo in modo indiretto.
Il primo è, infatti, legato al desiderio sessuale stesso, renderà la donna “per sempre” dipendente dal maschio, da lui dominata, si potrebbe anche dire, con altre parole, sua schiava.
Qui però Dio dimostra di non saper prevedere esattamente l’evoluzione della Storia. Che indubbiamente per molto millenni dalla pronunzia di questa condanna è andata esattamente nelle direzione che aveva prevista il Signore Dio.
D’altra parte tutto il racconto biblico è figlio di una cultura rigidamente patriarcale e maschilista e non poteva che avere, quindi, una tale concezione del ruolo della donna e del rapporto maschio/femmina.
E, tuttavia, da qualche decennio la “storia”, prevista dalla condanna del Dio biblico, ha avuto una qualche significativa soluzione di continuità: il femminismo e. in genere, l’emancipazione femminile hanno segnato questa rottura. Oggi la donna (almeno presso certe culture e per quanto riguarda certe donne: quindi in forme e spazi ancora minoritari) non è più succube del maschio.
Questa rottura non è ancora giunta alle sue estreme conseguenze, non si è ancora consolidata, vive ancora di molte contraddizioni profonde (sia intrapsichiche che sociali), soprattutto non è diventata ancora fenomeno diffuso e di massa, ma è tuttavia potentemente avviata e, credo, non farà più ritorni all’indietro.
L’altro castigo è legato alla gravidanza e, soprattutto, al parto, che avverranno la prima nella fatica di nove lunghi mesi di gestazione e il secondo nel travaglio e nelle doglie.
Anche qui però la Storia sta cambiando abbastanza e in netta controtendenza con quello che lasciavano presagire le condanne divine. I progressi della scienza non hanno di certo eliminato del tutto le pene della gravidanza e del parto, ma le hanno rese, di sicuro, più gestibili e, almeno in parte, anche meno dolorose.
Segno che le condanne che Dio aveva promesso per l’eternità forse proprio eterne non sono destinate a rimanere. Segno che almeno sul carattere dell’eternità delle condanne da lui emesse Egli si era sbagliato. Aveva fatto i conti senza l’oste (del progresso scientifico).
(11, continua)
Giovanni Lamagna
L’uomo, l’istinto, gli animali.
20 giugno 2015
L’uomo, l’istinto, gli animali.
Il passaggio decisivo, nella scala evolutiva, dalle scimmie antropomorfe agli australopitechi, cioè ai primi ominidi, si ha quando allo schema di comportamento dettato dall’istinto (che caratterizzava le prime) si sostituisce quello (non più “dettato” ma) caratterizzato da una qualche forma, seppure molto primitiva ed embrionale, di consapevolezza (che contraddistingueva i secondi).
Questo passaggio comporta una vera e propria separazione tra le due specie, una sorta di salto evolutivo.
L’istinto, infatti, obbliga ad una specie di risposta automatica e, quindi, del tutto prevedibile di fronte ad un determinato stimolo proveniente dal contesto (sia esterno che interno) in cui ci si trova a vivere.
La consapevolezza parte comunque da una base istintuale, ma questa non detta più in maniera automatica e scontata gli atti e i comportamenti, bensì sottopone lo schema istintuale ad una sorta di filtro, in cui grande importanza ha il ruolo del cervello, che nel frattempo si è sviluppato con gli australopitechi ed è quindi capace di operazioni più complesse di quelle di cui erano capaci le scimmie antropomorfe, anche nelle loro forme più evolute.
La consapevolezza fa sì che, di fronte ad un determinato stimolo, la risposta non sia più automatica, scontata e prevedibile, ma possa essere diversificata. Compaiono quindi nello scenario della storia la possibilità della scelta e quella del “libero arbitrio” che la sottende.
Ciò rende, in qualche modo, l’uomo simile a Dio, in quanto lo fa in qualche misura (anche se molto relativa: qui ci sarebbe molto da approfondire) arbitro e creatore del proprio destino.
Ma rappresenta, in maniera speculare, anche una condanna: l’uomo da questo momento in poi si sente ancora facente parte della natura (con tutti i vincoli che questo comporta), ma allo stesso tempo se ne sente oramai separato, come se ne fosse stato definitivamente cacciato.
E’ forse questo il senso profondo del mito della cacciata dell’uomo dal Paradiso terrestre.
Ce lo spiega bene Erich Fromm nel suo “L’arte di amare”: “… ciò che caratterizza l’esistenza dell’uomo è il fatto di essere emerso dal regno animale, dall’istinto; esso ha dominato la natura, sebbene non l’abbandoni mai; ne fa parte e tuttavia, una volta staccato dalla natura, non può farvi ritorno; scacciato dal paradiso – vale a dire da uno stato di armonia con la natura – i cherubini con la spada di fuoco gli bloccherebbero la strada, se provasse a tornarci.”
Da questo momento in poi l’uomo è chiamato ad un destino superiore, perché, consapevole di sé, è diventato in qualche modo un essere libero, padrone del proprio destino.
Ma è preda anche della paura della sua nuova condizione, che gli mette angoscia: perché non trova più in sé l’armonia con la natura che prima era scontata. E’ chiamato ora a trovare una nuova armonia, un nuovo rapporto con la natura.
Da questo momento in poi la sua vita oscillerà sempre tra questi due bisogni opposti e contrastanti , ma ugualmente potenti: ritrovare le antiche sicurezze, l’armonia perduta da un lato; affrontare le nuove sfide che la vita gli pone, i rischi che esse comportano dall’altro; accontentarsi di quello che è, di come lo ha partorito “Madre Natura”, oppure andare oltre, svilupparsi, crescere, evolversi ancora, in un processo mai concluso una volta per tutte.
Giovanni Lamagna