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Dopo aver visto l’ultimo film di Nanni Moretti “Il sol dell’avvenire”.

Il cinema di Nanni Moretti (da “Ecce bombo” in poi, il primo film che ho visto di questo autore nel lontano 1978) è sempre stato un cinema di confessione, una sorta di diario per immagini o di auto-psicoanalisi davanti alla macchina da presa.

Questo film lo è forse ancora di più, in una forma ancora più dichiarata.

In primo luogo perché, non a caso, alcune sue scene sono dedicate alla psicoterapia della moglie del protagonista (Paola), attraverso la quale Giovanni (Moretti), il marito/regista, sembra quasi voler psicoanalizzare sé stesso.

E poi perché il film procede per spezzoni disordinati, messi in sequenza quasi a caso, come se fossero il frutto, il parto di libere associazioni, come avviene appunto (o dovrebbe avvenire) in una seduta di psicoanalisi.

Attraverso la psicoanalisi dell’autore, infine, noi spettatori siamo portati a nostra volta a psicoanalizzarci, a guardare dentro noi stessi, identificandoci coi o dissociandoci dai vari personaggi del film in maniera sempre emotivamente molto forte.

Da questa sorta di diario aperto o di autoanalisi pubblica – ovviamente confusi e a tratti perfino caotici – è possibile cogliere però, in maniera abbastanza chiara e distinta, i temi centrali del film, che sono poi quelli classici della filmografia di Moretti.

Innanzitutto l’amore e la politica, che a me appaiono posti sullo stesso piano, intrecciati in maniera che definirei indissolubile, essendo i temi che hanno caratterizzato un’intera generazione (quella che ha vissuto la sua giovinezza a cavallo tra gli anni ’60 e ‘70).

O almeno quella parte di generazione, che – pur essendo, a pensarci bene, minoritaria – ne ha comunque segnato il tratto caratteristico, potremmo anche dire storico: la commistione indissolubile tra pubblico e privato (“il personale è politico”).

Relativamente a queste due tematiche (che sono quelle centrali del film) una battuta mi ha colpito in un modo particolare; quella che pronuncia Margherita Buy (Paola la moglie di Giovanni, il regista) in una delle sedute con lo psicoanalista: “Io e Giovanni parliamo di tutto… di politica, di cinema, di lavoro… tranne che di noi due…”.

Come ad esprimere un bisogno, un desiderio ed allo stesso tempo confessare una difficoltà, un’incapacità, che sono non solo di Moretti uomo, ma forse quelle di una intera generazione.

Bisogni, desideri, difficoltà, incapacità, che, a loro volta, mi ricordano una canzone famosa di Giorgio Gaber, “Chiedo scusa se parlo di Maria”, le cui parole raccontano un problema molto simile a quello espresso da Paola/Buy nel film di Moretti:

Non è facile parlare di Maria… ci son troppe cose che sembrano più importanti… mi interesso di politica e sociologia… per trovare gli strumenti e andare avanti… mi interesso di qualsiasi ideologia… ma mi è difficile parlare di Maria…

Se sapessi parlare di Maria… se sapessi davvero capire la sua esistenza… avrei capito esattamente la realtà… la paura, la tensione, la violenza… avrei capito il capitale, la borghesia… ma la mia rabbia è che non so parlare di Maria…”

Il terzo tema che emerge dal film è una riflessione sul cinema stesso: il cinema di oggi e il cinema del passato, quello a cui Moretti chiaramente si ispira (a cominciare, ovviamente, da quello di Fellini, di cui nel film ricorrono almeno tre citazioni, parlate o semplicemente sceniche).

Il quarto è collegato al terzo: è il tema della violenza, che sembra essere diventato quello centrale di un certo cinema contemporaneo e che Moretti stigmatizza in maniera esplicita e molto forte: è una vera e propria istigazione alla violenza; la tragedia greca o Shakespeare (per citare alcune battute del film) non c’entrano nulla!

Il quinto mi sembra essere il tema della “terza età”: forse per la prima volta nei suoi film Moretti si vede e si riconosce come uomo oramai anziano, che non ha più molto tempo davanti a sé (chiara l’allusione a questo tema, quando dice ai suoi attori: “… bisogna accelerare, andare più veloci!”).

Moretti lo affronta con dolente malinconia, che a tratti sfiora persino la depressione; ma questa poi alla fine non la vince, perché ben presto in lui prevale il bambino, che canta, che balla, che ha occhi pieni di candido stupore, che gioca perfino a pallone da solo in una piazza vuota.

Infine, il tema di una visione (a voler usare un aggettivo eufemistico) disincantata del presente, che, non a caso, nella prima stesura della sceneggiatura ispira al regista-autore-del-film-nel-film una scena finale disperata, quasi nichilista, figlia evidente del suo “pessimismo della ragione”.

Che però, d’improvviso, al termine della lavorazione, quasi all’ultimo ciak, viene completamente ribaltata (è forse questo l’esito finale della psicoterapia pubblica a cui Moretti si è sottoposto?) da una visione del futuro, nonostante tutto sommato, illuminata dalla speranza.

Visione, io credo, figlia di un “ottimismo della volontà”, a cui evidentemente l’autore – nonostante tutto – pur senza ricorrere ad alcuna sdolcinatura retorica, non sa e non vuole rinunciare.

La citazione delle parole di Gramsci mi pare qui d’obbligo vista la presenza incombente nel film del grande (ed eretico) pensatore sardo, posta forse in contrapposizione all’altro grande (ma allineato e coperto) esponente del PCI, Togliatti.

Anche qui non a caso la scena finale del film, che si svolge lungo i Fori imperiali di una Roma luminosa e assolata, è una sorta di citazione della marcia del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, completamente rivisitata, però.

A marciare, infatti, sono gli attori storici di Moretti, quelli che hanno recitato in molti suoi film (cosa voleva dire Moretti qui: il suo addio al cinema? mi auguro di no!), e allo stesso tempo i politici (a cominciare da Togliatti) che sono stati protagonisti di sfondo del suo “film nel film”.

Marciano però sotto i vessilli degli sconfitti della Storia (si intravede – unico e, a mio avviso, non casuale – il ritratto di Trotsky), a voler significare che non è vero che la storia non si può fare con i “se” e i “ma”.

La tesi di Moretti (affermata in modo esplicito nel film) è che la Storia la si può giudicare e valutare (eccome!) con i “se”, se non altro perché questo potrebbe insegnarci qualcosa per il futuro e impedirci gli stessi errori (spesso tragici) compiuti in passato.

In conclusione – sembra dire Moretti – non si può e non si deve rinunciare alla speranza e alla lotta perché in futuro il sole (le utopie in cui molte generazioni avevano creduto) torni a splendere.

Magari apprendendo dalle lezioni che ci ha dato la Storia e correggendo gli sbagli, in certi casi i clamorosi abbagli, che quelle utopie contenevano e che hanno portato agli esiti disastrosi, che sono sotto gli occhi di tutti noi.

Come chiudere, infine, questa mia personale e direi intima recensione del film di Moretti, senza citare le canzoni che ne formano, in un certo senso, la colonna sonora (un classico morettiano!)?

In modo particolare: “Think”, cantata da Aretha Franklin e ascoltata in auto da Giovanni e Paola, che, quasi in trance, si mettono a ballare fanciullescamente (specie Moretti) sulle note della musica.

E poi “Sono solo parole” di Fabrizio Moro, cantata a squarciagola, come in un momento liberatorio, da tutta la troupe del film che Giovanni/Moretti sta girando; forse a significare che le parole della politica sono insignificanti e vane, quando sono staccate dalla vita reale, emotiva e sentimentale, anche privata, delle persone.

Quindi “Lontano, lontano” di Luigi Tenco, che compare in un momento topico della lavorazione del film, quando il vero tema si rivela essere (finalmente!) quello dell’amore e non quello politico; quando Barbara Boulova, con sfacciato e femminile candore, sbotta e dice “Chi se ne frega della politica, questo è un film d’amore!”.

E poi “La canzone dell’amore perduto” di Fabrizio De André, che fa da sottofondo malinconico alla separazione in atto tra Paola e Giovanni, che Paola è (oramai e, anche qui, finalmente!) decisa a realizzare (“il rapporto con te è troppo faticoso”), ma alla quale Giovanni, il marito/regista, invece, non vuole rassegnarsi.

E, infine, “Voglio vederti danzare” di Franco Battiato, che chiude la lavorazione del film a cui sta lavorando il regista Giovanni/Moretti in forma definitivamente liberatoria, quando la scena (prevista) dell’impiccagione del protagonista (Silvio Orlando) viene sostituita da un ballo collettivo degli attori, che diventa poi corteo lungo la via dei Fori imperiali.

© Giovanni Lamagna

Tre tipi di approccio al sesso.

22 aprile 2015
Tre tipi di approccio al sesso.
Ci sono tre tipi di rapporto col sesso.
Il primo è quello di chi considera il sesso una cosa schifosa e ne fa del tutto a meno. O quello di chi ne ha vergogna e cerca di evitarlo o farlo il meno possibile. Non solo non ne prova piacere, ma ne ha addirittura fastidio e, in certi casi, perfino ripugnanza.
Si tratta di una situazione estrema ed oggi ridotta a pochi e rari casi. Ma comunque di una situazione ancora oggi esistente, nella quale è possibile riconoscere persone (poche magari) a noi vicine o persone di cui abbiamo o abbiamo avuto conoscenza.
Il secondo è quello di chi ha piacere a vivere il sesso, ma non osa dirlo fino in fondo, manco a se stesso, come se avesse una qualche ritrosia a dire “Il sesso mi piace!”, un qualche pudore (in altre parole: vergogna).
E’ la situazione di chi pratica il sesso, anche con una buona frequenza e costanza, ma quasi come una realtà separata dal resto della propria vita, di cui si parla con qualche ritegno e molta riservatezza, che non si vuole, insomma, dare troppo a vedere. Il sesso deve rimanere una realtà recondita, nascosta. Fa parte della pura privacy, quella che si definisce “intimità”.
E’ la situazione di chi, per fare sesso, (io dico) ha bisogno di tenere gli occhi chiusi. Metaforicamente. Ma, spesso, anche materialmente. Perché in qualche misura ne prova vergogna. Vergogna mascherata da (e presentata) come senso del pudore.
E’ la situazione di chi per fare sesso ha bisogno di essere un po’ brillo, quasi in una situazione di trance, al limite tra la consapevolezza e l’inconsapevolezza, tra la veglia e il sonno.
Per questo secondo tipo di persone il sesso, in genere, deve essere una cosa mordi e fuggi. Se non proprio una sveltina, manco una cosa che duri troppo a lungo. Altrimenti diventa difficile reggerne la tensione emotiva, legata al senso di colpa.
Per questo tipo di persone in genere la nudità è un problema; si preferisce fare sesso scoprendosi il meno possibile.
Per questo tipo di persone nel sesso prevale nettamente la dimensione affettiva e sentimentale su quella fisica ed erotica. Per queste persone il sesso deve rassicurare più che scuotere, confermare più che turbare.
Esiste, infine, il terzo tipo di rapporto col sesso: quello di chi non solo non ha paura del sesso e non lo trova ripugnante; quello di chi non solo lo trova piacevole ma ha qualche ritrosia a parlarne, come se si trattasse di una realtà in qualche misura comunque scabrosa; ma quello di chi considera il sesso una dimensione centrale della propria vita, allo stesso livello di quella emotiva, di quella sentimentale, di quella affettiva, di quella intellettuale. Non semplicemente funzionale (e quindi subordinata) a queste.
E’ il rapporto di chi trova nel sesso una dimensione unica per conoscere se stesso e l’altro. E, quindi, non solo lo vive senza alcun imbarazzo, ma ha desiderio di raccontarlo, rivelarlo, manifestarlo nel suo agire quotidiano, nei suoi gesti ordinari di ogni momento. Non come forma di (sguaiato) esibizionismo, ma come naturale manifestazione di un suo modo naturale, complessivo e profondo di essere e, quindi, anche di apparire.
E’ il rapporto di chi è erotico non solo a letto, quando fa all’amore col suo partner, ma lo è sempre, in ogni momento della sua vita. E non solo non se ne vergogna, ma ne è fiero (potremmo dire “gay”), perché si sente, in questo suo modo di essere, una persona unificata e perciò liberata.
E’ il rapporto di chi attraverso il sesso entra in maniera privilegiata in contatto con la propria natura animale. E non solo non si vuole sottrarre a questo contatto, ma lo ricerca, come occasione unica e speciale di crescita psicologica e, quindi, umana.
E’ il rapporto di chi attraverso il sesso entra in contatto con la propria natura perversa e polimorfa (come Freud definiva la sessualità umana).
Perversa non nel senso usuale, deteriore e negativo, del termine. Ma perversa nel senso che non si limita a vedere nel sesso un atto puramente procreativo (come ha previsto la natura), ma una forma di linguaggio (del tutto speciale), quindi figlio e generatore di cultura.
Polimorfa perché, proprio dal momento che il sesso è una forma di linguaggio, esso non si realizza in una sola lingua, non usa una sola ortografia, una sola grammatica e una sola sintassi, ma può realizzarsi nelle forme più varie.
Ad una sola condizione: che il linguaggio che io voglio usare sia compreso e condiviso dall’altro/a. Che ci sia alleanza, complicità con l’altro/a.
Il sesso è un linguaggio del tutto particolare, che ci consente, più e meglio della parola parlata, di scendere negli abissi della nostra natura più oscura e quindi di fare luce sulle nostre ombre più inconfessabili.
Per chi lo intende in questo modo il sesso è un’avventura speciale, ogni volta trasgressiva, perché ogni volta alla ricerca del superamento del limite, del confine già raggiunto.
In questo senso il sesso è una forma di conoscenza e di ascesi, che ha a che fare con la crescita spirituale. Gli orientali da questo punto di vista hanno molte cose da insegnare a noi occidentali.
Per questo considero la pratica tantrica la massima espressione della religiosità umana. Perché è quella che più di altre è stata capace di coniugare e conciliare gli (apparenti) opposti: corpo e anima, sesso e spiritualità, amore e trasgressione, fedeltà e infedeltà, desiderio e oblatività, egoismo e altruismo, aggressività e donazione, gioco e impegno.
Laddove, invece, molte forme di religiosità, anzi la maggior parte di esse, vivono, fondano la loro teoria (teologia) e la loro pratica (ascesi) proprio sull’affermazione della inconciliabilità di questi “opposti”. Di cui alcuni rappresentano (per loro) il bene e altri il male, alcuni le virtù e altri il peccato, alcuni la salvazione e altri la perdizione.
La spiritualità tantrica ci insegna (o, meglio, può insegnarci) che non esiste peccato, non esiste dannazione, laddove c’è un desiderio, laddove un desiderio incontra il desiderio di un altro. Che anzi il vero peccato, la vera dannazione stanno – direbbe Lacan – nella rinuncia al proprio desiderio.
Giovanni Lamagna