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Pierre Hadot: il suo principale contributo al pensiero filosofico.
Pierre Hadot è essenzialmente uno storico della filosofia, in modo particolare della filosofia antica, prima e più che l’autore di un pensiero filosofico originale e autonomo.
In quanto storico della filosofia, il suo pensiero centrale, quello che in un certo senso riassume i risultati di tutta la sua ricerca, è il seguente: “… i filosofi antichi non cercavano innanzitutto di presentare una teoria sistematica della realtà, ma piuttosto di insegnare ai loro discepoli un metodo per ben orientarsi tanto nel pensiero quanto nella vita. (da “La filosofia come modo di vivere”; 2008 Einaudi; pag. 123).
Pensiero che è diventato poi anche il suo contributo principale e più originale alla storia del pensiero filosofico e che in altre parole può essere tradotto così: la filosofia non è solo la ricerca di una verità astratta, teoretica, ma è anche la ricerca e soprattutto la realizzazione di un modo concreto di vivere.
Da questo pensiero centrale deriva un pensiero conseguente: esistono due modi di intendere e fare filosofia.
Uno è quello di elaborare un sistema teoretico, che mira ad avere una sua coerenza logica; parta cioè da alcune premesse date come assiomi e arrivi per deduzione ad alcune conseguenze razionali.
L’altro è quello che punta come finalità principale al raggiungimento della saggezza, e, quindi, si esercita nell’arte di vivere, prima e più che in quella di pensare.
In questo modo di fare filosofia il pensiero è funzionale all’agire, con linguaggio moderno potremmo dire la teoria è funzionale alla prassi.
Non a caso questa tipologia di pensiero filosofico in genere non è molto sistematica, ma è frammentaria, a volte perfino incoerente, perché si sviluppa a partire dalle situazioni esistenziali concrete, quindi episodiche, e non da assiomi astratti e teoretici.
La storia della filosofia quindi, secondo Hadot, potrebbe essere ricostruita individuando queste due modalità di pensiero, come se fossero due correnti parallele che hanno attraversato il grande fiume del pensiero filosofico.
La prima è costituita dal pensiero astratto, esclusivamente o prevalentemente teoretico e perfino intellettualistico, che ha in genere il carattere del sistema di pensiero.
La seconda è costituita dal pensiero concreto, esclusivamente o prevalentemente dedicato alla prassi, in genere o spesso frammentario, asistematico, esistenziale, formativo.
La filosofia antica rientra prevalentemente nella seconda tipologia, la filosofia moderna quasi tutta nella prima tipologia.
La filosofia antica è prevalentemente morale e formativa, quella moderna è prevalentemente teoretica e informativa.
Io – per quello che può valere affermarlo – mi sento e dichiaro seguace di Hadot, quindi della filosofia antica.
Filosofia antica, ma non per questo inattuale; anzi più attuale e necessaria che mai; direi “philosophia perennis!”.
© Giovanni Lamagna
Due modi di guardare alla Storia
Ci sono due modi di guardare alla storia.
Il primo è quello di guardare agli avvenimenti storici con l’occhio dell’osservatore neutrale, che cerca di fotografarli o di descriverli il più fedelmente possibile, astenendosi da ogni giudizio di valore, meno che mai di natura etico/morale.
E’ questo l’atteggiamento di chi guarda ai fatti storici come ciò che, se è accaduto, non poteva che accadere e non poteva che accadere così; come se il prima e il dopo dei fatti storici fossero legati tra di loro anche da un rapporto di causa ed effetto.
E la storia lasciasse ben poco spazio, anzi nessuno spazio, al caso, all’imponderabile, a ciò che, almeno in teoria, poteva essere, ma non è stato poi nella realtà.
Da questo punto di vista acquista un senso particolare ai miei occhi la famosa affermazione hegeliana “Ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale”.
Laddove qui la categoria del “razionale” non ha evidentemente niente a che fare con il “buono” e con il “giusto” e, meno che mai, con ciò che per noi sarebbe stato “auspicabile”.
Cioè con categorie etiche che potremmo definire universali e atemporali, che dovrebbero valere sempre e ovunque, non solo post, ma anche ante quam, a prescindere dunque dal contesto di tempo e di luogo, nel quale si svolgono gli avvenimenti storici.
Ma è una categoria logica, gnoseologica, interpretativa, da utilizzare solo post quam, come pura presa d’atto della realtà storica, che, se si è realizzata in un modo, non poteva realizzarsi altrimenti; e, quindi, ha per forza di cose una sua logica, anzi la sua razionalità.
Chi fa lo storico per mestiere, a mio avviso, non può che guardare alla storia con questo occhio.
Lo studioso della Storia non deve (o non dovrebbe) dunque emettere giudizi sui fatti storici, ma deve (dovrebbe) limitarsi a ricostruirli il più possibile in maniera fedele e integrale, senza ometterne e senza falsarne alcuno; il suo deve (dovrebbe) essere quindi quasi l’occhio di un fotografo.
C’è, però, anche un secondo modo di guardare alla Storia.
Che non è quello dello storico professionista, ma è lo sguardo di chi utilizza in qualche modo la Storia per fare altre professioni o attività: quelle del filosofo, del sociologo, del politico, perfino dello psicologo.
Anche questo sguardo sulla Storia legge i fatti accaduti nel passato non certo e neanche tanto per emettere giudizi su quanto accaduto.
A cosa servirebbe? Il passato è oramai passato!
Quanto per trarne delle lezioni, degli insegnamenti rispetto alla propria azione nel presente, tesa a costruire il futuro.
Il futuro proprio, innanzitutto: di singolo individuo, di singola persona.
Ma anche quello delle collettività in cui il filosofo, il sociologo, il politico, lo psicologo si trovano a svolgere la loro professione o attività.
Valutare gli insuccessi, i fallimenti di molte imprese e personaggi storici può aiutare ciascuno di noi, ma in modo particolare coloro che svolgono le professioni che ho nominato sopra, a fare scelte, ad adottare comportamenti diversi, a trovare soluzioni alternative a quelle, che, in situazioni storiche simili o affini a quelle in cui ci troviamo ad operare nel presente, furono adottati nel passato.
Nella speranza (ahimè, quante volte, però, disattesa!) che la Storia si dimostri (non dico sempre, ma almeno qualche volta) “magistra vitae”.
© Giovanni Lamagna
Due modi diversi di porsi di fronte ad un testo.
Vengo sollecitato a tale riflessione dal commento di una persona, che, dopo aver letto un mio testo (del 14 aprile 2019) nel quale riportavo un passaggio del Vangelo di Matteo (ricavato dall’edizione della C.E.I.), mi rimproverava di non tener conto che dei Vangeli ci sono molte versioni, tra l’altro molto discordanti tra di loro.
Stimolato da questa critica, mi sono chiesto: come ci si può porre di fronte ad un testo, di qualsiasi natura esso sia (letterario, storico, filosofico, scientifico, religioso…)?
A mio avviso gli atteggiamenti possono essere fondamentalmente due:
- il primo è quello del semplice fruitore del testo, di colui cioè che si pone di fronte al testo senza nessuna intenzione o pretesa scientifica, ma al più con un’intenzione di carattere etico od estetico; o, persino, utilitaristico;
- il secondo è quello di chi si pone di fronte al testo con l’atteggiamento scientifico, di chi vuole analizzarne le fonti, il contesto storico, le intenzioni dell’autore, la lingua (dall’uso delle parole alla sintassi)…
Il primo è l’atteggiamento di colui che di fronte ad un testo interroga soprattutto se stesso. E si chiede: cosa ha da dirmi questo testo? in che misura esso mi coinvolge? cosa mi chiede, in termini di comportamenti e di scelte?
Da questo punto di vista il testo è piuttosto un pre-testo; è cioè l’occasione, lo spunto per una riflessione o anche per una semplice reazione emotivo-affettiva, di cui il soggetto fruitore del testo evidentemente avvertiva il bisogno o il desiderio.
Il secondo è l’atteggiamento dello studioso che di fronte al testo si pone in maniera fredda, distaccata, e cerca di analizzarlo nella maniera il più possibile oggettiva, prescindendo cioè dal suo coinvolgimento estetico o morale.
Cerca di vedere cioè il testo in sé, come un oggetto di studio, da tecnico (filologo, storico, critico letterario, archeologo…), senza (necessariamente) farsene coinvolgere in maniera diretta, esistenziale, come persona.
Si tratta di due atteggiamenti, come abbiamo potuto vedere, profondamente diversi.
La cui distinzione mi serve a dire che il secondo atteggiamento non può avere la pretesa, saccente ed arrogante, di soppiantare del tutto il primo e di condannarlo all’irrilevanza, se non addirittura al disprezzo e al ridicolo.
Altrimenti dovremmo concludere che io non posso leggere un testo letterario o religioso o filosofico, se non sono un cultore della materia, ovverossia un critico letterario, un teologo o un filosofo di professione.
A questo punto avremmo le librerie e le biblioteche chiuse, le chiese e i templi senza fedeli, le conferenze dei filosofi deserte.
In maniera ancora più banale e per usare una metafora, potremmo arrivare a dire che nessuno dovrebbe poter innamorarsi o anche solo diventare amico/a di un’altra persona, senza aver prima fatto uno studio approfondito, diciamo pure “scientifico” (anagrafico, familiare, psicologico, sociologico, genetico, storico-biografico…), su questa persona.
Appare a tutti subito evidente il carattere ridicolo di una simile pretesa.
A mio avviso le due possibili interpretazioni di un testo, di cui ho parlato sopra, sono entrambe legittime, a condizione di tenerle ben distinte e che l’una non voglia invadere il campo dell’altra.
Certo, io non posso ambire a dare un’interpretazione da studioso del testo senza averne gli strumenti tecnico-scientifici adeguati. Devo sapere che, senza questi strumenti, la mia interpretazione si fermerà al livello emotivo-affettivo o etico-esistenziale. Che non mi pare poco, però.
Ma, allo stesso tempo, il tecnico, studioso e cultore della materia, deve essere pure lui ben consapevole che anche la sua è un’interpretazione parziale del testo, fin quando da esso non se ne farà coinvolgere anche in maniera emotivo-affettiva e, in certi casi, perfino etico-esistenziale.
© Giovanni Lamagna