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Ricerca del Sé ed esperienza mistica.

La ricerca, l’attenzione a e la cura di sé hanno – a mio avviso – molto a che fare con la ricerca che hanno fatto nei secoli gli uomini di religione; o, meglio, i mistici.

I due atteggiamenti sono in qualche modo omologhi.

Non ovviamente nel senso che il Sé (cioè quello che Jung intendeva con questa parola e che io, in buona sostanza, condivido) sia l’equivalente di Dio.

Anzi!

Il Sé, infatti, (per Jung e – si parva licet – per me) non è l’Io.

È l’Io che tende a sentirsi il centro del mondo e, quindi, in un certo senso, Dio; non il Sé.

La ricerca del Sé richiede invece gli stessi fondamentali atteggiamenti interiori degli uomini di religione, in special modo dei mistici; li elenco qui per titoli.

L’atteggiamento della ricerca.

Quello dell’ascolto.

Quello della risposta/obbedienza alla chiamata del proprio daimon.

Quello dell’essere sempre in cammino, in pellegrinaggio.

Quello dell’umiltà; ovverossia del sentirsi un minuscolo granello di sabbia di una spiaggia, una goccia dell’oceano, una infinitesima particella dell’Universo.

Quello della povertà in spirito; o, meglio, della sobrietà, nel senso del distacco dai beni materiali e, persino, da quelli spirituali.

Quello del superamento, quindi, di ogni forma di invidia per ciò che possiedono gli altri.

Quello della castità spiritualmente intesa, cioè della rinuncia a ogni forma di possesso dell’altro, degli altri.

E, quindi, del superamento della gelosia, come paura di perdere ciò che abbiamo.

Il Sé, d’altra parte, è intrinsecamente, strutturalmente relazione: relazione con l’Altro da Sé.

Che è, innanzitutto, l’inconscio, ovverossia la parte in ombra di sé, quella di cui la coscienza non ha nozione e che chiede di essere portata alla luce.

Ed è poi la Realtà (il principio freudiano di realtà) alla quale nessuno di noi si adatta tanto facilmente, ma lo fa solo grazie ad un lavoro (appunto) di consapevolezza e, quindi, di crescita interiore.

Ed è, infine, il mondo del sociale, l’ambiente che ci circonda, col quale abbiamo bisogno di confrontarci continuamente.

Non certo per adattarci passivamente e, quindi, conformisticamente, al suo modo di sentire, pensare ed essere, come ci spinge a fare il Super-io freudiano.

Ma per non diventare vittime della malattia opposta: il delirio autoreferenziale, che non tiene conto di niente e di nessuno.

© Giovanni Lamagna

Sulle somiglianze e sulle differenze tra gli uomini e gli animali.

Ieri mattina ho pubblicato su facebook questo post:

Vita e consapevolezza della vita.

La Vita vive e va avanti di per sé, a prescindere dalla consapevolezza che ne abbiamo.

Tanto è vero che già esisteva prima che nascessimo ed esisterà anche dopo che saremo morti.

Addirittura anche dopo che il mondo (il nostro piccolo mondo, il pianeta Terra) si sarà estinto.

Come siamo piccoli ed infinitesimali di fronte al mistero infinito della Vita!

E, però, la Vita comincia ad acquisire un senso (che è poi l’unica cosa che conta davvero per noi) solo nel momento in cui cominciamo a dare un nome alle cose, ad utilizzare il linguaggio, ad avere quindi consapevolezza del nostro essere vivi.

Sta tutta qui la differenza (e che differenza!) tra noi e una pietra, tra noi e una pianta, tra noi ed un animale.

Gli animali vivono e muoiono senza aver avuto nessuna consapevolezza di aver vissuto.

Non so – a dire il vero – se questo sia un bene o un male; ma così è, senza ombra di dubbio.

Una mia amica (D. M.) lo ha commentato così:

“Sul fatto che gli animali non si rendano conto di essere vivi però non sono d’accordo. Sanno dimostrare gioia, tristezza ed empatia, sanno quando devono morire e hanno paura della morte, direi che sono molto più consapevoli di quanto possa sembrare.”

Da questo commento è scaturito un dialogo che riporto integralmente, perché mi è apparso di un certo interesse:

G. L.: Non ho detto che gli animali non hanno sentimenti… ma la consapevolezza, a mio modesto avviso, è altra cosa dalle emozioni e dai sentimenti…

D. M.: Secondo me invece sono strettamente collegati. Forse la forma mentale in cui questa consapevolezza li abita è diversa da qualcosa che noi immaginiamo, ma io non credo affatto che in loro non ci sia.

G. L.: L’animale non SA di dover morire… SENTE che sta morendo, quando viene il suo momento… ma “sentire” e “sapere” sono due cose diverse, molto diverse…

D. M.:Quando arriva il veterinario a casa e il cane sceglie un posto dove stendersi vicino ai famigliari, decide chi vuole vicino nel momento in cui morirà. Se non è consapevolezza questa.

G. L.: Sapere significa anche prevedere… sapere di dover morire significa in qualche modo “vivere per la morte”, come diceva Heidegger… questo atteggiamento è totalmente precluso all’animale… il quale sicuramente soffre, se vede un suo simile morire… ma non sa che prima o poi toccherà anche a lui la stessa sorte… poi quando starà in fin di vita, in agonia, forse in quel momento sentirà di stare per morire… si renderà conto di qualcosa di cui fino ad allora, però, non aveva avuto consapevolezza…

D. M.: La mia esperienza con gli animali dice cose diverse, rispetto il tuo punto di vista, ma per me la cosa è diversa.

G. L.: Anche io rispetto il tuo, ma con tutta la considerazione che ho per gli animali, faccio fatica a non vedere (e mi meraviglio che tu non la veda) la profonda differenza che passa tra la natura dell’animale e quella dell’uomo… con i vantaggi e gli svantaggi che esse comportano per gli uni e per gli altri…

D. M.: Il fatto che siano diversi non vuol dire inferiori o privi di coscienza. La natura ci accomuna agli animali molto più di altre cose che noi siamo riusciti ad inventarci per credere di essere diversi, “superiori”…

G. L.: Non ho mai detto che siano “inferiori”; in natura ogni essere e persino ogni cosa ha il suo ruolo e la sua funzione… non ha senso, quindi, parlare di “inferiori” e “superiori”… riconosco che anche gli animali hanno una qualche forma di coscienza… e, infatti, noi apparteniamo al loro stesso genere… ma, certo, la “coscienza” degli altri animali non raggiunge i livelli di complessità dell’animale uomo…

© Giovanni Lamagna

Vita spirituale e inconscio

Una delle manifestazioni più inequivocabili della esistenza della vitalità spirituale di una persona è la sua tensione a voler entrare in connessione con la propria dimensione più profonda, quella inconscia; a non voler restare, quindi, alla superficie di se stessa.

L’uomo spirituale diffida, infatti, di se stesso, del suo sentire e pensare immediato, quelli che gli vengono spontanei, facili.

Sa che il più delle volte questi sono figli dell’inganno, delle bugie che un uomo normalmente racconta a se stesso.

L’uomo spirituale tende (non è detto che ci riesca, ma ci prova) a smascherare questo inganno, a trovare le vere ragioni del suo sentire, del suo pensare, del suo agire e a cercare di modificarli quando questi non sono autentici, cioè non corrispondono alle proprie intenzioni coscienti.

O, in alternativa, a modificare le proprie intenzioni coscienti, quando sotto la spinta di pulsioni inconsce ritenute consapevolmente, razionalmente fondate, si accorge che quelle intenzioni erano esse inautentiche, frutto cioè di pregiudizi e stereotipi, e quindi da rigettare.

L’uomo non spirituale evita di fare questo lavoro, un po’ per pigrizia e un po’ per paura.

Si risparmia questa fatica, ma in questo modo vive una vita superficiale, non del tutto o per niente autentica.

Sartre l’avrebbe definita una vita “in malafede”.

© Giovanni Lamagna

La nostra aggressività

La nostra aggressività verso gli altri può assumere mille forme, è camaleontica, sinuosa, sgusciante, brava a mascherarsi.

E’ tale che inganna perfino noi stessi, che diventiamo incapaci di vederla, di notarla e, quindi, volendo, controllarla.

Ma, soprattutto, inganna gli altri, che a volte manco la notano, manco la vedono, neppure se ne accorgono.

E, quindi, non possono manco difendersene.

Solo un occhio e un sentire particolarmente addestrati sono capaci di avvertirla e di smascherarla.

© Giovanni Lamagna

Pensiero rigido = nevrosi ossessiva

Alcune ideologie politiche come anche alcune visioni religiose sono, con tutta evidenza, figlie di una nevrosi ossessiva.

Cioè di una tendenza compulsiva a pensarla in modo rigido, dogmatico e, quindi, intollerante.

Sono incapaci di confrontarsi con la realtà e con altri modi di pensare, di sentire e di essere. Con altre visioni del mondo.

© Giovanni Lamagna

Ancora alcune riflessioni sul senso dell’esperienza mistica.

Alcuni commenti ricevuti sulla mia pagina facebook dal mio ultimo scritto sul “mistico” mi stimolano a tornare ancora sull’argomento per precisare meglio il mio pensiero. Lo farò per punti, solo in apparenza (almeno credo) slegati tra loro.

  1. Io penso che ciò che caratterizza la figura del mistico, ciò che lo contraddistingue da chi mistico non lo è, sia soltanto la consapevolezza con la quale egli fa il suo cammino di uomo e il desiderio (a cui però si deve accompagnare un impegno serio) di crescere ogni giorno di più nei suoi livelli di consapevolezza. In altre parole: il continuo dialogo/confronto con l’Altro da Sé, che è l’essenza stessa della consapevolezza.
  2. E però, nonostante sia l’unica, penso che questa caratteristica non sia cosa da poco, cioè un semplice dettaglio. Credo anzi che faccia compiere a chi la possiede un grande e significativo salto di qualità nei suoi livelli di umanità, rispetto a chi non la possiede.
  3. Penso che il cammino di ciascuno di noi inizi con la nascita e finisca con la morte. In questo il destino dell’uomo consapevole di sé (cioè dell’uomo che io definisco “mistico”) non differisce da quello di chi mistico non lo è. Infatti, di ciò che mi ha preceduto prima della nascita io non so niente, se non ciò che mi è stato “raccontato” da chi è nato prima di me. E di quello che succederà dopo la mia morte non sono consapevole oggi e penso che non lo sarò neanche dopo la mia morte. Di certo, se qualcosa di me sopravvivrà dopo la morte, non avrà a che fare con la mia consapevolezza di oggi. Non conosco, infatti, uomini che hanno mai manifestato consapevolezza di una loro vita o di loro vite precedenti.
  4. Dal momento che il mistico (per come lo intendo io) è consapevole che la sua vita inizia il giorno della sua nascita e terminerà il giorno della sua morte, egli cercherà di utilizzare al meglio i giorni che gli rimangono. Anche questa è una caratteristica del mistico. Il quale, più che per la fede in un al di là del tutto ipotetico e impossibile da dimostrare, si riconosce dall’impegno a non sprecare il suo tempo, qui ed ora, consapevole che la sua vita è breve.
  5. La vita dell’uomo ha un inizio certo (la nascita) e una fine altrettanto certa (la morte). Punto! So bene di teorie (nate e sviluppatesi in particolare nel mondo culturale e religioso orientale) che parlano di metempsicosi, di reincarnazione, cioè di nascite e rinascite molteplici, anche in forme e nature diverse, dell’essere umano. Ma queste teorie per me non hanno nessun fondamento razionale e, in quanto tali, le respingo radicalmente. Il mistico non è mistico perché ha una visione irrazionale della vita. Il mistico è anzi per me la persona più razionale che esista.
  6. Dire “io sento che dopo la morte esiste ancora qualcosa” per me non ha nulla a che fare con l’essenza dell’esperienza mistica. E’ una fede, cioè un sentimento irrazionale (o, quantomeno, senza fondamento razionale), in quanto indimostrabile. E perciò non riesco a condividerlo.
  7. Le parole hanno i loro limiti e non tutte le esperienze (certo!) sono facili da comunicare. Ma (altrettanto di certo!), al di fuori dell’uso delle parole noi non abbiamo altri strumenti per comunicare. E, quindi, bisogna fare ogni tentativo per comunicare con esse. Se non ci riusciamo, dobbiamo diffidare di ciò che vogliamo comunicare, non delle parole che non riuscirebbero a comunicare ciò che vorremmo comunicare.
  8. Dobbiamo fare attenzione a distinguere il semplice “sentire” dalla “consapevolezza”. Il “sentire”, se è tale, si basa su percezioni emotive, tutt’al più sensoriali, perciò del tutto soggettive e, quindi, psicolabili. La “consapevolezza” si pone su un piano diverso dal semplice “sentire”. Ha basi certe, solide. Anche razionali. Chi è consapevole è certo, sicuro, di quello che dice. Anche quando parla di cose che non può dimostrare alla maniera delle scienze sperimentali. Anche se le cose che dice non tutti sono in grado di coglierle. Nel senso che non sono immediatamente “visibili”, chiare e distinte per tutti.
  9. La consapevolezza profonda non può prescindere da considerazioni anche filosofico/razionali. Altrimenti corriamo il rischio di considerare oggetto di “consapevolezza” non ciò che realmente è, ma ciò che a noi farebbe piacere che fosse. Cioè facciamo un’esperienza che è il contrario della consapevolezza.
  10. Un’amica mi parla di una consapevolezza che scaturirebbe dal silenzio della mente, mentre la mia nascerebbe dal dialogo della mente con se stessa. Due tipi di consapevolezza che avrebbero codici diversi. Io sostengo, invece, che la consapevolezza è una, che ha una sola natura. Che ci possono essere livelli diversi di consapevolezza (nel senso che io posso essere consapevole di alcune cose e non esserlo di altre), ma non due o più tipi di consapevolezza. E una caratteristica universale della consapevolezza è quella di sottoporre i materiali della coscienza (anche) al filtro della ragione.
  11. Parlare di “silenzio della mente” è molto pericoloso. Con questa “logica” (illogica) anche i militanti dell’ISIS potrebbero dire che le loro idee (farneticanti) nascono dal “silenzio della mente”. E, tra l’altro, hanno pure ragione: infatti, le loro idee sono farneticanti proprio perché hanno messo a “dormire” la mente. Non si confrontano con la mente, ma solo coi loro deliri…
  12. Il problema centrale, da cui partire, è: che cosa intendiamo con il termine e con l’esperienza della consapevolezza? Per me la consapevolezza è un’esperienza sintetica di emozioni, sentimenti, intuizioni e di riflessioni. Per me la consapevolezza non è una sorta di visione estatica, nella quale la mente e, forse, anche le stesse emozioni e sentimenti sono completamente assenti. Pure i fanatici dell’ISIS vivono (probabilmente) la consapevolezza come una forma di “silenzio della mente”. E sono fanatici, già solo per questo: anche se non andassero a commettere le stragi che poi commettono e che ben conosciamo.
  13. Sono favorevole ad una ricerca costante di equilibrio e di apertura. E penso anch’io che, quando la mente è tranquilla, emergano molte cose interessanti su chi siamo e come funzioniamo. Ma in questa ricerca ha grande parte anche la mente. Una cosa, insomma, è una “mente tranquilla”, che contempla, più che ragionare (soltanto). Altra cosa è una “mente assente”.
  14. Una cosa sono le intuizioni, altra cosa le “visioni” o le “esperienze (cosiddette) estatiche”. Le intuizioni (quelle che possiamo considerare vere intuizioni) hanno sempre una componente di razionalità. E, infatti, non si sottraggono al confronto con la ragione. Anzi lo ricercano, si sottopongono al suo vaglio. Altrimenti sono solo puri e semplici deliri.
  15. Un’amica mi scrive: “Se qualcuno mi racconta un esperienza particolare… una visione o (perché no?) una esperienza anche estatica…io non la confuto solo perché non mi appartiene… Sollevo semmai delle obiezioni, se sul piano pratico essa va a ledere la libertà o l’ incolumità di qualcuno…”. Io le ho risposto: “E le obiezioni da dove nascono, se non da un’analisi razionale, che mette a confronto azioni ed effetti di queste azioni? Quale altro modo abbiamo noi esseri umani di sollevare obiezioni, se non quello di fare ricorso alla ragione? Perché poi disprezzarla tanto (la ragione), se essa è una delle qualità precipue dell’uomo?
  16. Un’altra amica si chiede: da dove vengono le nostre intuizioni, quelle piccole scintille che improvvisamente chiariscono i nostri dubbi? Io così le ho risposto: vengono dall’inconscio, che è capace di fare una sintesi ( di vissuti, emozioni, sentimenti, ragionamenti sedimentati…) di cui la nostra mente (troppo univoca, troppo solo razionale) non è (da sola) capace.
  17. Insomma, se non si fosse ancora capito, io ho una visione del tutto atipica della figura del mistico e dell’esperienza da lui vissuta. Per me l’esperienza mistica si può ridurre (ammesso che di “riduzione” si tratti) ad un’esperienza del tutto umana, direi (per usare un termine abusato) un’esperienza del tutto “laica”, in cui può entrarci (ma anche non entrarci) la religione, può entrarci (ma anche non entrarci) la fede in un Dio trascendente. Per me l’esperienza mistica è una esperienza umana che ha certe, determinate, caratteristiche psicologiche. E queste bastano ed avanzano, non solo per definirla, ma anche per giudicarne il valore, l’utilità per la crescita e la realizzazione degli esseri umani in quanto tali (e non – solo – in quanto uomini di fede, cioè credenti in una qualche religione).
  18. Tutti possono essere o diventare mistici. Anzi, dal mio punto di vista, è bene che lo diventino. O, almeno, che ci provino. Come tutti possono essere o diventare filosofi. Anzi è bene che lo diventino. O, almeno, che ci provino. Perché entrambe le cose aiutano a vivere, a campare meglio, a realizzare al massimo la propria umanità. Basta averne il desiderio e coltivarlo. Cioè far seguire al desiderio l’impegno serio, fattivo, costante, perché il desiderio si realizzi.

Giovanni Lamagna