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Le due donne fondamentali nella vita di Carl Gustav Jung.

Chi conosce la vita di Carl Gustav Jung sa bene che egli fu un bigamo dichiarato: ebbe contemporaneamente due relazioni amorose, potremmo dire entrambe pubbliche (anche la seconda per niente clandestina) con due donne.

Due relazioni entrambe molto intense e, quindi, importanti, anzi fondamentali nella sua vita.

La prima fu quella con Emma Rauschenbach (18821955), di sette anni più giovane di lui, con la quale contrasse matrimonio nel 1903, che gli diede cinque figli e che gli premorì, uccisa da un cancro, a 73 anni, nel 1955, quindi sei anni prima di lui.

Emma Rauschenbach era figlia di un ricco industriale svizzero, Johannes Rauschenbach, proprietario di una fabbrica di orologi di lusso.

Alla morte del padre avvenuta nel 1905, Emma e sua sorella, insieme ai loro mariti, divennero proprietari della fabbrica e questo assicurò alla famiglia Jung per decenni una notevole base sicura dal punto di vista economico.

Emma incontrò Carl Gustav nel 1896, quando aveva appena 14 anni ed era ancora una studentessa; lo sposò – come già detto – sette anni più tardi, il 14 febbraio 1903.

Emma si interessò molto al lavoro di suo marito (che supportò economicamente, grazie alla eredità ricevuta dal padre), divenne anche lei un importante psicoanalista, fu tra i fondatori del Club di psicologia analitica di Zurigo, di cui tenne la presidenza dal 1916 al 1920, curò la pubblicazione delle opere del marito per tutta la sua vita, svolse alcune ricerche intorno alla leggenda del sacro Graal, che furono pubblicate postume in due saggi, curati da Marie Louise von Franz.

La seconda relazione fu quella con Toni Wolf (1888-1953); Toni nacque a Zurigo, anche lei in una famiglia benestante, primogenita di tre figlie.

“Fu incoraggiata dai genitori a seguire i propri interessi intellettuali e di studio, dedicandosi a filosofia, mitologia e astrologia”, ma le fu poi impedito di iscriversi all’università, poiché il padre non trovava questo ambiente adatto a una ragazza; “tuttavia lei seguì lo stesso dei corsi pur senza iscriversi”.

“Nel dicembre del 1909 il padre morì e Toni, che aveva allora 21 anni, entrò in depressione; si recò allora in cura da Jung”, che apprezzò subito il “naturale acume della sua intelligenza” oltre alla sua “sensibilità psicologica davvero geniale” e la fece diventare una delle sue principali collaboratrici.

Ben presto, però, attorno al 1913, tra i due il rapporto da professionale divenne anche amoroso.

Sulle prime la moglie di Jung, Emma, ne fu profondamente ferita, col tempo però riuscì ad accettare la presenza importante di un’altra donna nella vita erotica e sessuale del marito, per cui venne a costituirsi un vero e proprio, perfino dichiarato e pubblico, menage a trois.

Toni Wolf morì improvvisamente il 21 marzo 1953, all’età di 64 anni; Jung gli sopravvivrà di otto anni.

Questa ricostruzione (fonte principale Wikipedia) della dimensione privata ed affettiva della vita di Jung avrebbe ben scarso interesse, se non le si accompagnasse l’analisi delle motivazioni e delle ragioni profonde su cui essa si poggiava; almeno dal punto di vista di Jung.

In questo senso ci aiutano molto tre pagine (185, 186 e 187) del libro uscito di recente a firma di Aniela Jaffé, la segretaria di Jung e una delle sue principali collaboratrici, intitolato “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023).

Qui Jung parla in maniera sufficientemente estesa del suo rapporto sia con l’una che l’altra donna della sua vita e ne descrive le rispettive psicologie; molto diverse, forse persino opposte; dato questo che spiega a mio avviso l’attrazione che Jung provava contemporaneamente sia per l’una che per l’altra.

Jung descrive Toni come una donna la cui “inclinazione era totalmente terrena”, che “era però diventata molto intellettuale”; per cui il “suo carattere era sovente forzato e innaturale”; voleva in altre parole, mi verrebbe di dire, essere quella che non era; Jung dice che “si opponeva al suo destino, al suo essere terrena, al suo essere di questo mondo.” (p. 185)

Secondo Jung, perciò “avrebbe dovuto dire a sé stessa: “Mi sono lasciata sfuggire un pezzo di vita”. Ma finché visse l’aveva a lungo negato. Solo gradualmente – ma troppo tardi – riuscì a riconoscerlo lei stessa.; e questo richiese un alto grado di onestà e coraggio. Però in quel momento lei non fu più in grado di raggiungere il pezzo mancante della sua vita. Fu questa la sua tragedia.” (p.185)

Se esistesse la reincarnazione, dice Jung “per Toni essa dovrebbe realizzarsi nella direzione di un’accresciuta appartenenza a questo mondo e di una vicinanza alla natura. E questo si è evidenziato anche nei sogni che ho avuto su di lei dopo la sua morte.” (p. 185)

Nei sogni che la riguardavano avevo sempre la sensazione di una realtà e di una vitalità impressionanti. Mia moglie appariva nei sogni molto più lontana. Toni appariva assolutamente viva e vicina alla realtà.

Una volta ebbi un sogno molto suggestivo: lei si trovava in Italia, in una campagna dell’Umbria, occupata a lavorare come contadina insieme ad altri agricoltori. Era proprio quello che le si sarebbe voluto augurare, perché ci si poteva immaginare che lì sarebbe guarita. (p.185)

Era abbronzata dal sole e straordinariamente vitale, come in realtà non era mai stata. Adesso veniva in primo piano tutto il suo lato ctonio-corporeo. Lei si sentiva naturale e semplice. Era interamente terra, totalmente ctonia, aveva persino i tratti pagani della contadina meridionale. In quei luoghi la gente è molto legata alla terra. (p. 186)

Del tutto diversa, anzi per molti versi opposta, la figura di Emma, la moglie di Jung, che egli descrive come una persona legata pienamente al “mondo spirituale”, destinata “a evolversi lungo la linea spirituale”.

Come evidenziato dai sogni che Jung ebbe dopo la sua morte e che lo svegliavano di soprassalto “sapendo che ero stato da lei e che avevamo trascorso l’intera giornata in Provenza, dove lei stava lavorando ai suoi studi sul Graal.

In conclusione e per segnare la netta differenza tra la personalità dell’una e dell’altra Jung afferma: “Sentivo che mia moglie si trovava nel mondo spirituale. Toni era invece in un mondo ctonio.” (p. 186); cioè non solo terreno, ma addirittura sotterraneo, infero.

Come risulta evidente da questi – brevi ma molto significativi – ricordi autobiografici, le due figure di Emma e di Toni corrispondevano, dunque, a due aspetti/bisogni/aspirazioni molto diversi dell’uomo Jung, che molto difficilmente avrebbero potuto trovare corrispondenza adeguata in una donna sola.

Come scrive Aniella Jaffé nel suo testo a chiosa delle parole che le aveva appena riferito Jung, Emma, la moglie, fu, per il fondatore della psicologia analitica, “il grande fondamento della casa e, come madre di cinque figli e nonna di una schiera di nipoti, anche il fondamento della sua famiglia.”; la base sicura non solo sul piano affettivo e spirituale, ma anche su quello materiale, come abbiamo già detto persino economico.

Grazie alla sua forza psichica e all’autonomia del suo spirito, lei gli offrì nei periodi più difficili “un punto d’appoggio in questo mondo”.”, pur avendo una psicologia –come l’ha descritta lo stesso Jung – fortemente incline alla spiritualità.

Gli fu talmente devota da riuscire a superare la sua iniziale gelosia nei confronti dell’amante del marito Toni Wolff e concedere al coniuge quello “spazio vitale” (p. 68) di libertà e di autonomia di cui egli aveva indispensabile bisogno per svolgere il suo lavoro.

Allo stesso tempo fu capace, con grande coraggio e intelligenza emotiva, di compiere un autonomo percorso evolutivo e di individuazione, che la portò ad un certo punto ad affermare, lucidamente e onestamente, del marito: “Lui mai ha portato via a me qualcosa per darla a Toni. Al contrario più dava a lei più sembrava in grado di dare a me.” (p. 187).

Toni Wolff, pur essendo una natura fondamentalmente terragna, più donna del Sud che del Nord (al contrario di Emma Rauschenbach, donna tipicamente nordica) fu per Jung la compagna privilegiata “nella sua indagine dell’inconscio e del mondo interiore”; svolse “un ruolo analogo a quello che la soror mistica svolge nell’Opus alchemicum.

Dalle cose che ho fin qui riportato credo che risulti evidente come entrambe queste due donne abbiano svolto un ruolo fondamentale nella vita privata (emotiva-affettiva-spirituale), e in quella pubblica (professionale- intellettuale-scientifica) di Jung; e credo si spieghi bene, quindi, come egli non potesse prescindere da nessuna delle due.

Per cui – mi viene da chiosare – sembra avere conferma, in questo singolare menage a trois, una riflessione, che ho trovato di recente in un romanzo che sto leggendo in questi giorni e che mi sembra perciò opportuno, significativo, citare a conclusione di questo mio articoletto:

… la persona giusta non esiste…

Non esiste né in terra né in cielo né da nessun’altra parte… Esistono soltanto le persone e in ognuna c’è un pizzico di quella giusta, ma in nessuna c’è tutto quello che ci aspettiamo e speriamo. Nessuna racchiude in sé tutto questo, e non esiste quella certa figura, l’unica, la meravigliosa, la sola che potrà darci la felicità. Esistono soltanto delle persone, e in ognuna ci sono scorie e raggi di luce, tutto…” (Sandor Marai; da “La donna giusta”; Adelphi edizioni 2017; p. 125)

© Giovanni Lamagna

A quale futuro stiamo andando incontro?

Stamattina leggevo una pagina del libro di Aniela Jaffé “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), anticipata dall’inserto “Robinson”, uscito con “la Repubblica” del 27 maggio 2023, pagina nella quale veniva in grande evidenza l’importanza che ha avuto il Buddhismo per il grande pensatore svizzero.

Ad un certo punto Jung afferma: “A volte mi sono chiesto se non sono la reincarnazione di un indiano. Se così fosse, sarei stato di certo un buddhista.”

E mi è venuto spontaneo pensare all’India e poi alla Cina attuali e mi sono chiesto: quanto di Buddhismo sopravvive oggi, a pochi decenni di distanza da quando Jung fece questa affermazione, in questi due paesi, dove il Buddhismo 2500 anni fa nacque, si sviluppò e prosperò?

Ho l’impressione – da quanto ne so – che ne sopravvive ben poco e, forse, temo, ne sopravvivrà sempre meno in futuro, travolto dallo sviluppo tecnologico, industriale e postindustriale, che ha oramai preso piede anche in quei due paesi, che tendono sempre più ad assomigliare, almeno da questo punto di vista, alle società occidentali.

Si sta verificando insomma, anche in India e Cina, ciò che si è verificato già da quasi due secoli in Occidente: un progressivo ma sempre più impetuoso rinnegamento delle antiche tradizioni spirituali su cui Oriente ed Occidente si erano fondati e retti per più di due millenni.

In India sta tramontando il Buddhismo e credo che prima o poi tramonterà anche l’Induismo; in Cina il Buddhismo (così come il Confucianesimo) sono morti già da alcuni decenni, sotto i colpi della rivoluzione comunista; in Occidente già da molto tempo è tramontato – nei fatti, se non nella forma – il Cristianesimo nelle sue varie correnti; e la stessa cosa si può dire dell’Ebraismo.

Queste grandi tradizioni spirituali sono oramai ridotte ad essere vissute e testimoniate in piccole riserve, largamente minoritarie, che si assottigliano sempre più col passare del tempo e che, forse, prima o poi, (tutto lascia pensare questo) saranno destinate a sparire completamente.

Ho parlato di “rinnegamento” e non di “modificazione” o “evoluzione”.

Una evoluzione, alla luce dei cambiamenti storici intervenuti in due millenni, sarebbe stata normale, inevitabile e perfino positiva; l’aggiornamento (ovverossia la “secolarizzazione”) di un pensiero religioso (ma, in fondo, anche filosofico) per molti aspetti fondato sul mito, alla luce del progresso scientifico, era, infatti, non solo necessario ma – almeno a mio modo di vedere – oltremodo positivo e auspicabile.

Avrebbe consentito di salvare il “bambino” (l’essenza del messaggio spirituale contenuto in quelle antiche tradizioni) e di buttare “l’acqua sporca” (gli orpelli mitici, i rituali barocchi e i sistemi di potere sacerdotali e non, legati a quelle tradizioni), senza gettare (come, invece. è stato fatto) anche il bambino assieme all’acqua sporca.

Il rinnegamento è, infatti, tutt’altra cosa; il rinnegamento è il ribaltamento, la distruzione delle radici stesse su cui le civiltà dell’Occidente e dell’Oriente per due millenni si sono fondate; è un vero e proprio cambio di identità, di natura, di codice genetico.

E questo, a mio giudizio, non ha nulla di positivo e auspicabile; non prelude a nulla di buono; anzi, mi sa di vera e propria “alienazione” culturale, cioè di rinuncia al nucleo, all’essenza stessa, della propria identità antropologica e del proprio patrimonio storico.

Tra l’altro proprio nel momento in cui l’abbattimento di tante barriere – che per millenni avevano tenuto lontani, quasi incomunicabili tra loro, Oriente e Occidente – avrebbe potuto consentire un positivo incontro e un fecondo intreccio di culture tanto diverse.

Per cui mi chiedo: reggerà una “civiltà” (ammesso che possa ancora definirsi così la nuova Era che tende a profilarsi) che si aliena dal proprio passato, che lo divella, senza neanche una vera e propria rigorosa analisi critica, ma sotto l’impulso di un “progresso”, di uno “sviluppo”, che ad un certo punto le sono sfuggiti di mano?

La mia impressione profonda è che un tale cambiamento – al di là del giudizio di merito che se ne possa o voglia dare – non rappresenti, non costituisca un semplice passaggio di epoca, di Evo, come lo furono quelli dall’età antica al Medioevo e da questo all’Età moderna e da questa all’Età contemporanea.

No, oggi, – mi sbaglierò, ma la mia impressione è questa – ci troviamo in presenza di un vero e proprio passaggio non di epoca, ma di Era, come lo fu quello che segnò il passaggio dalla Preistoria alla Storia; di quelli che avvengono ogni tot millenni e non ogni tot secoli.

Non a caso da qualche anno circolano espressioni quali “fine della storia” o “post-umano”, che già linguisticamente sono molto più radicali delle espressioni o dei termini, che fin qui nella Storia hanno segnato i cambiamenti d’epoca e che ho prima citato.

Passando al giudizio di merito e per concludere questa riflessione, cosa ci destinerà il futuro non è dato (a nessuno e meno che mai a uno come me) prevederlo con certezza; ma la mia impressione è che non si stia preparando nulla di buono per le future generazioni.

Spero ovviamente di sbagliarmi; me lo auguro per i nostri figli e, soprattutto, per i nostri nipoti; la mia generazione, infatti, di questo futuro (di questa nuova Era, come sopra l’ho definita) potrà vedere solo le prime luci dell’alba; ma le mie impressioni, intuizioni e previsioni sono purtroppo negative; e non posso fare a meno qui di dichiararle.

Nella speranza sottintesa (a cui la volontà non può permettersi di rinunciare), ma (devo dire) molto disincantata (se in me interviene solo la ragione), che si possa ancora invertire la tendenza in atto, se e quando si prendesse consapevolezza dei rischi devastanti e, forse, suicidi a cui l’Umanità tutta sta andando incontro.

© Giovanni Lamagna

A quale futuro stiamo andando incontro?

Stamattina leggevo una pagina del libro di Aniela Jaffé “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), anticipata dall’inserto “Robinson”, uscito con “la Repubblica” del 27 maggio 2023, pagina nella quale veniva in grande evidenza l’importanza che ha avuto il Buddhismo per il grande pensatore svizzero.

Ad un certo punto Jung afferma: “A volte mi sono chiesto se non sono la reincarnazione di un indiano. Se così fosse, sarei stato di certo un buddhista.”

E mi è venuto spontaneo pensare all’India e poi alla Cina attuali e mi sono chiesto: quanto di Buddhismo sopravvive oggi, a pochi decenni di distanza da quando Jung fece questa affermazione, in questi due paesi, dove il Buddhismo 2500 anni fa nacque, si sviluppò e prosperò?

Ho l’impressione – da quanto ne so – che ne sopravvive ben poco e, forse, temo, ne sopravvivrà sempre meno in futuro, travolto dallo sviluppo tecnologico, industriale e postindustriale, che ha oramai preso piede anche in quei due paesi, che tendono sempre più ad assomigliare, almeno da questo punto di vista, alle società occidentali.

Si sta verificando insomma, anche in India e Cina, ciò che si è verificato già da quasi due secoli in Occidente: un progressivo ma sempre più impetuoso rinnegamento delle antiche tradizioni spirituali su cui Oriente ed Occidente si erano fondati e retti per più di due millenni.

In India e Cina sta tramontando (se non è già tramontato) il Buddhismo (ma lo stesso discorso lo si potrebbe fare per l’Induismo); in Occidente già da tempo è tramontato – nei fatti, se non nella forma – il Cristianesimo (ma si può dire altrettanto dell’Ebraismo).

Tutte e quattro queste grandi tradizioni spirituali sono oramai ridotte ad essere vissute e testimoniate in piccole riserve, largamente minoritarie, che si assottigliano sempre più col passare del tempo e che, forse, prima o poi, (tutto lascia pensare questo) saranno destinate a sparire completamente.

Ho parlato di “rinnegamento” e non di “modificazione” o “evoluzione”.

Una evoluzione, alla luce dei cambiamenti storici intervenuti in due millenni, sarebbe stata normale, inevitabile e perfino positiva; l’aggiornamento (ovverossia la “secolarizzazione”) di un pensiero religioso (ma, in fondo, anche filosofico) per molti aspetti fondato sul mito, alla luce del progresso scientifico, era, infatti, non solo necessario ma – almeno a mio modo di vedere – oltremodo positivo e auspicabile.

Avrebbe consentito di salvare il “bambino” (l’essenza del messaggio spirituale contenuto in quelle antiche tradizioni) e di buttare “l’acqua sporca” (gli orpelli mitici, i rituali barocchi e i sistemi di potere sacerdotali e non, legati a quelle tradizioni), senza buttare (come, invece. è stato fatto) anche il bambino assieme all’acqua sporca.

Il rinnegamento è, infatti, tutt’altra cosa; il rinnegamento è il ribaltamento, la distruzione delle radici stesse su cui le civiltà dell’Occidente e dell’Oriente per due millenni si sono fondate; è un vero e proprio cambio di identità, di natura, di codice genetico.

E questo, a mio giudizio, non ha nulla di positivo e auspicabile; non prelude a nulla di buono; anzi, mi sa di vera e propria “alienazione”, cioè di rinuncia al nucleo, all’essenza stessa, della propria identità storica.

Per cui mi chiedo: reggerà una “civiltà” (ammesso che possa ancora definirsi così la nuova Era che tende a profilarsi) che si aliena dal proprio passato, che lo divella, senza neanche una vera e propria rigorosa analisi critica, ma sotto l’impulso di un “progresso”, di uno “sviluppo”, che ad un certo punto le sono sfuggiti di mano?

La mia impressione profonda è che un tale cambiamento – al di là del giudizio di merito che se ne possa o voglia dare – non rappresenti, non costituisca un semplice passaggio di epoca, di Evo, come lo furono quelli dall’età antica al Medioevo e da questo all’Età moderna e da questa all’Età contemporanea.

No, oggi, ho l’impressione, ci troviamo in presenza di un vero e proprio passaggio di Era, come lo fu quello dalla Preistoria alla Storia; di quelli che avvengono ogni tot millenni e non ogni tot secoli.

Non a caso da qualche anno circolano espressioni quali “fine della storia” o “post-umano”, che già linguisticamente sono molto più radicali delle espressioni o dei termini, che fin qui nella Storia hanno segnato i cambiamenti d’epoca e che ho prima citato.

Passando al giudizio di merito e per concludere questa riflessione, cosa ci destinerà il futuro non è dato (a nessuno e meno che mai a uno come me) prevederlo con certezza; ma la mia impressione è che non si stia preparando nulla di buono per le future generazioni.

Spero ovviamente di sbagliarmi; me lo auguro per i nostri figli e, soprattutto, per i nostri nipoti; la mia generazione, infatti, di questo futuro (di questa nuova Era, come sopra l’ho definita) potrà vedere solo le prime luci dell’alba; ma le mie impressioni, intuizioni e previsioni sono purtroppo negative; e non posso fare a meno qui di dichiararle.

Nella speranza sottintesa (a cui la volontà non può permettersi di rinunciare), ma (devo dire) molto disincantata (se in me interviene solo la ragione), che si possa ancora invertire la tendenza in atto, se e quando si prendesse consapevolezza dei rischi devastanti e, forse, suicidi a cui l’Umanità tutta sta andando incontro.

© Giovanni Lamagna

La vita e i suoi compiti: cosa penso della reincarnazione.

Sono convinto che ognuno di noi abbia dei compiti o almeno un compito da realizzare nel corso della sua vita.

E che la quota di felicità che ci tocca (se ci tocca) abbia molto a che fare con la realizzazione di questi compiti.

E’ scontato per me che alcuni di questi compiti non riusciremo a realizzarli o li realizzeremo solo in parte (o molto in parte).

Non credo però (come alcuni credono) che per questo ci toccheranno in sorte altre vite, per poter realizzare i compiti che abbiamo lasciato inevasi o completare quelli che abbiamo lasciato in sospeso nelle vite precedenti.

Credo, invece, che toccherà ai nostri figli o ai nostri nipoti o pronipoti completare o realizzare i compiti che noi abbiamo solo intravisto ma siamo stati incapaci di assolvere nel corso della nostra vita.

Credo alla esistenza e alla realtà di una catena intergenerazionale, che – sia ben inteso – per me non ha nessuna ragione religiosa o metafisica. Sta però nella natura delle cose, delle nostre esistenze. Abbiamo la possibilità di verificarla, volendolo.

La vita, invece, questa vita che ci è toccato in sorte di vivere, – voglio dirlo con chiarezza – per me è l’unica vita che ci è data. Non ne avremo altre a disposizione.

Anche per questo ci tocca viverla al meglio, col massimo impegno possibile.

E non in vista di un premio che ci compenserà dell’impegno profuso.

Ma già solo per il piacere e la gratificazione intrinseci che ce ne potranno venire.

Giovanni Lamagna

Ancora alcune riflessioni sul senso dell’esperienza mistica.

Alcuni commenti ricevuti sulla mia pagina facebook dal mio ultimo scritto sul “mistico” mi stimolano a tornare ancora sull’argomento per precisare meglio il mio pensiero. Lo farò per punti, solo in apparenza (almeno credo) slegati tra loro.

  1. Io penso che ciò che caratterizza la figura del mistico, ciò che lo contraddistingue da chi mistico non lo è, sia soltanto la consapevolezza con la quale egli fa il suo cammino di uomo e il desiderio (a cui però si deve accompagnare un impegno serio) di crescere ogni giorno di più nei suoi livelli di consapevolezza. In altre parole: il continuo dialogo/confronto con l’Altro da Sé, che è l’essenza stessa della consapevolezza.
  2. E però, nonostante sia l’unica, penso che questa caratteristica non sia cosa da poco, cioè un semplice dettaglio. Credo anzi che faccia compiere a chi la possiede un grande e significativo salto di qualità nei suoi livelli di umanità, rispetto a chi non la possiede.
  3. Penso che il cammino di ciascuno di noi inizi con la nascita e finisca con la morte. In questo il destino dell’uomo consapevole di sé (cioè dell’uomo che io definisco “mistico”) non differisce da quello di chi mistico non lo è. Infatti, di ciò che mi ha preceduto prima della nascita io non so niente, se non ciò che mi è stato “raccontato” da chi è nato prima di me. E di quello che succederà dopo la mia morte non sono consapevole oggi e penso che non lo sarò neanche dopo la mia morte. Di certo, se qualcosa di me sopravvivrà dopo la morte, non avrà a che fare con la mia consapevolezza di oggi. Non conosco, infatti, uomini che hanno mai manifestato consapevolezza di una loro vita o di loro vite precedenti.
  4. Dal momento che il mistico (per come lo intendo io) è consapevole che la sua vita inizia il giorno della sua nascita e terminerà il giorno della sua morte, egli cercherà di utilizzare al meglio i giorni che gli rimangono. Anche questa è una caratteristica del mistico. Il quale, più che per la fede in un al di là del tutto ipotetico e impossibile da dimostrare, si riconosce dall’impegno a non sprecare il suo tempo, qui ed ora, consapevole che la sua vita è breve.
  5. La vita dell’uomo ha un inizio certo (la nascita) e una fine altrettanto certa (la morte). Punto! So bene di teorie (nate e sviluppatesi in particolare nel mondo culturale e religioso orientale) che parlano di metempsicosi, di reincarnazione, cioè di nascite e rinascite molteplici, anche in forme e nature diverse, dell’essere umano. Ma queste teorie per me non hanno nessun fondamento razionale e, in quanto tali, le respingo radicalmente. Il mistico non è mistico perché ha una visione irrazionale della vita. Il mistico è anzi per me la persona più razionale che esista.
  6. Dire “io sento che dopo la morte esiste ancora qualcosa” per me non ha nulla a che fare con l’essenza dell’esperienza mistica. E’ una fede, cioè un sentimento irrazionale (o, quantomeno, senza fondamento razionale), in quanto indimostrabile. E perciò non riesco a condividerlo.
  7. Le parole hanno i loro limiti e non tutte le esperienze (certo!) sono facili da comunicare. Ma (altrettanto di certo!), al di fuori dell’uso delle parole noi non abbiamo altri strumenti per comunicare. E, quindi, bisogna fare ogni tentativo per comunicare con esse. Se non ci riusciamo, dobbiamo diffidare di ciò che vogliamo comunicare, non delle parole che non riuscirebbero a comunicare ciò che vorremmo comunicare.
  8. Dobbiamo fare attenzione a distinguere il semplice “sentire” dalla “consapevolezza”. Il “sentire”, se è tale, si basa su percezioni emotive, tutt’al più sensoriali, perciò del tutto soggettive e, quindi, psicolabili. La “consapevolezza” si pone su un piano diverso dal semplice “sentire”. Ha basi certe, solide. Anche razionali. Chi è consapevole è certo, sicuro, di quello che dice. Anche quando parla di cose che non può dimostrare alla maniera delle scienze sperimentali. Anche se le cose che dice non tutti sono in grado di coglierle. Nel senso che non sono immediatamente “visibili”, chiare e distinte per tutti.
  9. La consapevolezza profonda non può prescindere da considerazioni anche filosofico/razionali. Altrimenti corriamo il rischio di considerare oggetto di “consapevolezza” non ciò che realmente è, ma ciò che a noi farebbe piacere che fosse. Cioè facciamo un’esperienza che è il contrario della consapevolezza.
  10. Un’amica mi parla di una consapevolezza che scaturirebbe dal silenzio della mente, mentre la mia nascerebbe dal dialogo della mente con se stessa. Due tipi di consapevolezza che avrebbero codici diversi. Io sostengo, invece, che la consapevolezza è una, che ha una sola natura. Che ci possono essere livelli diversi di consapevolezza (nel senso che io posso essere consapevole di alcune cose e non esserlo di altre), ma non due o più tipi di consapevolezza. E una caratteristica universale della consapevolezza è quella di sottoporre i materiali della coscienza (anche) al filtro della ragione.
  11. Parlare di “silenzio della mente” è molto pericoloso. Con questa “logica” (illogica) anche i militanti dell’ISIS potrebbero dire che le loro idee (farneticanti) nascono dal “silenzio della mente”. E, tra l’altro, hanno pure ragione: infatti, le loro idee sono farneticanti proprio perché hanno messo a “dormire” la mente. Non si confrontano con la mente, ma solo coi loro deliri…
  12. Il problema centrale, da cui partire, è: che cosa intendiamo con il termine e con l’esperienza della consapevolezza? Per me la consapevolezza è un’esperienza sintetica di emozioni, sentimenti, intuizioni e di riflessioni. Per me la consapevolezza non è una sorta di visione estatica, nella quale la mente e, forse, anche le stesse emozioni e sentimenti sono completamente assenti. Pure i fanatici dell’ISIS vivono (probabilmente) la consapevolezza come una forma di “silenzio della mente”. E sono fanatici, già solo per questo: anche se non andassero a commettere le stragi che poi commettono e che ben conosciamo.
  13. Sono favorevole ad una ricerca costante di equilibrio e di apertura. E penso anch’io che, quando la mente è tranquilla, emergano molte cose interessanti su chi siamo e come funzioniamo. Ma in questa ricerca ha grande parte anche la mente. Una cosa, insomma, è una “mente tranquilla”, che contempla, più che ragionare (soltanto). Altra cosa è una “mente assente”.
  14. Una cosa sono le intuizioni, altra cosa le “visioni” o le “esperienze (cosiddette) estatiche”. Le intuizioni (quelle che possiamo considerare vere intuizioni) hanno sempre una componente di razionalità. E, infatti, non si sottraggono al confronto con la ragione. Anzi lo ricercano, si sottopongono al suo vaglio. Altrimenti sono solo puri e semplici deliri.
  15. Un’amica mi scrive: “Se qualcuno mi racconta un esperienza particolare… una visione o (perché no?) una esperienza anche estatica…io non la confuto solo perché non mi appartiene… Sollevo semmai delle obiezioni, se sul piano pratico essa va a ledere la libertà o l’ incolumità di qualcuno…”. Io le ho risposto: “E le obiezioni da dove nascono, se non da un’analisi razionale, che mette a confronto azioni ed effetti di queste azioni? Quale altro modo abbiamo noi esseri umani di sollevare obiezioni, se non quello di fare ricorso alla ragione? Perché poi disprezzarla tanto (la ragione), se essa è una delle qualità precipue dell’uomo?
  16. Un’altra amica si chiede: da dove vengono le nostre intuizioni, quelle piccole scintille che improvvisamente chiariscono i nostri dubbi? Io così le ho risposto: vengono dall’inconscio, che è capace di fare una sintesi ( di vissuti, emozioni, sentimenti, ragionamenti sedimentati…) di cui la nostra mente (troppo univoca, troppo solo razionale) non è (da sola) capace.
  17. Insomma, se non si fosse ancora capito, io ho una visione del tutto atipica della figura del mistico e dell’esperienza da lui vissuta. Per me l’esperienza mistica si può ridurre (ammesso che di “riduzione” si tratti) ad un’esperienza del tutto umana, direi (per usare un termine abusato) un’esperienza del tutto “laica”, in cui può entrarci (ma anche non entrarci) la religione, può entrarci (ma anche non entrarci) la fede in un Dio trascendente. Per me l’esperienza mistica è una esperienza umana che ha certe, determinate, caratteristiche psicologiche. E queste bastano ed avanzano, non solo per definirla, ma anche per giudicarne il valore, l’utilità per la crescita e la realizzazione degli esseri umani in quanto tali (e non – solo – in quanto uomini di fede, cioè credenti in una qualche religione).
  18. Tutti possono essere o diventare mistici. Anzi, dal mio punto di vista, è bene che lo diventino. O, almeno, che ci provino. Come tutti possono essere o diventare filosofi. Anzi è bene che lo diventino. O, almeno, che ci provino. Perché entrambe le cose aiutano a vivere, a campare meglio, a realizzare al massimo la propria umanità. Basta averne il desiderio e coltivarlo. Cioè far seguire al desiderio l’impegno serio, fattivo, costante, perché il desiderio si realizzi.

Giovanni Lamagna