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Pulsione di morte e guerra.

Nel capitolo VI del suo “Il disagio della civiltà” (1929) Freud riprende un concetto di cui, a partire dal saggio del 1920 “Al di là del principio di piacere”, si era andato sempre più convincendo nel corso degli anni, gli ultimi della sua vita: il concetto secondo cui “oltre alla pulsione a conservare la sostanza vivente e a legarla in unità sempre più larghe, doveva esisterne un’altra, ad essa opposta, che mirava a dissolvere queste unità e a ricondurle allo stato primevo, inorganico”.

Freud negli ultimi anni della sua vita si è, insomma, convinto che oltre ad una pulsione (Eros) che tende a conservare la vita ce ne sia un’altra (Thanatos) che tende ad annientarla.

Egli riconosce, però, che non fu facile all’inizio documentare questa seconda pulsione; perché, mentre le manifestazioni della prima balzano evidenti agli occhi, la seconda lavora sotto traccia, silenziosamente.

Più spesso essa si intreccia e mescola alla prima, ad esempio nel sadismo e nel masochismo.

Ovviamente, dice Freud, lo sviluppo della civiltà trova nella pulsione di morte “il suo più grave ostacolo”.

Lo sviluppo della civiltà, infatti, si pone al servizio dell’Eros, in quanto – scrive testualmente Freud – “mira a raccogliere prima individui sporadici, poi famiglie, poi stirpi, popoli, nazioni, in una grande unità, il genere umano…

… Ma a questo programma della civiltà si oppone la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno. Questa pulsione aggressiva è figlia e massima rappresentante della pulsione di morte…

…Ed ora, mi sembra, il significato dell’evoluzione civile non è più oscuro. Indica la lotta tra Eros e Morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione…

Questa lotta è il contenuto essenziale della vita e perciò l’evoluzione civile può definirsi in breve come la lotta per la vita della specie umana.”

Da queste pagine di Freud, che ancora una volta mi sono tornate sotto gli occhi in questi giorni, è scaturita spontanea dentro di me la riflessione che segue.

Alla luce di quanto si sta verificando, da quasi nove mesi a questa parte, sotto i nostri occhi, soprattutto sotto gli occhi di noi Europei, come dare torto a Freud?

Come negare che nell’Uomo, oltre che un istinto di vita che lo spinge a cercare la felicità e la convivenza pacifica con i suoi simili, ci sia un istinto malefico, che lo spinge verso la distruzione della vita altrui e persino verso l’autodistruzione della propria?

Tale istinto mi sembra si sia manifestato evidente nell’invasione russa dell’Ucraina.

La Russia potrà avere (e forse ha) mille ragioni per essere aggressiva con l’Ucraina, con la Nato e con l’Europa; ma non ci sono dubbi che il suo intervento e le modalità estremamente distruttive con cui si sta svolgendo abbiano a che fare con l’istinto mortifero di cui parlava Freud.

E tuttavia questo istinto, in fondo, in fondo, lo si percepisce anche nelle reazioni che ci sono state all’invasione russa; sia da parte dei governanti di molti altri Paesi che da parte dell’opinione pubblica internazionale.

Innanzitutto nella reazione del popolo ucraino o, quantomeno, dei suoi governanti, che i più definiscono esclusivamente coi termini di nobile, eroica e fiera, ma che a me sembra francamente anche molto fanatica, a tratti delirante e, alfine, suicida.

E’ poi, financo, nelle reazioni degli Stati Uniti, della Nato e dell’Europa; che sembrano incuranti non solo delle conseguenze economiche disastrose che il loro coinvolgimento nella guerra comporta e comporterà sempre più, ma anche del rischio di innescare un’escalation bellica che potrebbe sfociare, prima o poi, in un conflitto mondiale e nucleare, il cui esito non vedrebbe né vinti né vincitori, ma solo un’ecatombe globale.

Ultima considerazione: quale dei due istinti, di cui parla Freud, la spunterà alla lunga nel corso della Storia?

E’ difficile, anzi impossibile, per tutti prevederlo.

Anche se molti indizi (soprattutto quelli che ci rimandano le cronache di questi ultimi nove mesi) sembrano dare per favorito il secondo.

Non si tratta qui di essere nevroticamente, patologicamente pessimisti; si tratta di vedere le cose per come sono, con gli occhi del realismo.

© Giovanni Lamagna

Pulsione di morte e guerra.

Nel capitolo VI del suo “Il disagio della civiltà” (1929) Freud riprende un concetto di cui, a partire dal saggio del 1920 “Al di là del principio di piacere”, si era andato sempre più convincendo nel corso degli anni, gli ultimi della sua vita: il concetto secondo cui “oltre alla pulsione a conservare la sostanza vivente e a legarla in unità sempre più larghe, doveva esisterne un’altra, ad essa opposta, che mirava a dissolvere queste unità e a ricondurle allo stato primevo, inorganico”.

Freud negli ultimi anni della sua vita si è, insomma, convinto che oltre ad una pulsione (Eros) che tende a conservare la vita ce ne sia un’altra (Thanatos) che tende ad annientarla.

Egli riconosce, però, che non fu facile all’inizio documentare questa seconda pulsione; perché, mentre le manifestazioni della prima balzano evidenti agli occhi, la seconda lavora sotto traccia, silenziosamente.

Più spesso essa si intreccia e mescola alla prima, ad esempio nel sadismo e nel masochismo.

Ovviamente, dice Freud, lo sviluppo della civiltà trova nella pulsione di morte “il suo più grave ostacolo”.

Lo sviluppo della civiltà, infatti, si pone al servizio dell’Eros, in quanto – scrive testualmente Freud – “mira a raccogliere prima individui sporadici, poi famiglie, poi stirpi, popoli, nazioni, in una grande unità, il genere umano…

… Ma a questo programma della civiltà si oppone la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno. Questa pulsione aggressiva è figlia e massima rappresentante della pulsione di morte…

…Ed ora, mi sembra, il significato dell’evoluzione civile non è più oscuro. Indica la lotta tra Eros e Morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione…

Questa lotta è il contenuto essenziale della vita e perciò l’evoluzione civile può definirsi in breve come la lotta per la vita della specie umana.”

Da queste pagine di Freud, che proprio in questi giorni ho avuto modo di rileggere e meditare, è scaturita spontanea dentro di me la riflessione che segue.

Alla luce di quanto si sta verificando, da più di tre mesi a questa parte, sotto i nostri occhi, soprattutto sotto gli occhi di noi Europei, come dare torto a Freud?

Come negare che nell’Uomo, oltre che un istinto di vita che lo spinge a cercare la felicità e la convivenza pacifica con i suoi simili, ci sia un istinto malefico, che lo spinge verso la distruzione della vita altrui e persino verso l’autodistruzione della propria?

Tale istinto mi sembra si sia manifestato evidente nell’invasione russa dell’Ucraina; la Russia potrà avere (e forse ha) mille ragioni per essere aggressiva con l’Ucraina, con la Nato e con l’Europa; ma non ci sono dubbi che il suo intervento e le modalità (a quanto sembra) estremamente distruttive con cui si sta svolgendo abbiano a che fare con l’istinto mortifero di cui parla Freud.

E tuttavia l’istinto di cui stiamo parlando, in fondo, in fondo, lo si percepisce anche nelle reazioni che ci sono state all’invasione russa; sia da parte dei governanti di molti altri Paesi che da parte dell’opinione pubblica internazionale; innanzitutto nella reazione del popolo ucraino o, quantomeno, dei suoi governanti, che i più definiscono esclusivamente coi termini di nobile, eroica e fiera, ma che a me sembra francamente anche molto fanatica, a tratti delirante e, alfine, suicida.

E’ da ravvisare poi, financo, nelle reazioni degli Stati Uniti, della Nato e dell’Europa; che sembrano incuranti non solo delle conseguenze economiche disastrose che il loro coinvolgimento nella guerra comporta e comporterà sempre più, ma anche del rischio di innescare un’escalation bellica che finirà per sfociare, se non sarà arrestato quanto prima, in un conflitto mondiale e nucleare, che non vedrebbe né vinti né vincitori, ma solo un’ecatombe globale.

Ultima considerazione: quale dei due istinti, di cui parla Freud, la spunterà alla lunga nel corso della Storia?

E’ difficile per tutti prevederlo.

Anche se molti indizi (soprattutto quelli che ci rimandano le cronache di questi giorni) sembrano dare per favorito il secondo.

Non si tratta qui di essere nevroticamente, patologicamente pessimisti; si tratta di vedere le cose per come sono, con gli occhi del realismo.

© Giovanni Lamagna

Esiste la pulsione di morte?

Francamente non credo che esista, come afferma Freud, una vera e propria “pulsione di morte” (Todestrieb), autonoma dalla pulsione di vita, anzi ancora “più originaria, più elementare, più pulsionale” di questa.

Capisco bene le motivazioni ed il contesto storico e persino personale che spinsero Freud ad elaborare questa idea: penso all’esperienza della prima guerra mondiale e al sentore dello scoppio imminente della seconda, alla frequentazione quotidiana di pazienti devastati da una condizione esistenziale talvolta insanabile e (forse) anche alla stessa sofferenza dei suoi ultimi anni di vita, quelli della vecchiaia e, quindi, della decadenza.

Ma ugualmente l’idea della “pulsione di morte”, così come la elaborò Freud, non a caso nell’ultima fase della sua vita, pur con tutto il rispetto e l’ammirazione che ho per il grande pensatore viennese, mi appare poco o niente convincente. E per vari motivi.

Innanzitutto perché affermare l’idea di una pulsione di morte che addirittura precede la pulsione di vita è un po’ come dire che la morte viene prima della vita, che l’uomo (anzi qualsiasi vivente) prima esiste e, quindi, vive come morto e poi come vivo: pensiero alquanto paradossale!

Poi perché la stessa espressione “pulsione di morte” è per me un vero e proprio ossimoro, rappresenta una contraddizione in termini: ciò che pulsa non può essere morto e ciò che è morto non può pulsare.

E, infine, perché penso che la pulsione di morte, di cui parla Freud, altro non sia che la stessa pulsione di vita quando si ammala, quando cioè la vita si rivolta contro se stessa, devia da quello che dovrebbe essere il suo percorso evolutivo naturale e tende ad autodistruggersi.

Quindi la pulsione di morte (ammesso che si possa parlare correttamente, dal punto di vista anche solo linguistico, di “pulsione di morte”) per me non è, non può essere, una pulsione altra, distinta, autonoma, diversa, anzi opposta alla pulsione di vita, ma è solo la sua versione patologica.

A maggior ragione la pulsione di morte (concepita da Freud – ripeto e guarda caso negli ultimi anni della sua vita – , sostenuta poi con forza da Lacan e oggi ripresa con altrettanta energia e convinzione da Massimo Recalcati, nel suo libro “Le nuove melanconie”, in polemica garbata ma altrettanto decisa con i neolacaniani, che a suo dire l’avrebbero edulcorata e in fondo svuotata del suo potere urticante e scabroso) non è, dunque, almeno per me, una pulsione che strutturalmente, per sua natura intrinseca, nega “l’incontro con l’Altro”.

Quasi fosse un’altra forma di vita, di esistenza, una vita e un’esistenza paradossalmente nate già morte.

Ma è la stessa pulsione di vita, che non ha avuto (nella fase dell’infanzia soprattutto) un’esperienza positiva e felice nell’incontro con l’Altro (quando i primi incontri con l’Altro – in modo particolare con i genitori, in modo ancora più particolare con la madre – segnano, decidono quasi definitivamente il destino della nostra vita emotivo/affettiva) e, quindi, si è ritirata in se stessa, ripiegata su di sé, delusa, disperatamente immalinconita, e perciò ammalata.

Oltretutto questo modo di vedere non mi pare che neghi e neanche che tenda ad oscurare, edulcorare o sottovalutare, come sembra temere Recalcati, il lato tragico della vita e persino le spinte autodistruttive, a volte assolutamente devastanti, presenti in molte esistenze umane.

Significa solo spiegarli e motivarli con argomentazioni diverse da quelle a cui fece ricorso Freud e, dopo di lui, da tanti altri insigni psicoanalisti ( i cosiddetti ortodossi), tra i quali i già citati Lacan e Recalcati, senza cadere nelle loro contraddizioni teoriche, che a me sembrano piuttosto vistose, come ho provato qui a dimostrare.

© Giovanni Lamagna

Viene prima ed è più forte la pulsione di vita o la pulsione di morte?

La pulsione di morte – dice Freud in “Al di là del principio di piacere”– è “più originaria, più elementare, più pulsionale” del principio del piacere (da una citazione di Massimo Recalcati a p. 58 del suo libro “Le nuove melanconie”).

Pur con tutto il grande rispetto che ho per il grande padre della psicoanalisi, non riesco ad essere d’accordo con questa affermazione di Freud.

Se, infatti, essa fosse vera, la vita si sarebbe spenta subito, già al suo primo nascere ed apparire. Anzi non sarebbe per niente nata ed apparsa.

Se la pulsione di morte fosse più originaria e, in buona sostanza, stando a quello che pensa Freud, più forte (“più pulsionale”) di quella di vita, la vita semplicemente non sarebbe nata e non sarebbe continuata, nelle sue varie forme, continuamente cangianti.

Non ci sono dubbi (e questa è la parte di verità contenuta nell’affermazione di Freud) che, nel momento stesso in cui un essere umano nasce (ma si potrebbe dire lo stesso di qualsiasi altro vivente), egli/esso già comincia a declinare, a deperire e, quindi, in un certo senso a morire.

Ma di qui a dire che la pulsione di morte precede (è “più originaria”) di quella di vita, a mio avviso, ce ne corre.

Io sono piuttosto portato a dire che la pulsione di vita e la pulsione di morte nascono e convivono assieme, in una lotta titanica, tragica e continua.

Anche se devo riconoscere (e in questo Freud aveva indubbiamente ragione) che alla fine in questa lotta vince la pulsione di morte.

Almeno quanto alla vita individuale, del singolo organismo vivente. Che è poi (sia detto per inciso) la cosa che più interessa ad ognuno di noi.

Perché, invece, in una logica universale e oggettiva, non individuale e soggettiva, si potrebbe anche dire, con il celebre scienziato francese del ‘700, Lavoisier, che in natura “nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”.

E che, quindi, la vita e, perciò, anche la pulsione che la esprime sono in qualche modo eterne, pur nella loro continua evoluzione/ involuzione e mutevolezza.

Di cui, indubbiamente, è parte (e parte sicuramente tragica) l’esperienza soggettiva e individuale della morte.

© Giovanni Lamagna

Nietzsche e Dio

Nietzsche si assume il compito di uccidere Dio a nome dell’Umanità.

In contraddizione con l’orgoglio smisurato che manifesta all’esterno, è sommerso dai sensi di colpa per il gesto compiuto.

Io così me lo immagino.

E forse per questo impazzisce, dilaniato dalla pulsione di morte.

© Giovanni Lamagna

Cosa è il Nirvana per me?

Il Nirvana, di cui parla Buddha, è lo stadio finale della meditazione.

Buddha così lo definisce “… un luogo ove non è acqua né terra, né luce né aria, né infinità spaziale né infinità razionale, in cui non c’è nessuna cosa di alcun genere e nemmeno il superamento simultaneo di rappresentazione e non rappresentazione… non è né un quaggiù né un lassù né un sito intermedio…”

Potremmo dire, dunque, è un “non-luogo”.

Ma un “non-luogo” è una pura astrazione della mente, a cui non corrisponde nessuna realtà oggettiva.

Se, infatti, vi corrispondesse qualche realtà, sarebbe un luogo come gli altri e, quindi, non potrebbe avere le caratteristiche che il Buddha attribuisce al Nirvana: quelle di un “non-luogo”.

Ma il “non-luogo”, dunque, altro non è che un’astrazione concettuale, non-esistente nella realtà, una pura invenzione della mente.

La quale, quindi, non sfugge (né potrebbe sfuggire) a se stessa.

Come, invece, Buddha auspica che avvenga nello stato del Nirvana, cioè nello stadio supremo della meditazione.

Anche a questo stadio, dunque, la mente c’è.

Se non ci fosse (la mente), anche nello stato del Nirvana, Buddha non potrebbe nemmeno descriverlo e parlarcene. Per quanto in negativo, cioè per sottrazione di attributi concreti e materiali.

Il Nirvana, allora, è da intendersi piuttosto come uno stato dell’anima. Dell’anima pacificata, che ha superato (più che la mente e i concetti, che dalla mente sono inseparabili) il turbinio delle passioni e l’inquietudine che da queste derivano.

L’anima che non ha affatto “lasciato andare il desiderio” (come pure Buddha invita a fare nella seconda delle sue nobili verità), ma non se ne lascia neppure condurre o, peggio, trascinare.

E’ lo stato dell’anima che accoglie i desideri (e non potrebbe fare altrimenti, senza perseguire – se lo facesse – una pulsione di morte), ma li guida sapiente, con discernimento, come l’auriga esperta i suoi cavalli, anche i più selvaggi e riottosi.

Giovanni Lamagna

Brama e dolore

7 marzo 2015
Brama e dolore.
Non mi ha mai convinto la dottrina buddista sull’origine del dolore e sul modo di farlo cessare.
L’idea che il dolore nasca dalla brama, cioè dal desiderio, (e che quindi, per eliminare il dolore, basti rinunciare al desiderio) mi appare come una vera e propria aberrazione.
Una dottrina che ha a che fare con la pulsione di morte, di freudiana memoria. Cioè la pulsione che, secondo l’ultimo Freud, si contrappone alla libido.
Libido che, per quanto mi riguarda, è assimilabile al desiderio di vivere, cioè all’istinto di sopravvivenza, anzi all’istinto che spinge verso la vita.
Combattere il dolore con la rinuncia al desiderio (di vivere) per me equivale a combattere il dolore optando per la morte. Soluzione quanto meno singolare!
Come a dire a uno che ha mal di testa e desidera farselo passare: non prenderti l’aspirina; prenditi direttamente una pillola di cianuro.
Giovanni Lamagna