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E’ possibile il lavoro di elaborazione di un lutto?

Secondo Massimo Recalcati il lavoro di elaborazione di un lutto, al contrario di quello che pensa Freud, non si completerebbe mai definitivamente e del tutto.

Per Freud il compimento del “lavoro del lutto” porterebbe all’oblio (uno “strano oblio”) dell’oggetto perduto e al ristabilimento, ripristino, delle funzioni della libido.

Che, dopo un lutto, resta attaccata all’oggetto perduto e quindi bloccata, per un tempo fisiologico: e questo è del tutto normale.

Ma, una volta elaborato il lutto, riprenderebbe a fluire di nuovo e a poter essere investita su nuovi oggetti.

Secondo Recalcati, invece, questa visione di Freud è troppo idilliaca e sarebbe smentita dall’esperienza psicoanalitica.

Secondo Recalcati il lutto non può mai essere elaborato del tutto; una parte di libido resterebbe quindi attaccata per sempre all’oggetto perduto.

Cosa penso io di questa piccola diatriba virtuale tra Recalcati e Freud?

Penso che abbiano ragione entrambi.

Penso che abbia ragione Recalcati a sostenere che dopo ogni morte di una persona che ci era cara, una parte di noi muore con lei; e che da questo punto di vista, quindi, nessuna ferita causata da una perdita luttuosa sia mai del tutto rimarginabile.

Ogni perdita causata da una morte accresce in noi la consapevolezza di dover morire, del nostro “essere per la morte”; consapevolezza che non è ovviamente solo intellettuale, ma è soprattutto emozionale ed affettiva.

Quindi ogni lutto fa venire fuori, rende manifesta, in noi una quota di melanconia latente, che è parte fondante del nostro essere mortali.

Penso, però, che abbia anche ragione Freud; che sia possibile cioè o, almeno, che sia possibile per una persona con una psiche mediamente sana, riuscire a convivere, in uno stato relativamente sereno, con questo fondo di melanconia, che lievita ogni volta in noi quando siamo colpiti da un lutto, specie quando muore una persona che ci era molto vicina e cara.

Che sia possibile non dico dimenticare prima o poi la persona che è morta, ma convivere abbastanza serenamente con il pensiero/memoria della sua perdita, della sua assenza, oramai irrecuperabile, nella nostra vita.

E che, quindi, la nostra vita possa riprendere non dico come prima ma quantomeno con la stessa voglia di vivere, di godere dei piccoli o grandi piaceri, delle piccole o grandi gioie, che la vita può continuare, nonostante tutto, a donarci.

Penso, in estrema sintesi, che la nostra libido, dopo una fase di annebbiamento, di occultamento, di appassimento, possa riprendersi, rinascere, tornare a rivivere, a trovare altri oggetti su cui investire e provarne gratificazione.

Senza farsi paralizzare dai sensi di colpa (quasi che la morte della persona a noi cara fosse in qualche modo colpa nostra) o dalla devastante, perversa, appercezione/associazione che alla persona defunta si legasse il senso stesso della nostra esistenza, per cui, venuta meno lei, sarebbe venuto meno anche il senso stesso del nostro vivere.

© Giovanni Lamagna

Stagnazione melanconica del lutto versus elaborazione simbolica della perdita.

“Il dolore del lutto è sempre statico, esclude il movimento e la trasformazione proprio perché rifiuta di riconoscere pienamente la separazione dall’oggetto perduto.” (Massimo Recalcati; “La luce delle stelle morte”; 2022 Feltrinelli; pag. 46).

Aggiungo che quando il dolore del lutto si prolunga oltre un certo limite questo è il segno che è sopraggiunta una depressione; o, meglio, che il lutto ha “risvegliato” ed attivato una depressione che era già potenziale, latente.

Significa che il soggetto depresso è stato risucchiato in un gorgo mortifero, che è attratto più dalla presenza di chi e di ciò che è morto che da quella di chi e di ciò è ancora vivo; in altre parole è attirato più dalla morte che dalla vita.

Ma non è il prolungamento anomalo del lutto, la cronicizzazione del lutto, l’incapacità di elaborare simbolicamente la perdita della persona defunta, che attivano la melanconia, la depressione, quella che Recalcati definisce “la stagnazione melanconica del lutto” (ibidem; pag. 46).

E’ – a mio avviso – piuttosto il carattere (potenzialmente, latentemente o manifestamente) depresso del soggetto che vive un lutto a prolungare questo lutto oltre limiti anomali, a renderlo cronico, incapace di una sua elaborazione simbolica.

Nella persona sana il lutto, prima o poi, viene elaborato e superato; la persona sana prima o poi simbolizza la separazione e la supera; nella persona sana l’istinto di vita prevale prima o poi sull’istinto di morte.

La persona sana prima o poi riprende in mano la sua vita, ricomincia a guardare al futuro; la persona insana rimane, invece, bloccata sul passato, prigioniera della nostalgia, anzi del rimpianto, incapace di guardare in avanti, alle persone e alle cose che sono rimaste in vita.

A questo punto però mi chiedo: che vuol dire “simbolizzare una separazione”, “elaborare un lutto”?

A mio avviso, vuol dire fare un percorso interiore (Recalcati lo chiama un “lavoro”), tale che la persona perduta entri simbolicamente, cioè psicologicamente, (potrei dire anche spiritualmente, se non temessi il fraintendimento del termine) a far parte di noi.

Che non la viviamo più come separata, altro da noi (come in un certo senso – per certi aspetti addirittura paradossali – era quando stava con noi), ma l’abbiamo come interiorizzata, fatta diventare oramai una parte stabile di noi.

Quando la separazione e il lutto sono stati elaborati, il ricordo della persona perduta (e di tutto ciò che ad essa si riferisce) è dolce, ci fa teneramente compagnia, ci aiuta addirittura a vivere e a progettare il futuro, per certi aspetti ce la rende ancora più presente di quando stava fisicamente con noi.

Ricordo qui (quasi per inciso) una frase alquanto oscura di Gesù (riportata dal Vangelo di Giovanni 16,7-15), ma che, alla luce della riflessione che sto in questo momento svolgendo, può risultare meno oscura o addirittura trasparente: “E’ bene per voi che io me ne vada perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi”.

Il Paràclito è qui da intendersi come lo Spirito Santo, cioè Gesù stesso in forma spirituale, interiorizzata.

Ricordo che Gesù rivolge queste parole ai suoi discepoli, poco prima del suo arresto e della sua crocifissione, per consolarli ed aiutarli ad accettare la sua morte, la sua perdita, il suo allontanamento fisico (ma non certo spirituale; anzi!) dalle loro vite.

Secondo questa profezia e questo auspicio di Gesù la sua morte avrebbe addirittura giovato ai suoi discepoli, nel senso che li avrebbe costretti – in mancanza della sua presenza fisica – ad interiorizzare la sua realtà spirituale, a farla diventare carne della loro carne, fino a poter dire (come dirà effettivamente un giorno Paolo di Tarso): “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Lettera ai Galati; 2, 20).

In questo caso la morte è vissuta come separazione fisica, indubbiamente dolorosa, perfino lacerante, straziante, almeno inizialmente, ma infine, prima o poi, come ricongiungimento spirituale, resurrezione in qualche modo della persona morta, addirittura più presente spiritualmente di quando essa era ancora fisicamente viva, generatrice di linfa ed energia vitale in chi le è sopravvissuta.

Al contrario nella “stagnazione melanconica del lutto” il morto prende il posto dei vivi, li sopravanza e quasi li oscura con la sua presenza fantasmatica, quasi li caccia fuori dalla scena dell’esistenza, il passato si sostituisce al presente e nientifica ogni prospettiva di futuro, la nostalgia e il rimpianto impediscono il godimento di chi (e anche di ciò che) è rimasto vivo.

Nella “stagnazione melanconica del lutto” il ricordo della persona perduta è ossessivo, amaro, persecutorio, colpevolizzante, onnipresente.

Lungi dall’aiutare la persona sopravvissuta (come nella profezia e nell’auspicio evangelici) a vivere, a continuare a vivere, anzi (in quel caso) a nascere addirittura a nuova vita, le rovina e intossica l’esistenza.

La morte – quando il lutto ristagna melanconicamente – attrae e risucchia nel suo gorgo depressivo e distruttivo la vita, il freudiano istinto di morte prevale sull’istinto di vita, la necrofilia (cito qui Erich Fromm) vince sulla biofilia.

© Giovanni Lamagna

Alcune riflessioni sul “lutto”, sull’elaborazione del “lutto”, sulla paranoia e sulla melanconia.

Per Freud il lavoro dell’analisi è essenzialmente un lavoro sul lutto o (come dice Recalcati ne “Le nuove melanconie”; pag. 180) “un lavoro di elaborazione simbolica su tutti i tagli che hanno contrassegnato il processo singolare di soggettivazione”.

In primo luogo – a mio avviso – quello più traumatico di tutti, legato alla nascita, col taglio del cordone ombelicale, che teneva legato, anche simbolicamente oltre che fisicamente, il neonato al corpo della madre.

Ma, per elaborare un lutto (anzi i lutti) a me sembra che condizione indispensabile sia quella di essere consapevoli (o, meglio, diventare consapevoli) che un lutto c’è stato nella propria vita.

Alcuni soggetti, invece, questa consapevolezza non la vogliono prendere, suppongo perché essa li farebbe soffrire troppo.

In questo caso – a mio avviso – il lavoro dell’analisi è reso (quasi) impossibile, è “forcluso”, impedito.

Il paranoico è, appunto, un soggetto che si rifiuta di riconoscere ed elaborare il lutto.

Perché, invece di introiettare il lutto della separazione dall’Altro, perpetua questa separazione, facendo dell’Altro un oggetto persecutorio; facendo dell’Altro il Male assoluto, l’assoluto soggetto cattivo.

Ma c’è – a mio avviso – un altro modo di rifiutare il lutto; ed è quello di “idealizzare” l’altro, di negare il male, il negativo che c’è nell’altro.

Anche quando questo male è importante, significativo, consistente.

Questo “movimento” di rimozione del male è esattamente opposto a quello che fa il paranoico.

In questo caso il soggetto, invece di vedere l’Altro come il Male assoluto, un (s)oggetto persecutorio, lo vede come il Bene assoluto.

E, quindi un “(s)oggetto” da cui non è mai avvenuta (e mai potrà avvenire) la separazione che provoca il lutto.

In questa dinamica l’aggressività che il paranoico proietta sull’altro, si rivolge verso il soggetto stesso che ha rimosso l’esistenza, la presenza di un lutto (o di lutti) nella sua vita, per un eccesso di idealizzazione dell’Altro.

Credo che qui abbiano origine la melanconia acclarata o una certa propensione verso la melanconia, la cosiddetta tendenza melanconica o depressiva.

© Giovanni Lamagna