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La vita non ha un senso, ma può darselo.
La vita ha un senso, può avere un senso, ma non è un senso che sta fuori di lei, che le proviene dall’esterno.
Bensì è un senso che la vita può trovare solo dentro sé stessa, che la vita si dà – quando ci riesce – da sé stessa.
Da questo punto di vista la vita non ha un fondamento esterno su cui poggiarsi, ma galleggia su un vuoto assoluto di senso.
Il senso che la vita può trovare in sé è, quindi, del tutto precario, fragile, instabile, soggetto a continui scossoni e messe in crisi.
Ma, se l’uomo non lo trova, la sua vita è condannata a inabissarsi nel mare senza fondo del non senso.
Coerenza logica vorrebbe – se la vita fosse solo logica – che chi non trova un senso alla sua vita se la togliesse, suicidandosi.
Ma – per fortuna o per sfortuna: non so! – la vita non è solo logica; come hanno potuto verificare di persona i vari Schopenhauer, Nietzsche e Cioran, filosofi del nichilismo.
© Giovanni Lamagna
La parabola dei rapporti di coppia.
Ad un certo punto succede (non in tutti, ma di certo nella grande maggioranza dei rapporti di coppia) che uno dei due o (ancora più spesso) tutti e due i membri della coppia si “siedano”, come se fossero giunti ad un approdo terminale, definitivo.
Per molti questo approdo coincide col matrimonio; quindi viene raggiunto abbastanza presto nella storia del rapporto, considerato che, in genere, ci si sposa dopo due o tre anni dal momento in cui si decide di “mettersi assieme”.
A questo punto i due diventano del tutto prevedibili l’uno per l’altro e, quindi, scontati; la loro relazione acquista pertanto i colori della malinconica monotonia.
Il rapporto, ovviamente, perde la brillantezza degli inizi, si opacizza; i partner cominciano col parlarsi di meno, continuano via, via col parlarsi sempre di meno e, infine giungono a non parlarsi proprio più.
Nella migliore delle ipotesi parlano di tante cose – degli altri, dei fatti che accadono, delle cose che li circondano, magari e perfino di arte, di filosofia, di scienza, di politica – ma non più di sé stessi.
Quando accade questo, per me il rapporto è psichicamente, spiritualmente, anche se non fisicamente, materialmente, morto.
Tra i due membri di una relazione c’è poi, spesso, se non sempre, chi a questa “morte” si rassegna, dandola per inevitabile e scontata, quasi fosse un esito naturale, fisiologico.
In certi casi entrambi sposano questa rassegnazione e in questo modo la relazione trova un nuovo equilibrio, basato su un tacito accordo, da entrambi condiviso: evitare ogni comunicazione profonda, davvero intima.
Il rapporto può, in questo modo, durare fino a che morte non li separi.
Altre volte, invece, tra i due c’è chi a questa “morte” non si rassegna e scalpita.
O facendo continue richieste (implicite o esplicite) all’altro di cambiamento, di rinnovamento; quasi sempre, però, inutili e fallimentari.
O/e cercando il cambiamento fuori, in un altro rapporto.
In questo caso il membro della coppia che cerca il cambiamento viene considerato il traditore del rapporto: lascio giudicare a voi con quale logica e fondatezza.
Conclusione: per mantenere vivo un rapporto non bisogna mai dare niente per scontato, bisogna continuamente stupire l’altro/a, presentandosi ai suoi occhi come una persona sempre nuova.
Tutto questo esige, ovviamente, cura, attenzione, dedizione, ma io dico soprattutto fantasia e creatività; immaginazione, come diceva Hillman.
Ad alcuni (anzi, forse, ai più) questo può risultare troppo faticoso; per cui viene spontaneo chiedersi, consciamente o inconsciamente: ne vale la pena?
A questa domanda io non ho dubbi nel rispondere: sì, ne vale la pena!
Sarà pure (anzi, è) faticoso, ma è anche l’unico modo per mantenersi vivi.
Non tanto o non solo per mantenere vivo, vitale il rapporto, ma per tenersi vivi come persone, come singole individualità.
L’alternativa è appassire come individui e contribuire, di conseguenza, per la propria parte, all’appassimento inesorabile della relazione di coppia.
© Giovanni Lamagna
Cosa significa “meditare”?
Meditare per me è diverso dal semplice pensare; è qualcosa in più.
Pensare è qualcosa che obbedisce a delle regole precise, in qualche modo meccaniche, automatiche.
Quando faccio l’operazione 1 + 1 e arrivo al risultato che fa 2 sto pensando; ho fatto in questo caso un’operazione puramente mentale.
Quando, invece, arrivo al risultato che 1 + 1 può fare anche tre (come ci “insegna” la metafora del Dio Uno e Trino) sto meditando; ho fatto cioè un’operazione che va al di là delle pure regole mentali, le ri-vede, le trasforma, a volte (come in questo caso) addirittura le sconvolge.
In nome di una logica non solo mentale, puramente intellettuale, ma diversa, io dico addirittura superiore, perché fondata su una intuizione, che coglie altri aspetti del reale, che la pura intelligenza matematica o aritmetica non sarà mai in grado di cogliere.
E che, però, a pensarci bene, sta dietro il mistero della vita stessa.
Cosa accade, infatti, quando un uomo e una donna (ma anche due animali di sesso diverso) si congiungono e concepiscono una nuova creatura, se non il fatto (logicamente paradossale) che uno più uno fa tre e non due?
Vado avanti nella mia riflessione; quando ascolto una persona o leggo un testo e sto attento a capire le parole che ascolto o che leggo, sto pensando, sto facendo anche qui un’operazione soprattutto mentale, anche se non solo mentale; perché qui c’entra anche l’empatia, quindi entrano in gioco anche le emozioni e i sentimenti.
Ma, se ritorno una seconda volta o, addirittura, più volte sulle parole che ho appena ascoltate o lette, in questo caso non sto solamente, semplicemente pensando, sto, infatti, meditando.
Sto facendo, cioè, un’operazione che è qualcosa in più del semplice capire o del rispettare alcune procedure logiche, intellettuali, di puro ed esclusivo pensiero.
Capire, infatti, ha qualcosa a che fare col ricevere, col carpire, col prendere, con l’impossessarsi di un concetto.
Meditare ha a che fare, invece, piuttosto col dare, col produrre, con il generare, con il mettere a frutto ciò che ho capito, ciò che ho carpito, com-preso, ciò di cui sono entrato in possesso quando ho semplicemente pensato o solo visto, guardato qualcosa.
Capire mi fa pensare alla pianta che, per vivere, ha bisogno di ricevere periodicamente acqua e concime.
Meditare alla pianta che, dopo aver assorbito acqua e concime, produce prima fiori e poi frutti.
Capire ha a che fare prevalentemente con l’ascoltare e il leggere.
Meditare piuttosto con il parlare (anche solo con sé stessi) e con lo scrivere (fosse anche solo una pagina di diario).
So bene, lo leggo dai vocabolari, che la parola “meditare” deriva dal latino “meditari”, che, a sua volta, deriva dalla parola “mederi”, che vuol dire “curare”, raccostato nel significato al greco “μελετάω”, che equivale a “curarsi di” o “curare qualche cosa”, dopo aver (appunto) riflettuto, pensato; equivale, potremmo dire anche, a “medicare” (vedi vocabolario Treccani).
Ma a me piace pensare che la parola “meditare” abbia a che fare anche con questa etimologia: “medium + ire”; ovverossia con l’andare, l’entrare in mezzo, cioè dentro, nel cuore delle cose, oltre la loro apparenza superficiale, semplicemente fenomenica, fisica, materiale; per coglierne l’anima, il senso profondo.
Per riceverne in primis alimento spirituale e poi, in seconda battuta, comunicarlo, socializzarlo, donarlo a tutti coloro coi quali abbiamo a che fare, coi quali entriamo in contatto, in relazione.
Questo secondo movimento, infatti, viene naturale, spontaneo, dopo aver meditato.
E qui mi sovviene la famosa frase di Tommaso d’Aquino contenuta nella sua “Summa Theologiae”: “contemplata aliis tradere”; divenuta poi motto dell’Ordine Domenicano.
Che potrebbe essere – io penso – condiviso dalla maggior parte degli uomini di pensiero, anche da quelli del tutto alieni da qualsiasi fede religiosa.
© Giovanni Lamagna
Essere e fare.
Pare che Sartre abbia detto, l’ho letto da qualche parte, ma non sono riuscito a verificare la fonte: “E’ vero che non sei responsabile di quello che sei, ma sei responsabile di quello che fai di ciò che sei”.
Premesso che non so se Sartre abbia fatto davvero un simile affermazione (essa è comunque abbastanza coerente col suo pensiero, quindi è probabile che l’abbia detta), mi faccio alcune domande.
Se io non sono responsabile di quello che sono, come posso essere responsabile di quello che faccio di ciò che sono?
Il fare non è sempre collegato all’essere?
Le mie azioni non sono sempre espressione fedele di ciò che sono?
Posso agire in maniera diversa da ciò che sono?
Io alla frase di Sartre preferisco questa parafrasi mia: “E’ vero che non sei responsabile di quello che sei e di quello che fai (come, forse, direbbe anche Kant in base alla logica della ragion pura), ma agisci e comportati sempre come se lo fossi (come, forse, direbbe Kant in base alla logica della ragion pratica)”.
© Giovanni Lamagna
Il decalogo dell’uomo del dialogo
Non è facile né naturale dialogare.
Non si dialoga perché si è portati in maniera istintiva e spontanea a dialogare.
Si dialoga dopo e perché si è stati o ci si è formati, educati al dialogo.
Per dialogare bisogna, infatti, osservare alcune regole allo stesso modo di come bisogna osservarne altre quando si va alla guerra.
Chi vuole dialogare deve possedere alcune caratteristiche, che lo fanno “uomo del dialogo”; esattamente come chi va alla guerra deve possedere determinate caratteristiche che lo fanno “uomo della guerra”.
Regole che bisogna apprendere e conoscere bene; caratteristiche a cui bisogna formarsi, educarsi; né le une né le altre sono in noi innate.
Non si nasce né ci si improvvisa uomini del dialogo.
Qui di seguito indico alcune regole che, a mio avviso, deve saper osservare l’uomo del dialogo e alcune qualità che lo devono caratterizzare.
1. L’uomo del dialogo deve essere innanzitutto una persona in buona fede: non può essere un mentitore, non può ricorrere a trucchi e furbizie pur di riuscire a prevalere sull’altro.
2. Deve amare la verità più delle proprie opinioni e, persino, delle proprie più profonde convinzioni.
3. Deve essere consapevole che nessuno possiede la Verità, ma che ciascuno di noi è portatore di una sua verità, di uno spicchio di verità.
4. Deve essere dunque una persona flessibile, aperta, disposta a mettere in discussione le proprie opinioni e convinzioni personali.
5. Anche quando ha una opinione consolidata, deve cercare di entrare nel punto di vista dell’altro e verificarne la logica interna, disposto a modificare la propria opinione iniziale quando questa viene messa in discussione dal ragionamento che fa l’altro.
6. Deve essere interessato a cercare e trovare una verità superiore alla sua, non ad affermare la propria “verità” su quella dell’altro.
7. Deve essere disposto a trovare un punto o punti di mediazione con l’altro.
8. Deve essere capace, avere la forza e l’umiltà allo stesso tempo, di rinunciare alla propria opinione quando quella dell’altro si dimostra più vera e convincente della sua.
9. Non deve alzare mai il tono della conversazione: né quello della voce, né quello della discussione; perché “dialogare” è il contrario del “polemizzare”, che è un modo di “fare la guerra” (“polemizzare”: da “polemos”= guerra); il dialogo non è un duello in cui ci si scontra, ma un luogo e un tentativo di incontro.
10. Quando il dialogo è terminato, l’uomo del dialogo non ha mai la sensazione di esserne uscito vincitore o sconfitto, perché nel dialogo chi vince è la verità, non uno dei due dialoganti.
© Giovanni Lamagna
Due modi di guardare alla Storia
Ci sono due modi di guardare alla storia.
Il primo è quello di guardare agli avvenimenti storici con l’occhio dell’osservatore neutrale, che cerca di fotografarli o di descriverli il più fedelmente possibile, astenendosi da ogni giudizio di valore, meno che mai di natura etico/morale.
E’ questo l’atteggiamento di chi guarda ai fatti storici come ciò che, se è accaduto, non poteva che accadere e non poteva che accadere così; come se il prima e il dopo dei fatti storici fossero legati tra di loro anche da un rapporto di causa ed effetto.
E la storia lasciasse ben poco spazio, anzi nessuno spazio, al caso, all’imponderabile, a ciò che, almeno in teoria, poteva essere, ma non è stato poi nella realtà.
Da questo punto di vista acquista un senso particolare ai miei occhi la famosa affermazione hegeliana “Ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale”.
Laddove qui la categoria del “razionale” non ha evidentemente niente a che fare con il “buono” e con il “giusto” e, meno che mai, con ciò che per noi sarebbe stato “auspicabile”.
Cioè con categorie etiche che potremmo definire universali e atemporali, che dovrebbero valere sempre e ovunque, non solo post, ma anche ante quam, a prescindere dunque dal contesto di tempo e di luogo, nel quale si svolgono gli avvenimenti storici.
Ma è una categoria logica, gnoseologica, interpretativa, da utilizzare solo post quam, come pura presa d’atto della realtà storica, che, se si è realizzata in un modo, non poteva realizzarsi altrimenti; e, quindi, ha per forza di cose una sua logica, anzi la sua razionalità.
Chi fa lo storico per mestiere, a mio avviso, non può che guardare alla storia con questo occhio.
Lo studioso della Storia non deve (o non dovrebbe) dunque emettere giudizi sui fatti storici, ma deve (dovrebbe) limitarsi a ricostruirli il più possibile in maniera fedele e integrale, senza ometterne e senza falsarne alcuno; il suo deve (dovrebbe) essere quindi quasi l’occhio di un fotografo.
C’è, però, anche un secondo modo di guardare alla Storia.
Che non è quello dello storico professionista, ma è lo sguardo di chi utilizza in qualche modo la Storia per fare altre professioni o attività: quelle del filosofo, del sociologo, del politico, perfino dello psicologo.
Anche questo sguardo sulla Storia legge i fatti accaduti nel passato non certo e neanche tanto per emettere giudizi su quanto accaduto.
A cosa servirebbe? Il passato è oramai passato!
Quanto per trarne delle lezioni, degli insegnamenti rispetto alla propria azione nel presente, tesa a costruire il futuro.
Il futuro proprio, innanzitutto: di singolo individuo, di singola persona.
Ma anche quello delle collettività in cui il filosofo, il sociologo, il politico, lo psicologo si trovano a svolgere la loro professione o attività.
Valutare gli insuccessi, i fallimenti di molte imprese e personaggi storici può aiutare ciascuno di noi, ma in modo particolare coloro che svolgono le professioni che ho nominato sopra, a fare scelte, ad adottare comportamenti diversi, a trovare soluzioni alternative a quelle, che, in situazioni storiche simili o affini a quelle in cui ci troviamo ad operare nel presente, furono adottati nel passato.
Nella speranza (ahimè, quante volte, però, disattesa!) che la Storia si dimostri (non dico sempre, ma almeno qualche volta) “magistra vitae”.
© Giovanni Lamagna
Alcune semplici e brevi riflessioni attorno ai concetti di reale, razionale, simbolico, necessario, possibile e accidentale.
Vorrei avviare questa mia riflessione a partire da due affermazioni (molto nota la prima, meno nota la seconda) di due filosofi di grande fama e importanza, Hegel e Schopenhauer.
Hegel: “Tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è anche reale” (da “Lineamenti di filosofia del diritto”; Bompiani 2006).
Schopenhauer: “Tutto ciò che è reale è necessario e tutto ciò che è necessario è anche reale.” (da massima n. 39; “L’arte di essere felici”; Adelphi 2017).
Premetto, di passaggio, che, a mio avviso, le due affermazioni dicono molto del pensiero dei loro autori e denotano con estrema chiarezza la profonda differenza che passa tra la filosofia di Hegel e quella di Schopenhauer.
Quella di Hegel è, come sappiamo bene, una filosofia razionalista e idealista: la realtà è razionale in quanto corrisponde all’idea, che si incarna, appunto, nella realtà.
Quella di Schopenhauer è una filosofia realista e allo stesso tempo fatalista: se la realtà è tale, essa non potrebbe essere altrimenti, è “fatale” (ma non certo razionale) che sia così.
Passo quindi a dare la mia personale lettura/interpretazione di alcuni termini adoperati dai filosofi di cui sopra, anche se due di essi (“possibile” e “accidentale”) non compaiono nelle due frasi citate, ma vengono adoperati da Schopenhauer nell’ambito dello stesso discorso.
Il concetto di “simbolico” non viene usato in nessuna delle due frasi; lo utilizzo io per evidenziarne la distinzione da quello di “razionale”.
E’ “reale” il possibile che non è rimasto al livello puramente teorico dell’idea, ma si è tradotto concretamente nei fatti e nelle cose.
E’ “razionale” tutto ciò che corrisponde ad una logica puramente mentale, astratta; ad esempio, è razionale l’idea che obbedisce al principio di non contraddizione; il che non vuol dire che sia anche reale; altro esempio: le operazioni matematiche sono razionali, ma non sono reali; sono simboliche, non reali.
Il “simbolico” per definizione ha indubbiamente un rapporto col reale, ma, altrettanto indubbiamente, non coincide col “reale”.
E’ “necessario” ciò che non solo era possibile ad un livello teorico e astratto ma che non poteva non realizzarsi.
E’ “possibile” ciò che è nell’ordine puramente intellettuale, teorico, delle cose, ma non si è ancora di fatto realizzato, né è detto che si realizzerà mai.
E’ “accidentale” ciò che si è realizzato, ma poteva anche non realizzarsi.
Fatta questa premessa di natura puramente terminologica, mi verrebbe da dire che sul piano pratico, del reale effettivo, l’accidentale non esiste, in quanto tutto ciò che si realizza (il reale), se si è realizzato, non poteva non realizzarsi e quindi era necessario, non accidentale.
Lo stesso possibile, in fondo, è un concetto puramente astratto e teorico, fin quando non si realizza; e, se e quando si realizza, vuol dire che era anche necessario.
Di conseguenza possiamo dire che gli unici concetti, tra quelli sopra elencati, a cui corrispondono entità concrete, effettivamente sussistenti, palpabili, percepibili, sono quello di reale e quello di necessario.
Il reale, se si è realizzato, vuol dire che era necessario.
E ciò che è necessario non può non essere anche reale.
In conclusione e per quello che può valere, se può interessare a qualcuno, mi sono fatto l’idea che tra le due affermazioni da cui sono partito all’inizio, quella di Hegel e quella di Schopenhauer, sia molto più vicina alla realtà effettiva delle cose quella di Schopenhauer che quella di Hegel.
© Giovanni Lamagna
A cosa obbedisce il bisogno di scrivere.
26 luglio 2015
A cosa obbedisce il bisogno di scrivere.
Ha ragione Domenico Starnone, quando in una intervista, alla domanda “A cosa obbedisce il bisogno di scrivere?”, risponde più o meno così: “Al bisogno di mettere ordine nella propria vita.”
Starnone risponde da scrittore narratore di storie quale egli è.
Ma la stessa risposta credo possa darla un qualsiasi tipo di scrittore, anche quello che scrive di saggistica.
Anzi, forse, a maggior ragione il saggista, che scrive utilizzando il registro della pura logica, del pensiero analitico, laddove il narratore si affida piuttosto al libero fluire delle emozioni.
E, aggiungo, la stessa risposta potrebbe darla qualsiasi persona (anche quella che scrittore “ufficialmente” non si può definire, perché non ha scritto libri, né saggi, né articoli di giornali…), la quale avverta il bisogno di raccontarsi nella scrittura con l’obiettivo del tutto gratuito e disinteressato di mettere sul foglio di carta (o sulla pagina del computer) le proprie emozioni e i propri pensieri.
Anche solo per se stesso, senza far leggere a nessuno le cose da lei scritte. Come avviene, ad esempio, quando si scrive un diario.
La scrittura (qualsiasi tipo di scrittura), ancora più della parola parlata, obbedisce al bisogno/desiderio di mettere ordine nella propria vita interiore, nel mondo delle proprie emozioni, dei propri sentimenti, dei propri pensieri.
E’ un modo di comunicare con l’Altro da Sé, di mettere pace tra il Sé e l’Altro da Sé.
Giovanni Lamagna