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Il contemplativo e la sapienza.

Non c’è forse frase più bella per definire l’atteggiamento interiore del contemplativo che questa: “Maria serbava in sé tutte queste cose, meditandole in cuor suo.” (Luca 2; 19).

Il contemplativo è, infatti, uno che, in un certo momento della sua vita, ha ricevuto una rivelazione e la custodisce poi in cuor suo, come un tesoro, meditandoci sopra.

E da quella prima illuminazione (custodita, coltivata e meditata) ne sgorgano, ne zampillano poi, come da una sorgente continua, cento, mille altre, cui fanno seguito pensieri e parole di sapienza.

© Giovanni Lamagna

Contemplazione, identità e rapporto con gli altri.

Il contemplativo è sempre presente a sé stesso.

Perché vive costantemente in rapporto con l’Altro da sé.

Che è il suo Sé più vero, autentico, quello che gli dà identità, continuità e, allo stesso tempo, lo spinge a muoversi, a camminare, ad evolvere.

Chi, invece, contemplativo non è vive continuamente fuori di sé, rapportandosi agli altri prima che a sé stesso, nell’illusione di costruire in questo modo un autentico e più veloce, rapido, rapporto con gli altri.

Diventa allora una sorta di canna al vento, di banderuola: cambia direzione a seconda del vento.

Cambia modo di essere a seconda delle persone con le quali entra in relazione.

Si conforma a loro, al loro pensiero, ai loro desideri, come se dicesse continuamente “così è se vi pare”.

Non ha un suo pensiero autonomo, un suo personale desiderio.

In altre parole non ha una sua identità.

E, senza una forte identità, come ci ha insegnato Erik Erikson, non si riesce neanche a costruire autentici rapporti con gli altri.

© Giovanni Lamagna

Religioso, spirituale, contemplativo, estatico, mistico

L’atto più profondamente religioso e spirituale che conosco (i due termini – spirituale e religioso – per me sono quasi sinonimi) è quello che ci mette in comunione con qualcosa che va al di là dei confini ristretti del nostro Ego.

Più il nostro Ego si dilata, si trascende – non in senso fisico ma psichico – e più noi viviamo un’esperienza religiosa e spirituale.

Arrivare a sentirsi parte del Tutto, dell’Umanità e, persino, del Cosmo, vivere questa esperienza non solo sul piano mentale, ma anche su quello emotivo e perfino su quello fisico-percettivo, è l’esperienza massima della spiritualità.

Quella che comunemente viene definita un’esperienza contemplativa, estatica o mistica.

© Giovanni Lamagna

L’atteggiamento del contemplativo

“Fare esperienza di qualcosa – si tratti di una cosa, di un uomo, di un Dio – significa che quel qualcosa per noi accade, che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge e trasforma” (Martin Heidegger; “In cammino verso il linguaggio”; pag. 127).

In questa frase è descritto bene, a mio avviso, (come forse meglio non si potrebbe) l’atteggiamento fondamentale del contemplativo: di fronte alle cose, agli uomini e a Dio.

Nell’atto contemplativo predomina l’oggetto. E il soggetto si fa quanto più vuoto è possibile di fronte ad esso, per ascoltarlo, vederlo, toccarlo, annusarlo, accoglierlo.

E’ forse questa l’esperienza dell’estasi (ec-stasi): il soggetto che si apre all’oggetto e se ne fa penetrare, riempire, “trasformare”, come dice Heidegger.

Giovanni Lamagna

Ancora a proposito di filosofi

5 gennaio 2016

Ancora a proposito di filosofi.

A dir la verità, a mio modo di vedere, non esiste il filosofo come categoria unica e universale. Esistono tanti tipi di filosofi e la storia di questa “disciplina” ne è la dimostrazione.

Per me esistono almeno due categorie di filosofi.

Esiste il filosofo che fa filosofia. Ed esiste il filosofo che fa discorsi filosofici. Come saggiamente ci fa rilevare Pierre Hadot nella prefazione al suo “Esercizi spirituali e filosofia antica” (pag.XIII).

C’è il filosofo che fa pura teoria, che costruisce un sistema (o dei sistemi) di pensiero. Per il quale la sua vita è cosa non solo diversa ma del tutto separata dalla sua teoria e dal suo sistema di pensiero.

E c’è il filosofo per il quale la filosofia è un’interrogazione continua su se stesso e sul mondo, per il quale la sua vita altro non è che una incarnazione del suo pensiero. E questo attinge continuamente materia di riflessione dalla sua vita.

C’è il filosofo erudito che ha coltivato essenzialmente la mente. E c’è il filosofo colto che ha curato essenzialmente la sua vita. E, quindi, anche, ma non solo, la sua mente.

Il primo è quasi esclusivamente concettuale e teorico. Il secondo è essenzialmente un contemplativo o molto vicino alla natura del contemplativo.

A mio modo di vedere solo questo secondo è un vero filosofo, nel senso letterale del termine, cioè di “amante della sophia”.

Il primo fa il filosofo di mestiere o di professione che dir si voglia. E’ spesso uno stanco burocrate della ricerca.

Il secondo è filosofo come modus vivendi; la filosofia è l’essenza stessa della sua vita, è il suo daimon, la sua vocazione, il suo tormento e la sua estasi, insomma il modo privilegiato attraverso il quale egli ama (e riesce ad) esprimere la propria creatività.

Il primo è capace tutt’al più di trasmettere le sue conoscenze, che sono di natura essenzialmente nozionistica.

Il secondo (e solo il secondo) è per me un vero Maestro, in quanto testimone di una pratica di vita oltre che di un pensiero.

Giovanni Lamagna

Chi è il filosofo?

3 gennaio 2016

Chi è il filosofo?

Il filosofo è (ovviamente) un uomo come gli altri.

Ma, allo stesso tempo, è (e deve essere) un uomo diverso dagli altri.

L’uomo comune è essenzialmente un uomo che agisce, un uomo della prassi. Anzi, sarebbe meglio dire, è un uomo che è agito. Fa, infatti, le cose non perché sceglie di farle, ma perché le deve fare. Mosso da una specie di automatismo, che è dato in parte dall’istinto e in parte dalle convenzioni sociali.

Il filosofo nasce nel momento in cui l’uomo comune (in lui) smette di agire (o, meglio, smette di farsi agire), smette di essere l’ignaro funzionario di una prassi inconsapevole, e comincia a pensare, a farsi delle domande sul senso del suo agire, anzi sul senso stesso del suo essere al mondo.

In quel momento avviene una sorta di “metanoia”, di trasformazione interiore. Quella che Pierre Hadot, nella prefazione a suo libro “Esercizi spirituali e filosofia antica”, non esita a definire come una vera e propria “conversione”.

Il neonato filosofo, prima e più che “vivere fuori”, comincia allora a “vivere dentro” e a guardare il mondo con un “terzo occhio”.

Il “terzo occhio” è l’occhio interiore, l’occhio del contemplativo, di cui è privo l’uomo comune, che è tale in quanto puro uomo di azione, preso da mille impegni ma tutti esteriori, insensibile all’unica cosa veramente necessaria.

Martha, Martha solicita es et turbaris erga plurima. Porro unum est necessarium. Maria optimam partem elegit quae non auferetur ab ea” («Marta, Marta, tu ti affanni e t’inquieti per troppe cose. Ma una sola è necessaria. Maria ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta»).

“Porro unum est necessarium” («una sola cosa è necessaria») sono le parole che Gesù, nel Vangelo di Luca (10, 42), rivolge a Marta, la quale, affannata in molte faccende, si lamenta che la sorella Maria rimanga seduta ai piedi del Signore ascoltando le sue parole, invece di darle aiuto nel servire il loro comune Maestro.

Giovanni Lamagna

Gli incontri non sono mai casuali

27 marzo 2015
Gli incontri non sono mai casuali.
Sono abbastanza convinto che gli incontri non avvengano mai per caso.
Ovviamente non sto parlando degli incontri “mordi e fuggi”, che durano lo spazio di un istante, che sono un semplice sfioramento di corpi, senza che quasi manco ci si accorga l’uno della presenza dell’altro.
Per quanto anche in questi casi ci sarebbe da (e si potrebbe) approfondire se tali incontri “mordi e fuggi” non rimangono tali a causa della nostra superficialità, della nostra incapacità a cogliere i segnali e le opportunità che ci vengono da essi o, invece, a causa della pura contingenza e necessità delle cose.
Se sono in un aeroporto e incrocio per un attimo una persona al check-in, probabilmente prevale la seconda ipotesi.
Se, però, incontro una persona in treno e mi ci metto a parlare per tutto il tempo del viaggio (più o meno lungo) e questa persona suscita il mio interesse ed io il suo, ma poi, quando arriviamo a destinazione, ognuno prende la sua strada, come se l’incontro fosse stato puramente fortuito e casuale, allora, forse, può anche valere la prima ipotesi.
A maggior ragione la mia tesi vale quando l’incontro avviene sulla base di un’attrazione (anche solo fisica), della condivisione di interessi e di valori, di circostanze di vita che tendono a ripetersi e prolungarsi, di una frequentazione costante o anche solo periodica.
Allora, in questi casi, l’incontro non è mai casuale. E’ avvenuto sulla base di una intenzionalità più o meno inconscia, più o meno consapevole. In qualche modo era ricercato, era voluto, era – si potrebbe dire -nelle cose, qualcun altro potrebbe anche dire “destinato” ad avvenire.
Perché? Cosa c’è dietro un incontro? Che cosa lo rende meno casuale di quello che appare ad uno sguardo superficiale? Quali elementi e fattori in un certo senso lo programmano, lo rendono inevitabile, quasi il frutto di un destino?
Per rispondere a queste domande occorre, a mio avviso, partire da una premessa. Ogni essere umano è chiamato a realizzare un potenziale; Victor Frankl, un grande psicologo austriaco, diceva “un compito”; e, infatti, a un suo libro famoso, la sua autobiografia, diede il titolo di “La vita come compito”.
L’essere umano può esserne più o meno consapevole, ma questo compito, questo potenziale da realizzare esiste. Ne parlava anche Gesù nella famosa parabola dei talenti.
Poi ognuno di noi può decidere di investire questi talenti e farli sviluppare, crescere; oppure può conservarli e nasconderli in un cassetto o, addirittura, sottoterra e farli deprezzare: questa è una sua scelta.
Ma non può negare di avere dei talenti a sua disposizione, più o meno cospicui, ma comunque talenti; in termini di capacità fisica (forza, bellezza, sensualità…), di emotività e affettività, di intelligenza, di saperi acquisiti nell’ambiente natio (famiglia, vicinato, quartiere…).
Ognuno di noi è, insomma, chiamato (se non altro chiamato, anche se poi non tutti rispondono a questa chiamata) ad evolvere, a non rimanere tale e quale a come era alla nascita, a sviluppare i suoi talenti, il suo potenziale.
Ora, per fare questo, fondamentali, decisivi, sono gli incontri che facciamo nella nostra vita. La maggior parte o molte delle cose che apprendiamo dipendono dalle persone che incontriamo; o, meglio, che “decidiamo” di incontrare.
E qui torno al discorso iniziale. Io, in ogni momento della mia vita, in un certo senso, decido chi incontrare e chi non incontrare. Più o meno inconsciamente o consciamente, sono alla ricerca di quella/e persona/e da cui posso prendere le cose che mi servono per evolvere e a cui posso dare (perché è un compito anche quello di dare) le cose che servono a lei, in uno scambio di reciproco arricchimento.
E, quando la incontro, la “trattengo”, me la “tengo cara”, perché essa (a voler usare un termine che può sembrare cinico, ma, secondo me, è efficace ed appropriato) mi “serve”.
Per questo molte volte (se non il più delle volte) noi andiamo a cercarci, a incontrare, persone molto diverse da noi: la persona introversa quella estroversa, la persona istintiva e passionale quella più meditativa e riflessiva, la persona attiva quella contemplativa, la persona pratica e portata alla manualità quella intellettuale e più portata alla teoria, la persona coraggiosa e audace quella più prudente e consapevole…
Da ciascuna di esse prendiamo quello che ci “serve”, cioè quello che ci manca, la parte di noi che è più carente e che vogliamo sviluppare.
Giovanni Lamagna