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Realizzare il proprio daimon, la propria vocazione.

Cercare di realizzare quello che i Greci chiamavano il proprio “daimon”, cioè la propria vocazione, non vuol dire affatto inseguire fantasie o sogni irrealizzabili.

Del tipo diventare attori o attrici, calciatori, uomini politici potenti, ricchi imprenditori, scienziati o artisti famosi…

Questi sogni e fantasie sono solo la parodia del nostro daimon, anzi ne impediscono la effettiva realizzazione.

Con l’esito inevitabile di delusioni e frustrazioni.

Realizzare il nostro daimon significa innanzitutto avere una realistica consapevolezza delle proprie potenzialità e del contesto economico, sociale, culturale, politico, familiare nel quale ci troviamo a vivere.

Solo sulla base di questa consapevolezza noi potremo individuare la nostra vera e specifica e vocazione e provare a realizzarla.

E, se ci metteremo d’impegno, sicuramente riusciremo a realizzarla (qualunque essa sia) e potremo esserne così felici e soddisfatti.

Che non significa – sia detto per inciso – vivere una vita senza dolori e, in certi momenti, addirittura angosce.

Significa solo riuscire a dare un senso e una direzione di marcia a questi dolori e a queste angosce.

© Giovanni Lamagna

Dopo aver visto l’ultimo film di Nanni Moretti “Il sol dell’avvenire”.

Il cinema di Nanni Moretti (da “Ecce bombo” in poi, il primo film che ho visto di questo autore nel lontano 1978) è sempre stato un cinema di confessione, una sorta di diario per immagini o di auto-psicoanalisi davanti alla macchina da presa.

Questo film lo è forse ancora di più, in una forma ancora più dichiarata.

In primo luogo perché, non a caso, alcune sue scene sono dedicate alla psicoterapia della moglie del protagonista (Paola), attraverso la quale Giovanni (Moretti), il marito/regista, sembra quasi voler psicoanalizzare sé stesso.

E poi perché il film procede per spezzoni disordinati, messi in sequenza quasi a caso, come se fossero il frutto, il parto di libere associazioni, come avviene appunto (o dovrebbe avvenire) in una seduta di psicoanalisi.

Attraverso la psicoanalisi dell’autore, infine, noi spettatori siamo portati a nostra volta a psicoanalizzarci, a guardare dentro noi stessi, identificandoci coi o dissociandoci dai vari personaggi del film in maniera sempre emotivamente molto forte.

Da questa sorta di diario aperto o di autoanalisi pubblica – ovviamente confusi e a tratti perfino caotici – è possibile cogliere però, in maniera abbastanza chiara e distinta, i temi centrali del film, che sono poi quelli classici della filmografia di Moretti.

Innanzitutto l’amore e la politica, che a me appaiono posti sullo stesso piano, intrecciati in maniera che definirei indissolubile, essendo i temi che hanno caratterizzato un’intera generazione (quella che ha vissuto la sua giovinezza a cavallo tra gli anni ’60 e ‘70).

O almeno quella parte di generazione, che – pur essendo, a pensarci bene, minoritaria – ne ha comunque segnato il tratto caratteristico, potremmo anche dire storico: la commistione indissolubile tra pubblico e privato (“il personale è politico”).

Relativamente a queste due tematiche (che sono quelle centrali del film) una battuta mi ha colpito in un modo particolare; quella che pronuncia Margherita Buy (Paola la moglie di Giovanni, il regista) in una delle sedute con lo psicoanalista: “Io e Giovanni parliamo di tutto… di politica, di cinema, di lavoro… tranne che di noi due…”.

Come ad esprimere un bisogno, un desiderio ed allo stesso tempo confessare una difficoltà, un’incapacità, che sono non solo di Moretti uomo, ma forse quelle di una intera generazione.

Bisogni, desideri, difficoltà, incapacità, che, a loro volta, mi ricordano una canzone famosa di Giorgio Gaber, “Chiedo scusa se parlo di Maria”, le cui parole raccontano un problema molto simile a quello espresso da Paola/Buy nel film di Moretti:

Non è facile parlare di Maria… ci son troppe cose che sembrano più importanti… mi interesso di politica e sociologia… per trovare gli strumenti e andare avanti… mi interesso di qualsiasi ideologia… ma mi è difficile parlare di Maria…

Se sapessi parlare di Maria… se sapessi davvero capire la sua esistenza… avrei capito esattamente la realtà… la paura, la tensione, la violenza… avrei capito il capitale, la borghesia… ma la mia rabbia è che non so parlare di Maria…”

Il terzo tema che emerge dal film è una riflessione sul cinema stesso: il cinema di oggi e il cinema del passato, quello a cui Moretti chiaramente si ispira (a cominciare, ovviamente, da quello di Fellini, di cui nel film ricorrono almeno tre citazioni, parlate o semplicemente sceniche).

Il quarto è collegato al terzo: è il tema della violenza, che sembra essere diventato quello centrale di un certo cinema contemporaneo e che Moretti stigmatizza in maniera esplicita e molto forte: è una vera e propria istigazione alla violenza; la tragedia greca o Shakespeare (per citare alcune battute del film) non c’entrano nulla!

Il quinto mi sembra essere il tema della “terza età”: forse per la prima volta nei suoi film Moretti si vede e si riconosce come uomo oramai anziano, che non ha più molto tempo davanti a sé (chiara l’allusione a questo tema, quando dice ai suoi attori: “… bisogna accelerare, andare più veloci!”).

Moretti lo affronta con dolente malinconia, che a tratti sfiora persino la depressione; ma questa poi alla fine non la vince, perché ben presto in lui prevale il bambino, che canta, che balla, che ha occhi pieni di candido stupore, che gioca perfino a pallone da solo in una piazza vuota.

Infine, il tema di una visione (a voler usare un aggettivo eufemistico) disincantata del presente, che, non a caso, nella prima stesura della sceneggiatura ispira al regista-autore-del-film-nel-film una scena finale disperata, quasi nichilista, figlia evidente del suo “pessimismo della ragione”.

Che però, d’improvviso, al termine della lavorazione, quasi all’ultimo ciak, viene completamente ribaltata (è forse questo l’esito finale della psicoterapia pubblica a cui Moretti si è sottoposto?) da una visione del futuro, nonostante tutto sommato, illuminata dalla speranza.

Visione, io credo, figlia di un “ottimismo della volontà”, a cui evidentemente l’autore – nonostante tutto – pur senza ricorrere ad alcuna sdolcinatura retorica, non sa e non vuole rinunciare.

La citazione delle parole di Gramsci mi pare qui d’obbligo vista la presenza incombente nel film del grande (ed eretico) pensatore sardo, posta forse in contrapposizione all’altro grande (ma allineato e coperto) esponente del PCI, Togliatti.

Anche qui non a caso la scena finale del film, che si svolge lungo i Fori imperiali di una Roma luminosa e assolata, è una sorta di citazione della marcia del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, completamente rivisitata, però.

A marciare, infatti, sono gli attori storici di Moretti, quelli che hanno recitato in molti suoi film (cosa voleva dire Moretti qui: il suo addio al cinema? mi auguro di no!), e allo stesso tempo i politici (a cominciare da Togliatti) che sono stati protagonisti di sfondo del suo “film nel film”.

Marciano però sotto i vessilli degli sconfitti della Storia (si intravede – unico e, a mio avviso, non casuale – il ritratto di Trotsky), a voler significare che non è vero che la storia non si può fare con i “se” e i “ma”.

La tesi di Moretti (affermata in modo esplicito nel film) è che la Storia la si può giudicare e valutare (eccome!) con i “se”, se non altro perché questo potrebbe insegnarci qualcosa per il futuro e impedirci gli stessi errori (spesso tragici) compiuti in passato.

In conclusione – sembra dire Moretti – non si può e non si deve rinunciare alla speranza e alla lotta perché in futuro il sole (le utopie in cui molte generazioni avevano creduto) torni a splendere.

Magari apprendendo dalle lezioni che ci ha dato la Storia e correggendo gli sbagli, in certi casi i clamorosi abbagli, che quelle utopie contenevano e che hanno portato agli esiti disastrosi, che sono sotto gli occhi di tutti noi.

Come chiudere, infine, questa mia personale e direi intima recensione del film di Moretti, senza citare le canzoni che ne formano, in un certo senso, la colonna sonora (un classico morettiano!)?

In modo particolare: “Think”, cantata da Aretha Franklin e ascoltata in auto da Giovanni e Paola, che, quasi in trance, si mettono a ballare fanciullescamente (specie Moretti) sulle note della musica.

E poi “Sono solo parole” di Fabrizio Moro, cantata a squarciagola, come in un momento liberatorio, da tutta la troupe del film che Giovanni/Moretti sta girando; forse a significare che le parole della politica sono insignificanti e vane, quando sono staccate dalla vita reale, emotiva e sentimentale, anche privata, delle persone.

Quindi “Lontano, lontano” di Luigi Tenco, che compare in un momento topico della lavorazione del film, quando il vero tema si rivela essere (finalmente!) quello dell’amore e non quello politico; quando Barbara Boulova, con sfacciato e femminile candore, sbotta e dice “Chi se ne frega della politica, questo è un film d’amore!”.

E poi “La canzone dell’amore perduto” di Fabrizio De André, che fa da sottofondo malinconico alla separazione in atto tra Paola e Giovanni, che Paola è (oramai e, anche qui, finalmente!) decisa a realizzare (“il rapporto con te è troppo faticoso”), ma alla quale Giovanni, il marito/regista, invece, non vuole rassegnarsi.

E, infine, “Voglio vederti danzare” di Franco Battiato, che chiude la lavorazione del film a cui sta lavorando il regista Giovanni/Moretti in forma definitivamente liberatoria, quando la scena (prevista) dell’impiccagione del protagonista (Silvio Orlando) viene sostituita da un ballo collettivo degli attori, che diventa poi corteo lungo la via dei Fori imperiali.

© Giovanni Lamagna

Sui sensi di colpa.

Non tutti i sensi di colpa sono uguali: esiste un senso di colpa insano e un senso di colpa sano.

E’ un senso di colpa insano quello di Adamo ed Eva, che si coprono il viso, provano vergogna perché si scoprono nudi, appena dopo aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male.

Eppure hanno fatto quello che dovevano fare, quello che erano destinati a fare, per diventare pienamente umani, adulti e non restare più bambini: conoscere il bene e il male, prendere consapevolezza della radicale differenza tra il bene e il male e della possibilità conseguente di scegliere tra l’uno e l’altro.

Se non avessero mangiato quel frutto, Adamo ed Eva sarebbero rimasti per sempre immaturi, infantili; beati, ma beoti; avrebbero quindi tradito la loro umanità.

E’ un senso di colpa sano, invece, quello che a volte ci perseguita, ci tallona, quando tradiamo il nostro desiderio, il nostro daimon, la nostra vocazione profonda, il desiderio che ci chiama a realizzare noi stessi.

E’ un senso di colpa sano quello che proviamo quando, per obbedire ad un comandamento che ci viene da fuori, non obbediamo al comandamento che ci viene da dentro, quando non ci assumiamo la responsabilità delle nostre scelte e decisioni.

E’ sano, nel senso di vitale, quel sentimento che ci fa sentire in colpa per le nostre timidezze, paure, insicurezze, pigrizie; in una sola parola: per la nostra accidia.

E’ il senso di colpa che probabilmente comunque avrebbero avvertito Adamo ed Eva, se non avessero mangiato il frutto dell’albero del bene e del male, se, per restare comodi, beati, a sfruttare gli agi che assicurava loro il Paradiso terrestre, non avessero seguito la loro vocazione profonda a conoscere, fosse pure il male (ma esiste il bene senza il male? si può conoscere il bene senza conoscere anche il male?).

E’ insano il senso di colpa che alcune volte proviamo per aver avuto coraggio, per aver sfidato la norma sociale, la convenzione, che ritenevamo in cuor nostro ingiusta, per aver creato noi una nuova norma, più in accordo con la nostra coscienza (fosse anche valida solo per noi), per essere diventati dunque un po’ più padroni di noi stessi e non asserviti al volere di altri o al pensiero comune.

E’ sano, invece, il senso di colpa opposto, quello che proviamo quando non abbiamo il coraggio che ci viene richiesto in alcune circostanze, quando preferiamo seguire la corrente, anziché andarle contro, intrupparci nel gregge, anziché uscirne, lasciarsi andare al corso delle cose, facendocene trascinare, senza prendere in mano la nostra vita e diventarne attori protagonisti e non comparse anonime.

Credo sia sufficientemente chiaro a questo punto quello che intendevo dire all’inizio: non tutti i sensi di colpa sono uguali; ce ne sono alcuni che hanno ragion d’essere e sono quindi sani, altri del tutto infondati e perciò insani.

© Giovanni Lamagna

Dopo aver visto l’ultima puntata di “Che ci faccio qui”

Piccolo saggio, senza pretese, sull’uso del mezzo televisivo

Ho visto in Raireplay la seconda puntata (titolata “Siamo angeli”) del nuovo ciclo di “Che ci faccio qui”, ideata e realizzata da Domenico Iannaccone e trasmessa il 7 dicembre scorso sul terzo canale della Rai alle 23,15, in un orario in cui normalmente sono già in pieno sonno.

Sento il bisogno di meditarci subito su, per raccogliere le emozioni che mi ha comunicato e le riflessioni che mi ha provocato.

La puntata dell’altra sera raccontava di un uomo, a occhio poco meno o poco più che 40enne, Maximiliano Ulivieri, ridotto su una sedia a rotelle dall’età di due anni a causa di una grave malattia invalidante, sposato da 12 anni con una graziosa ragazza di poco  più giovane, Enza, da cui ha avuto da qualche mese una bellissima bambina, Sophie.

Dico subito che non è la prima volta che vedevo una trasmissione di Iannaccone e che nutro verso questo giornalista dei sentimenti e dei giudizi contrastanti.

Da un lato sono molto attirato dagli argomenti che affronta, oltre che dalle situazioni e dalle persone che si propone di portare sullo schermo; argomenti e situazioni che escono dagli schemi del sentire e del pensare ordinario; persone fuori dal comune, a volte emarginate, spesso anticonformiste e coraggiose.

Mi piace quindi il suo tentativo di proporci modi di vivere insoliti, che cozzano con e mettono quindi in discussione i modi cosiddetti “normali” di noi gente socialmente ben inserita, per non dire del tutto “adattata” alla società nella quale viviamo.

E però non posso fare a meno di notare (non posso nascondermelo) che c’è un che di inautentico (a volte appena percettibile, altre volte più vistoso e appariscente) nel suo modo di fare racconto televisivo, che ne costituisce per me un limite.

Chiariamoci subito: non credo che questa sensazione sia dovuta al fatto che Iannaccone sia una persona inautentica. Anzi, penso esattamente il contrario: sono abbastanza convinto che egli sia una bella persona, sincera, vera, che si sforza di fare con coraggio una televisione di tipo nuovo.

Credo allora che questa sensazione sia da attribuire al fatto che l’uso in sé del mezzo televisivo rende, quasi per sua natura intrinseca, la trasmissione che avviene attraverso questo mezzo una comunicazione non del tutto vera e autentica.

D’altra parte non sono stato certo io, ma il più illustre studioso dei mezzi di comunicazione di massa del secolo scorso, Marshall McLuhan, ad affermare che “il medium è il messaggio”.

E il medium (in questo caso la televisione) deforma in qualche modo la realtà che pure vorrebbe descrivere così come essa è, perché la rende di fatto “altro da sé”, la trasforma in uno “spettacolo”.

Credo, in altre parole, che le persone, le quali si trovino nella condizione di dialogare, comunicare, davanti ad una telecamera siano nei fatti e strutturalmente impediti ad essere totalmente e profondamente se stessi, cioè veri e autentici.

Perché sanno, sono pienamente consapevoli, che in quel momento vengono visti da centinaia di migliaia, se non milioni, di spettatori e, quindi, non possono fare a meno di rivedersi (anche) attraverso gli occhi degli spettatori. Perciò diventano oggetto, in qualche modo attori, di uno spettacolo.

In altre parole ancora, chi comunica normalmente nel privato lo fa in un modo. Le stesse persone, messe nella stessa situazione comunicativa, ma davanti ad una telecamera, non possono comunicare esattamente allo stesso modo, anche se lo vogliono sinceramente e anche se fanno tutti gli sforzi per riuscirci.

Nel secondo caso viene meno, in misura più o meno grave, ma inevitabile, l’autenticità della prima situazione. L’attore, anche quando si immedesima meravigliosamente bene nel personaggio che sta interpretando, è comunque consapevole che sta recitando una parte. E ne sono consapevoli anche gli spettatori.

Anche ieri sera a mio avviso è accaduto questo. Iannaccone ha affrontato, con Maximiliano, Enza e la mamma di Max, argomenti delicatissimi e lo ha fatto con grande, evidente sforzo di tenerezza ed empatia, che è tipico, del resto, del suo modo di fare televisione, ne costituisce la cifra stilistica inconfondibile.

E, però, comunque, come già altre volte, anche nelle diverse conversazioni trasmesse nella puntata di ieri ho notato un qualcosa che sapeva di o quantomeno sfociava nell’artificioso; come se il vero, che pure c’era (ed emergeva: per carità!) si trasformasse in un oggetto di spettacolo e quindi in qualche modo diventasse un po’ meno vero, un po’ artefatto, nel senso proprio letterale del termine.

C’è, a dire il vero, anche una seconda ragione, che non mi ha permesso di apprezzare fino in fondo e del tutto (ma solo fino ad un certo punto ed in parte) il lavoro dell’altra sera di Domenico Iannaccone. E non era la prima volta che mi capitava guardando una sua trasmissione.

Nel racconto, a mio avviso, emergevano troppo – solo ed esclusivamente – gli aspetti positivi della vicenda umana di Maximiliano Ulivieri, del suo rapporto con la moglie, con la figlia e con la sessualità. Il racconto fatto ieri sera mi è sembrato francamente troppo, troppo, idilliaco, fino a sfociare nel sentimentalismo e nella retorica.

Non metto in dubbio (e ne sono felice, ne sono perfino ammirato) che questi aspetti positivi, addirittura di felicità raggiunta, esistano realmente in questa vicenda di vita; ed era giusto metterli in evidenza e perfino portarli sullo schermo, anche se con i problemi di natura semiologica, di cui ho parlato prima.

E però ho il sospetto (non un sospetto cattivo, cinico, ma un sospetto legato ad una visione a me pare realistica del mondo e dei rapporti umani) che nella situazione raccontata ieri ci siano anche delle ombre, dei lati oscuri, che non sono emersi o quantomeno non sono emersi a sufficienza.

Mentre io ritengo che essi andavano invece indagati dal giornalista ed evidenziati così come erano stati evidenziati le luci e le positività, proprio in nome di quel giornalismo verità, che Iannaccone si propone di realizzare, e di quella autenticità , che egli si propone di portare alla luce, se colgo bene le sue intenzioni.

Faccio un solo esempio: quando Enza, la moglie di Maximiliano, ha affermato più o meno così “io la deformità di mio marito non la vedo proprio, per me nella nostra relazione non c’è nessun problema, la nostra è una relazione del tutto normale, come tutte le altre…”, io spettatore sono rimasto non dico incredulo, ma quantomeno dubbioso, e mi sono chiesto “ma come è possibile?”.

Ecco, in nome dell’autenticità e della verità, mi sarei aspettato che qui Iannaccone si fosse fatto portatore nella sua intervista dei miei dubbi e perfino della mia incredulità.

Invece Iannaccone ha avallato, senza manifestare alcuna forma, neanche minima, di perplessità, le affermazioni di Enza, quasi a voler costruire (voglio credere in maniera inconsapevole, ma che a me è sembrata comunque un po’ complice) un racconto tutto al positivo, al limite dell’idilliaco, sul quale, per amore di verità, mi permetto di avanzare qualche dubbio e delle riserve.

Poi, per carità, ben venga questo tipo di televisione! Che – sia chiaro – anche per me è lontana anni luce dalla televisione, che pure ambisce ad essere di “verità”, da “vita in diretta”, e che è invece di “pura spazzatura” di (mi si perdoni l’accostamento che – mi rendo conto – sfiora la blasfemia) una Maria De Filippi o (peggio ancora!) di una Barbara D’Urso.

La televisione di Iannaccone esce comunque da certi schemi ed è comunque una televisione diversa da, se non proprio alternativa a quella a cui siamo soliti assistere tutti i giorni; un tipo di televisione senz’altro superiore agli standard medi dei programmi televisivi.

E però mi piacerebbe (chiedo troppo?) che Iannaccone tenesse conto dei due rilievi che mi sono permesso di muovergli in questa mia nota, per migliorare ulteriormente la sua ricerca, che a me appare umana prima che professionale (e questo è un suo indubbio merito: gli va riconosciuto) e, di conseguenza (ma solo di conseguenza), la qualità comunicativa (già alta) dei suoi servizi/documentari.

© Giovanni Lamagna