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Dopo aver visto l’ultima puntata di “Che ci faccio qui”
Piccolo saggio, senza pretese, sull’uso del mezzo televisivo
Ho visto in Raireplay la seconda puntata (titolata “Siamo angeli”) del nuovo ciclo di “Che ci faccio qui”, ideata e realizzata da Domenico Iannaccone e trasmessa il 7 dicembre scorso sul terzo canale della Rai alle 23,15, in un orario in cui normalmente sono già in pieno sonno.
Sento il bisogno di meditarci subito su, per raccogliere le emozioni che mi ha comunicato e le riflessioni che mi ha provocato.
La puntata dell’altra sera raccontava di un uomo, a occhio poco meno o poco più che 40enne, Maximiliano Ulivieri, ridotto su una sedia a rotelle dall’età di due anni a causa di una grave malattia invalidante, sposato da 12 anni con una graziosa ragazza di poco più giovane, Enza, da cui ha avuto da qualche mese una bellissima bambina, Sophie.
Dico subito che non è la prima volta che vedevo una trasmissione di Iannaccone e che nutro verso questo giornalista dei sentimenti e dei giudizi contrastanti.
Da un lato sono molto attirato dagli argomenti che affronta, oltre che dalle situazioni e dalle persone che si propone di portare sullo schermo; argomenti e situazioni che escono dagli schemi del sentire e del pensare ordinario; persone fuori dal comune, a volte emarginate, spesso anticonformiste e coraggiose.
Mi piace quindi il suo tentativo di proporci modi di vivere insoliti, che cozzano con e mettono quindi in discussione i modi cosiddetti “normali” di noi gente socialmente ben inserita, per non dire del tutto “adattata” alla società nella quale viviamo.
E però non posso fare a meno di notare (non posso nascondermelo) che c’è un che di inautentico (a volte appena percettibile, altre volte più vistoso e appariscente) nel suo modo di fare racconto televisivo, che ne costituisce per me un limite.
Chiariamoci subito: non credo che questa sensazione sia dovuta al fatto che Iannaccone sia una persona inautentica. Anzi, penso esattamente il contrario: sono abbastanza convinto che egli sia una bella persona, sincera, vera, che si sforza di fare con coraggio una televisione di tipo nuovo.
Credo allora che questa sensazione sia da attribuire al fatto che l’uso in sé del mezzo televisivo rende, quasi per sua natura intrinseca, la trasmissione che avviene attraverso questo mezzo una comunicazione non del tutto vera e autentica.
D’altra parte non sono stato certo io, ma il più illustre studioso dei mezzi di comunicazione di massa del secolo scorso, Marshall McLuhan, ad affermare che “il medium è il messaggio”.
E il medium (in questo caso la televisione) deforma in qualche modo la realtà che pure vorrebbe descrivere così come essa è, perché la rende di fatto “altro da sé”, la trasforma in uno “spettacolo”.
Credo, in altre parole, che le persone, le quali si trovino nella condizione di dialogare, comunicare, davanti ad una telecamera siano nei fatti e strutturalmente impediti ad essere totalmente e profondamente se stessi, cioè veri e autentici.
Perché sanno, sono pienamente consapevoli, che in quel momento vengono visti da centinaia di migliaia, se non milioni, di spettatori e, quindi, non possono fare a meno di rivedersi (anche) attraverso gli occhi degli spettatori. Perciò diventano oggetto, in qualche modo attori, di uno spettacolo.
In altre parole ancora, chi comunica normalmente nel privato lo fa in un modo. Le stesse persone, messe nella stessa situazione comunicativa, ma davanti ad una telecamera, non possono comunicare esattamente allo stesso modo, anche se lo vogliono sinceramente e anche se fanno tutti gli sforzi per riuscirci.
Nel secondo caso viene meno, in misura più o meno grave, ma inevitabile, l’autenticità della prima situazione. L’attore, anche quando si immedesima meravigliosamente bene nel personaggio che sta interpretando, è comunque consapevole che sta recitando una parte. E ne sono consapevoli anche gli spettatori.
Anche ieri sera a mio avviso è accaduto questo. Iannaccone ha affrontato, con Maximiliano, Enza e la mamma di Max, argomenti delicatissimi e lo ha fatto con grande, evidente sforzo di tenerezza ed empatia, che è tipico, del resto, del suo modo di fare televisione, ne costituisce la cifra stilistica inconfondibile.
E, però, comunque, come già altre volte, anche nelle diverse conversazioni trasmesse nella puntata di ieri ho notato un qualcosa che sapeva di o quantomeno sfociava nell’artificioso; come se il vero, che pure c’era (ed emergeva: per carità!) si trasformasse in un oggetto di spettacolo e quindi in qualche modo diventasse un po’ meno vero, un po’ artefatto, nel senso proprio letterale del termine.
C’è, a dire il vero, anche una seconda ragione, che non mi ha permesso di apprezzare fino in fondo e del tutto (ma solo fino ad un certo punto ed in parte) il lavoro dell’altra sera di Domenico Iannaccone. E non era la prima volta che mi capitava guardando una sua trasmissione.
Nel racconto, a mio avviso, emergevano troppo – solo ed esclusivamente – gli aspetti positivi della vicenda umana di Maximiliano Ulivieri, del suo rapporto con la moglie, con la figlia e con la sessualità. Il racconto fatto ieri sera mi è sembrato francamente troppo, troppo, idilliaco, fino a sfociare nel sentimentalismo e nella retorica.
Non metto in dubbio (e ne sono felice, ne sono perfino ammirato) che questi aspetti positivi, addirittura di felicità raggiunta, esistano realmente in questa vicenda di vita; ed era giusto metterli in evidenza e perfino portarli sullo schermo, anche se con i problemi di natura semiologica, di cui ho parlato prima.
E però ho il sospetto (non un sospetto cattivo, cinico, ma un sospetto legato ad una visione a me pare realistica del mondo e dei rapporti umani) che nella situazione raccontata ieri ci siano anche delle ombre, dei lati oscuri, che non sono emersi o quantomeno non sono emersi a sufficienza.
Mentre io ritengo che essi andavano invece indagati dal giornalista ed evidenziati così come erano stati evidenziati le luci e le positività, proprio in nome di quel giornalismo verità, che Iannaccone si propone di realizzare, e di quella autenticità , che egli si propone di portare alla luce, se colgo bene le sue intenzioni.
Faccio un solo esempio: quando Enza, la moglie di Maximiliano, ha affermato più o meno così “io la deformità di mio marito non la vedo proprio, per me nella nostra relazione non c’è nessun problema, la nostra è una relazione del tutto normale, come tutte le altre…”, io spettatore sono rimasto non dico incredulo, ma quantomeno dubbioso, e mi sono chiesto “ma come è possibile?”.
Ecco, in nome dell’autenticità e della verità, mi sarei aspettato che qui Iannaccone si fosse fatto portatore nella sua intervista dei miei dubbi e perfino della mia incredulità.
Invece Iannaccone ha avallato, senza manifestare alcuna forma, neanche minima, di perplessità, le affermazioni di Enza, quasi a voler costruire (voglio credere in maniera inconsapevole, ma che a me è sembrata comunque un po’ complice) un racconto tutto al positivo, al limite dell’idilliaco, sul quale, per amore di verità, mi permetto di avanzare qualche dubbio e delle riserve.
Poi, per carità, ben venga questo tipo di televisione! Che – sia chiaro – anche per me è lontana anni luce dalla televisione, che pure ambisce ad essere di “verità”, da “vita in diretta”, e che è invece di “pura spazzatura” di (mi si perdoni l’accostamento che – mi rendo conto – sfiora la blasfemia) una Maria De Filippi o (peggio ancora!) di una Barbara D’Urso.
La televisione di Iannaccone esce comunque da certi schemi ed è comunque una televisione diversa da, se non proprio alternativa a quella a cui siamo soliti assistere tutti i giorni; un tipo di televisione senz’altro superiore agli standard medi dei programmi televisivi.
E però mi piacerebbe (chiedo troppo?) che Iannaccone tenesse conto dei due rilievi che mi sono permesso di muovergli in questa mia nota, per migliorare ulteriormente la sua ricerca, che a me appare umana prima che professionale (e questo è un suo indubbio merito: gli va riconosciuto) e, di conseguenza (ma solo di conseguenza), la qualità comunicativa (già alta) dei suoi servizi/documentari.
© Giovanni Lamagna