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Sul desiderio amoroso
“Se il desiderio amoroso è amore per il nome è perché il nome, diversamente dal “pezzo”, non si dà come oggetto seriale, non può essere rimpiazzato con un oggetto simile.
Anzi, se c’è una possibile definizione dell’amore sarebbe proprio quella di rendere l’Altro non il simile ma l’insostituibile nella sua alterità.” (Massimo Recalcati, “Ritratti del desiderio”, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018 seconda edizione, p.118)
Non ci sono dubbi: il desiderio amoroso, come dice Recalcati, è amore per il nome, anzi per il nome proprio.
Che vuol dire, in altre parole: è amore per quella precisa persona, con quelle determinate caratteristiche, fisiche, psicologiche, intellettuali, spirituali.
Non è, né può essere, un amore universale, per le donne o per gli uomini in generale; è sempre amore per un singolo uomo o per una singola donna: quel singolo uomo, quella singola donna.
Anche se a me viene da aggiungere: l’amore singolare, che è la caratteristica precipua del “desiderio amoroso”, presuppone sempre un amore in qualche modo universale per l’uomo o per la donna in generale.
Nessun uomo, infatti, potrebbe amare una singola donna in particolare, se non fosse in primo luogo attratto dalle donne in generale; così come nessuna donna potrebbe amare un singolo uomo in particolare, se non fosse innanzitutto attratta dagli uomini in generale.
Anzi, dirò di più: nessun uomo e nessuna donna potrebbero amare una donna o un uomo in particolare se non provassero in primo luogo un sentimento diffuso di amore per l’umanità in generale, quello che Confucio definiva “senso di umanità” e che i Greci antichi definivano “agape”, per distinguerlo dall’amore/eros e dall’amore/philia.
Questo per dire che il rapporto tra particolare e universale, singolare e generale, è un rapporto complesso, bidirezionale e non unidirezionale, nel quale è difficile stabilire cosa viene prima, se prima l’universale o il particolare o viceversa; un po’ come nella storia dell’uovo e della gallina: viene prima l’uovo o la gallina?
E, però, nella sostanza convengo con Massimo Recalcati: si può parlare di “desiderio amoroso” in senso specifico (quindi non di “filantropia”) solo quando il mio desiderio non è indiscriminato e perciò promiscuo, ma si indirizza verso determinate caratteristiche specifiche della persona che desidero e non verso altre.
Una certa altezza, un certo tipo di corporatura, un certo colore dei capelli, un certo profumo, un certo profilo, un certo tipo di sguardo, un particolare timbro della voce, certi gesti, un certo portamento, un certo modo di vestire, certi tratti del carattere, un certo tipo di intelligenza, alcuni modi tipici di fare, un certo bagaglio culturale…: sono queste alcune delle categorie di massima all’interno delle quali si situano quelle caratteristiche che a me maschio fanno sentire attrazione verso un certo tipo di donna e non verso altre.
E credo che in questo discorso si possano ritrovare un po’ tutti gli uomini e tutte le donne. Non posso parlare per loro, ma suppongo che si possano riconoscere anche coloro che provano un desiderio amoroso verso una persona del loro stesso sesso.
I “dongiovanni”, i “casanova”, invece, indubbiamente non provano un reale desiderio amoroso, perché essi sono motivati esclusivamente dall’ansia della prestazione, dal desiderio (non certo amoroso, ma esclusivamente e del tutto narcisistico) di infiocchettare trofei.
Al dongiovanni o al casanova, infatti, non interessa con quale donna fanno all’amore, qual è il suo “nome proprio”; interessa solo il “pezzo” da mettere esposto nella bacheca delle conquiste. Il dongiovanni e il casanova non sono interessati a e non realizzano un reale rapporto con l’altro/a; a loro preme solo la conquista di un “trofeo”, l’ennesimo trofeo.
Detto e assodato questo, non condivido però del ragionamento di Recalcati quella che mi sembra una sua conclusione implicita: l’identificazione della assoluta singolarità e unicità della persona “oggetto” del mio desiderio amoroso con la unicità ed esclusività dello stesso sentimento amoroso.
Il fatto che io sia attratto da determinate caratteristiche di una donna, che ingenerano in me un desiderio amoroso, non esclude, infatti, che io possa essere attratto da altre caratteristiche di un’altra donna, che ingenerano in me un uguale sentimento amoroso; altro, diverso dal primo, eppure molto simile (nella qualità e nella sostanza psicologica) al primo.
In questo caso il mio desiderio (pur muovendosi all’interno di una gamma di caratteristiche “oggettuali” affini) è motivato, stimolato da particolari diversi o, quantomeno, non identici: ciò che ritrovo, dunque, nella prima non lo ritrovo nella seconda e viceversa.
Per cui non vedo, non capisco, perché io non possa provare, sperimentare diversi (autentici) desideri amorosi in contemporanea, per due o più persone diverse. Senza che questo abbia nulla a che fare né col dongiovannismo né col casanovismo.
Ancora: qui non si tratta di sostituire o non sostituire, come sembra ritenere Recalcati. Si tratta di amare in contemporanea (come succede, ad esempio, nel caso dell’amicizia; e qui nessuno trova niente da ridire) persone diverse per le loro caratteristiche diverse, nella loro unicità, irripetibilità e singolarità.
E starei per dire, in alcuni casi, persino nella loro complementarietà. Cosa, a mio avviso, niente affatto incompatibile con un vero e autentico sentimento amoroso.
© Giovanni Lamagna
Dare e ricevere in amore: leggendo “Le mani della madre” di Massimo Recalcati
Amare non è solo dare, donare delle cose all’altro, ma anche (e, forse, soprattutto) manifestargli il nostro desiderio di ricevere; che sta a dire: “tu mi manchi, tu sei importante per me”.
L’ho capito molto bene – confesso che non l’avevo mai capito finora così bene – leggendo questo passaggio del libro di Massimo Recalcati “ Le mani della madre” a pag. 51.
Recalcati, citando il suo maestro Lacan, afferma: “… amare è dare all’Altro quello che non si ha. Questo significa che il dono dell’amore… non è mai dono di qualcosa che si possiede, ma dono di ciò che non abbiamo, di ciò che radicalmente manca a noi stessi.”.
Cosa vuol dire questa affermazione “il dono dell’amore… è… dono di ciò che non abbiamo”? A mio avviso, questo: che l’amore dice all’altro: io ho bisogno di te, tu mi manchi, io desidero il tuo amore, io ho bisogno del tuo amore.
Forse è esagerato affermare, come fa Recalcati, che “il dono dell’amore… non è mai dono di qualcosa che si possiede”. Con questa affermazione Recalcati si è lasciato forse prendere un po’ la mano e dall’enfasi del pensiero opposto.
A mio avviso in amore donare è anche dare ciò che si possiede o, meglio, ciò che si è.
E però l’amore non è solo questo. E, forse, non è manco innanzitutto questo.
E qui sta la grande originalità del pensiero di Lacan, ribadita molto bene, anche se a mio avviso in maniera un po’ unilaterale, dal suo allievo Recalcati.
La caratteristica principale dell’amore (sembrano dire sia Lacan che Recalcati) sta nel far sentire all’Altro tutta la sua importanza per me, nel fargli sentire la mia mancanza di lui/lei, nel dirgli/le e soprattutto fargli/le sentire “ senza di te io non sono la stessa cosa, mi manca qualcosa, che è proprio quello che mi dai tu”.
Questo si capisce molto bene nel rapporto madre-figlio/a. Il figlio non ha bisogno solo delle cure della madre. Il figlio ha bisogno anche (se non soprattutto) del riconoscimento della madre.
La madre deve saper dire al figlio (ovviamente non solo e non tanto con le parole, che un bimbo piccolo manco capirebbe, ma soprattutto con i gesti, lo sguardo, il sorriso, il tono della voce, la postura…) “ tu sei importante per me, tu hai cambiato il mio mondo, la mia vita, lo/a hai arricchito/a, io ti ho desiderato, voluto e adesso non potrei fare a meno di te.”.
Il bambino, insomma, anche un neonato, deve sentire che egli non solo riceve dalla mamma, ma che sta dando alla propria mamma; le sta dando il suo stesso essere, il fatto di esserci, sta restituendo alla madre in un certo senso la vita che lei le ha dato.
Amare, dunque, non è solo capacità di dare ma anche capacità di ricevere. Persino di ricevere da un bambino piccolo.
Il buon samaritano che dona le sue cure all’uomo incontrato sul ciglio della strada non dona soltanto, in maniera unilaterale. Ma riceve anche.
Il samaritano a sua volta riceve dall’uomo che sta assistendo: sta ricevendo la sua umanità, che è parte di lui (del samaritano).
Per questo l’atto d’amore non è mai un atto di sacrificio: io nell’atto d’amore non tolgo a me per dare all’altro. Nell’atto d’amore io do (anche) a me stesso nel momento in cui do all’altro.
E qui sta il fondamento più solido, per niente utopico (come molti lo ritengono), del comandamento cristiano dell’amore universale (e allo stesso del tutto particolare e individualizzato, come dice Recalcati: l’amore non è mai amore per l’Umanità, ma è sempre amore per il singolo uomo).
Quello che dice Recalcati è molto vero: l’amore astratto, universale, non avrebbe senso, se non si rivolgesse poi nei fatti ad una singola persona.
Ma è un po’ unilaterale. Perché è anche vero che io posso amare il singolo uomo solo in quanto riconosco in lui la mia stessa umanità, l’Umanità che ci accomuna.
© Giovanni Lamagna
In amore è più importante la scelta della persona giusta o la nostra capacità di amare?
10 giugno 2015
In amore è più importante la scelta della persona giusta o la nostra capacità di amare?
I problemi dell’amore sono legati più alla scelta dell’oggetto d’amore o all’ esercizio della facoltà di amare, cioè della capacità di amare in quanto soggetto dell’amore?
Erich Fromm, nel suo saggio “L’arte di amare”, non ha dubbi in proposito.
Egli dice: i problemi dell’amore sono legati molto di più alla nostra capacità di amare, in quanto soggetti di amore, che alla scelta dell’oggetto giusto, su cui riversare il nostro amore e ricevere amore.
Mentre il senso comune oggi, soprattutto nella nostra epoca contemporanea, ritiene esattamente il contrario, pensa cioè che la soluzione principale al problema dell’amore sia quello di trovare la persona giusta, cioè quello dell’oggetto d’amore.
Fromm aggiunge che non è sempre stato così, perché in epoche precedenti alla nostra (anche di poco precedenti, come l’epoca vittoriana, che egli cita ad esempio) l’accento era posto più sulla facoltà di amare che sull’oggetto d’amore: i matrimoni, infatti, venivano combinati dalle famiglie di origine o da intermediari, non dipendevano dunque dall’attrazione verso l’oggetto d’amore, ma da altri fattori, più di carattere economico e sociale che sentimentale.
“… era opinione comune che il sentimento sarebbe venuto dopo”. Che, quindi, la facoltà di amare potesse essere esercitata a prescindere dalle caratteristiche dell’oggetto d’amore.
E’ solo da poche generazioni che in amore si dà grande, anzi prevalente, importanza all’oggetto, cioè alle qualità specifiche della persona verso la quale “sentiamo”, “proviamo” amore. Tanto è vero che oggi ci sembra inconcepibile che i matrimoni possano essere combinati dalle famiglie o da intermediari.
Per Fromm questa caratteristica è da collegare al carattere consumistico che ha assunto l’epoca contemporanea, in cui prevale la dimensione del “comperare”, dell’acquisto, dello scambio di merci.
Per cui anche nel rapporto tra le persone ciò che domina è l’idea di trovare e, in un certo senso, “acquistare” persone interessanti, “utili”, attraenti.
Anche (se non specie) nel rapporto di coppia o, meglio, nel rapporto erotico, tra due persone che si innamorano.
Cosa penso di tali considerazioni?
Penso che Fromm abbia in buona parte ragione, che la capacità di amare venga prima, in ordine di importanza, rispetto alla ricerca della persona giusta da amare.
Infatti, io potrei trovare la persona più amabile del mondo e non essere capace di amare. E, in questo caso, il mio rapporto sarebbe destinato ad un sicuro fallimento. Non certo per i difetti del mio “oggetto” d’amore, ma per i miei limiti di “soggetto” in amore.
E però le affermazioni di Fromm in proposito mi sembrano eccessivamente drastiche e, forse, troppo, unilaterali.
Infatti, si potrebbe far rilevare a Fromm che anche in altre epoche storiche la base economica della società ha condizionato, se non determinato, le caratteristiche che assumevano i rapporti d’amore. Che questo condizionamento, cioè, è sempre avvenuto, non avviene solo nella nostra epoca.
Potremmo poi far rilevare che anche i cosiddetti matrimoni combinati dalle famiglie o da intermediari obbedivano a degli interessi economici, erano, in fondo, dei contratti di tipo commerciale. Quasi come lo scambio delle vacche o degli asini al mercato.
Ritengo, infine, che la regola della priorità assoluta e totale della “capacità di amare” valga per certi tipi di amore, ma non per tutti.
Valga, ad esempio, per l’amore fraterno ed universale, l’amore che io sento di dover dare ad ogni essere umano, in quanto appartenente alla mia stessa specie, a prescindere dalle sue caratteristiche, dalle sue qualità e dai suoi meriti.
Valga per l’amore di una madre e di un padre verso i suoi figli, che prescinde (o, in genere, prescinde o dovrebbe prescindere) dalle caratteristiche dei figli e, a volte, anche dai sentimenti dei figli, che non sempre ricambiano quelli dei genitori.
Non valga, invece, per altre due forme di amore: quello di amicizia e quello erotico.
Qui la nostra capacità di amare (che, ripeto, in ogni caso è condizione essenziale per la riuscita del rapporto d’amore) si deve coniugare (è giusto e naturale che si coniughi) anche con la scelta dell’oggetto “giusto” di amore.
Nel caso dell’amicizia e dell’amore erotico non credo che una persona a cui indirizziamo il nostro amore ne valga un’altra e che a contare nel rapporto sia unicamente la nostra capacità di amare.
Il sentimento di amore amicale e quello di amore erotico sono per loro natura (s)elettivi e non universali o incondizionati.
In questi due casi “capacità di amare” e un certo tipo di “oggetto di amore” credo che vadano perciò messi (quasi) sullo stesso piano.
Possiamo cioè diventare amici o innamorarci eroticamente solo di un certo tipo di persona e non di una qualsiasi persona.
In questo senso la scelta della “persona giusta” (in questi due tipi di amore) è altrettanto importante della nostra “capacità di amare”.
Anche se poi qualcuno potrebbe farmi notare (ed io concordo) che la scelta della “persona giusta”, anche questa, in fondo dipende dalla nostra “capacità di amare”.
Se incontriamo la “persona sbagliata” non è mai un caso, ma dipende sempre dalla posizione e dall’atteggiamento sbagliati in cui ci siamo messi quando siamo andati alla ricerca dell’amore (erotico o amicale che sia) e ci siamo illusi di averlo incontrato.
Un amore felice o riuscito dipende quindi sempre in massima parte dalla nostra buona disponibilità ad amare, cioè dalla nostra capacità di amare.
Giovanni Lamagna