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Leggere un libro.

Per me la lettura di un libro costituisce sempre l’incontro (si direbbe oggi, virtuale) con una persona: l’autore del libro.

E, in modo più specifico, con quello che egli ha voluto dirmi con le sue parole.

Alle quali – in genere o, meglio, quando il libro mi interessa – replico raccogliendo appunti e riflessioni personali.

Che sono un po’ il mio modo di corrispondere, interloquire con l’autore del libro.

© Giovanni Lamagna

Esplorare significa fare delle scelte.

Krishnamurti (ne “La quiete della mente”; Astrolabio Ubaldini 2021; pag. 54) così scrive: “La scelta esiste solo quando la mente è confusa. Nel momento in cui la mente è esitante, confusa e non è in grado di vedere con chiarezza, allora viene fatta una scelta.”

Mi chiedo: come potrebbe essere altrimenti?

La mente umana vive spesso, se non il più delle volte, nel dubbio, nell’incertezza e, quindi, nella confusione.

Non ha niente a che fare con la mente (supposta) divina, la quale sola sarebbe onnisciente e perfetta, quindi senza oscillazioni ed esitazioni.

La mente umana è caduca, imperfetta, per sua natura esitante e alla ricerca.

Nel dubbio, nell’incertezza, deve operare delle scelte; o, quantomeno, vivere l’illusione che siano possibili per essa delle scelte.

Krishnamurti aggiunge: “Ciò che è importante non è la scelta, ma mettere ordine nella confusione, o meglio porre fine alla confusione in modo da comprendere con chiarezza.”

Io però mi chiedo: come si fa a mettere ordine nella confusione, se non facendo delle scelte?

Che potranno anche essere inizialmente sbagliate, ma che in ogni caso ci aiuteranno a capire dove sta la “verità” e qual è la strada più giusta da seguire, quando questa all’inizio non ci appare chiara e senza alternative.

La scelta, quindi, al contrario di quanto afferma Krishnamrti (“… l’esplorazione non ricade nel dominio della scelta”; pag. 55) è parte integrante del processo di esplorazione.

Anzi per me esplorare significa scegliere, procedendo per prove ed errori.

Alcune volte il cammino avanza spedito, perché si ha la fortuna (sì, alle volte, è anche questione di fortuna!) di imboccare subito la strada giusta.

Altre volte ci si accorge ad un certo punto del cammino di aver imboccato la strada sbagliata; ed allora bisogna avere l’umiltà, la pazienza, la costanza e la tenacia di tornare indietro e imboccare una nuova strada.

Esplorare significa dunque scegliere; l’uomo non può fare a meno di scegliere.

Perché nessun uomo (almeno all’inizio) è davvero “individuo” nel senso letterale del termine; cioè “indivisibile, non frammentato, e quindi non confuso”.

Ogni uomo, almeno all’inizio, (ma potremmo anche dire sempre, nel corso della sua vita, anche se si può auspicare che lo sia un po’ di meno e sempre meno, man mano che la sua esperienza va avanti, procede, si arricchisce, che diventa più saggio) è frammentato “in pezzetti, consci ed inconsci”.

Io dico è un puzzle, i cui tasselli all’inizio sono sparpagliati, dispersi, e vanno poi ricomposti, con un lavoro paziente, tenace, che esige appunto riflessioni e scelte, per prove ed errori.

Nessuno è in grado di ricomporre il suo puzzle in un breve istante e senza operare delle scelte; senza esitazioni, senza (almeno all’inizio) provare un gran senso di confusione e diciamo pure di smarrimento.

© Giovanni Lamagna

Pensiero e azione.

Chi se ne sta sempre chiuso in casa, nel suo studio, a leggere, riflettere e pensare soltanto, senza mai tradurre in azioni e gesti concreti le sue letture, i suoi pensieri e le sue riflessioni, è un povero e impotente accidioso.

Ma chi agisce soltanto, facendo magari molte cose, senza mai dedicare tempo o destinandone poco alla lettura, al pensiero e alla riflessione, non è poi molto meglio: il suo agire si rivelerà, quasi sempre, velleitaria agitazione.

© Giovanni Lamagna

La funzione dei pregiudizi

Tutti abbiamo, che ne siamo consapevoli o meno, dei pregiudizi.

Ovverossia una nostra conoscenza pregressa, una nostra visione del mondo, dei fatti e delle cose, che si è venuta formando nel corso del tempo, in base alla nostra esperienza e ai ragionamenti, alle riflessioni che l’hanno accompagnata, o che ci è stata trasmessa direttamente – noi del tutto inconsapevoli, prima ancora che acquistassimo “l’uso della ragione” – da coloro che ci hanno allevato e formato nei primi mesi ed anni della nostra vita.

Questa conoscenza pregressa – come ha sostenuto del resto, ben prima e molto più autorevolmente di me, un grande filosofo del 900, Hans Gadamer – costituisce, appunto, un pre-giudizio; inevitabile e imprescindibile rispetto alle nuove esperienze e alle nuove conoscenze che andremo a fare nel corso di tutta la nostra vita.

Queste nuove esperienze e queste nuove conoscenze manco sarebbero possibili se non avessimo questo bagaglio di conoscenze e di esperienze pregresse, accumulate nel corso del tempo; che costituiscono in un certo senso la griglia esperienziale e concettuale entro la quale sistemiamo le nuove conoscenze e le nuove esperienze.

A questo punto però – bisogna dire – la forma del pre-giudizio può assumere due caratteristiche completamente diverse, anzi opposte: negative le une, positive le altre.

C’è il pre-giudizio rigido, ottuso, che non si lascia scalfire e mettere in discussione minimamente dalle nuove conoscenze ed esperienze. Che nega quindi i nuovi dati di realtà, che di fronte perfino all’evidenza di fatti e conoscenze che invalidano i precedenti, non cambia, non vuole cambiare giudizi, opinioni e convinzioni precedenti.

E c’è il pre-giudizio, che, pur partendo (come è inevitabile) da conoscenze, concetti, esperienze formatisi e consolidatisi in precedenza, sulla base dei quali valutare i nuovi dati da apprendere, si lascia mettere in discussione, si fa plasmare da essi, sino ad arrivare in certi casi a invalidare e quindi modificare i precedenti giudizi e le precedenti convinzioni.

In questo secondo caso il pre-giudizio svolge una funzione positiva e costruttiva, consente l’evoluzione delle conoscenze e del nostro adeguamento al mondo nel quale viviamo: è la base di partenza di ogni nostra nuova conoscenza.

Nel primo caso il pre-giudizio svolge, invece, una funzione solo e del tutto difensiva e, quindi, negativa; è di freno alla ulteriore conoscenza, ne impedisce l’evoluzione, la crescita e l’eventuale, necessario, aggiornamento.

© Giovanni Lamagna

L’essere umano e la dimensione religiosa della vita

Mi sto facendo sempre più convinto, con gli anni, che l’uomo senza una qualche forma di sensibilità e di pratica religiosa non possa stare bene, non possa vivere bene.

In altre parole, che la dimensione religiosa è strutturale, congenita all’essere umano. Così come il respirare, l’aver bisogno di cibo, del dormire.

Il bisogno religioso è dunque un bisogno fondamentale come gli altri bisogni. Ancora più del sesso, che in realtà non è manco un vero bisogno, ma qualcosa al confine tra bisogno e desiderio.

Per cui, a mio avviso, si può vivere (e anche abbastanza bene) senza sesso, mentre non si può vivere, perlomeno non si vive bene, senza soddisfare il bisogno religioso che alberga in ognuno di noi.

A questo punto però sento la necessità di chiarire bene cosa intendo io per bisogno religioso, per dimensione religiosa della vita.

Chiarisco in premessa: nulla che abbia a che fare necessariamente con l’adesione ad una determinata fede e ad una religione storicamente date. Anche se queste possono essere intese come risposte (alcune delle risposte possibili) al bisogno religioso, che – come dicevo prima – è connaturato all’uomo, nasce con lui.

Allora quali sono le caratteristiche (in positivo) del bisogno religioso?

Io direi che la prima caratteristica è data dal bisogno che ha l’uomo di trascendersi, di andare oltre il puro dato materiale dell’esistenza.

L’animale, oltre al bisogno di procurarsi da bere, del cibo, una tana o un nido (soprattutto per i suoi cuccioli), di accoppiarsi per riprodurre la sua specie, di giocare di tanto in tanto, di riposare e dormire il tempo necessario riprendere le forze, non ha altre ragioni per vivere. In altre parole possiamo dire che l’animale vive per sopravvivere.

L’uomo no. Le ragioni puramente biologiche che bastano agli altri animali, a lui non bastano. Egli ha bisogno di trovare un senso, di dare un senso alla sua vita. Ha bisogno dunque di andare oltre la pura sussistenza, oltre la dimensione puramente materiale della vita, ha bisogno dunque di trascendere la sua natura animale.

E che cosa può dare un senso e un significato alla vita dell’uomo, capaci di farlo trascendere, andare oltre il puro dato biologico?

Una prima risposta può essere questa: il successo, la fama, la gloria, il riconoscimento sociale, il potere.

Una seconda risposta è la ricchezza, la “roba”, l’accumulo e il possesso di quanti più beni materiali è possibile.

Questi fattori (il successo, la fama, il potere, il prestigio sociale, la ricchezza…) possono essere considerati a tutti gli effetti dei “valori”, cioè realtà a cui gli uomini (almeno alcuni uomini) danno grande valore Quindi in grado di fondare una vera e propria religione; una religione del tutto laica ovviamente, ma pur sempre una religione.

Religione da questo punto di vista è un qualsiasi orientamento esistenziale che si unifica, concentra attorno a dei valori fondamentali, che in una ipotetica gerarchia hanno più peso degli altri.

La religione del successo sociale e della ricchezza è una religione che assume come suo carattere fondante quello della competizione, anche esasperata, tra gli esseri umani.

Il mio successo, infatti, dipende dal tuo insuccesso, dalla tua sconfitta. Così la mia maggiore ricchezza dipende dal tuo impoverimento. Si potrebbe anche dire che questa è la religione dell’ “homo homini lupus” e del “mors tua vita mea”.

Questa religione, però, a pensarci bene non è molto diversa da quella che indubbiamente ad altri livelli e in altre forme, praticano anche gli animali. Anche tra gli animali, infatti, c’è quello che tende a prevalere sugli altri, ad accaparrarsi le femmine migliori e le porzioni di cibo più abbondanti. Anche tra gli animali insomma vige la “legge del più forte”.

La religione del successo e della ricchezza si situa quindi ad un livello basso della scala evolutiva dell’homo sapiens. E’ propria dell’homo sapiens, che si è ben poco trasceso rispetto ai primi ominidi da cui deriva per via evolutiva e in fondo anche dalle altre specie animali.

L’uomo, però, nel corso dei secoli, anzi dei millenni (non si capisce bene perché, però è questo un dato di fatto da registrare) ha sentito il bisogno di trascendersi ulteriormente, di passare da una religione fondata sui valori della lotta e della competizione ad una fondata sui valori della pace, della solidarietà, della compassione verso il più debole, della fraternità non solo verso i consanguinei che è propria di ogni specie animale, ma verso l’uomo in quanto uomo, cioè della fraternità universale…

In nome della consapevolezza che ciascuno di noi è parte di un Tutto e che, quindi, le varie parti del Tutto non possono stare bene (raggiungere il benessere spirituale, ma a volte anche quello fisico) se il bene dell’una parte va a scapito dell’altra.

In nome della consapevolezza, insomma, che la mia vita non solo non si oppone quella degli altri, ma anzi è profondamente connessa con la loro. Altro che “mors tua vita mea”! Secondo questa visione religiosa del mondo, dunque, “mors tua etiam mors mea”, mentre “vita tua etiam vita mea”.

Sono questi i valori (chi più e chi meno, coniugati in forme e modi diversi) che, non a caso, caratterizzano la maggior parte delle religioni che si sono affacciate nei vari punti del pianeta nel corso della Storia.

Ma sono ancora questi i valori che hanno caratterizzato le varie forme di religiosità laica che hanno caratterizzato alcune culture che abbiamo conosciuto, soprattutto in questi ultimi cinque/sei secoli: in modo particolare, l’Umanesimo, l’Illuminismo e il Socialismo.

Per coltivare tali valori, gli uomini hanno dovuto sviluppare quella che di solito si definisce “la vita interiore”. Che non è una vita altra e alternativa rispetto a quella bio-fisiologica, ma è una vita distinta, che non si riduce alla prima.

La vita interiore, che altro non è che la vita dello spirito, ha, infatti, bisogno, per essere coltivata, di alcune condizioni, potremmo dire anche pratiche o abitudini, così come la vita del corpo ha bisogno degli alimenti, del riparo dalle intemperie, del riposo e del sonno giornaliero e, quando si ammala, delle giuste medicine.

Quali sono le pratiche di cui ha bisogno la vita interiore? Ne elenco alcune e so di dimenticarne altre. Indico quelle che a me sembrano le più importanti. La vita interiore o spirituale che dir si voglia ha bisogno di:

-silenzio e raccoglimento, laddove l’uomo, che vota la sua vita al successo e all’accumulo di beni, preferisce il chiasso e lo stordimento del mondo esteriore;

– di letture, riflessioni, meditazione, perché la pratica di certi valori non è spontanea, ma abbisogna di un esercizio continuo che in qualche modo va contro gli impulsi spontanei e gli istinti;

– di riti individuali ma anche collettivi, che rafforzino il sentire comune e condiviso dei valori scelti a livello individuale.

Non a caso queste tre pratiche spirituali sono presenti in tutte le forme di religiosità che l’uomo ha finora conosciuto nella sua storia, perfino in quelle che non si riconoscono esplicitamente come espressione di religiosità, ma che per me in qualche modo comunque lo sono, anche se sono forme di religiosità del tutto laiche.

Per concludere e riepilogare, sono convinto che:

1) l’uomo non possa prescindere dal formarsi una sua visione del mondo, una sua weltanshaung, quindi una sua visione religiosa del mondo;

2) questa visione del mondo può essere fondamentalmente di due tipi: o competitiva o solidaristica;

3) la prima assicura (talvolta) un benessere immediato ed effimero, ma allo stesso modo (e più spesso) procura ansie e perfino angosce nel lungo periodo;

4) la seconda, invece, non garantisce il benessere immediato e materiale, ma assicura un benessere interiore di lungo respiro e molto superiore alla prima;

5) per operare secondo i principi di questa seconda visione del mondo, l’uomo ha bisogno di silenzio interiore, raccoglimento, meditazione, di riti individuali e, soprattutto, collettivi.

© Giovanni Lamagna

I veri e grandi Maestri

Ci sono persone che sono vocate a dire le cose. Perché le hanno apprese o ideate autonomamente e le sanno riferire molto bene.

Alcune volte queste persone dicono bene e razzolano male. Per cui faremmo bene a distinguere le cose che dicono dalle cose che fanno. E a seguire solo le prime, tenendoci ben lontani dalle seconde.

Ci sono poi coloro che sono vocati a fare le cose. Non sono capaci di grandi e approfondite riflessioni, né tantomeno di parlare in maniera forbita. Ma sono capaci di operare e spesso fanno cose buone.

Da questi conviene imparare a fare le cose. Trovare in loro stimolo all’azione.

Ci sono, infine, coloro che sono vocati a testimoniare sia con le parole che con le opere, concreta e piena incarnazione delle loro parole.

Solo questi sono i veri e grandi  Maestri, dai quali apprendere pensieri e azioni.

© Giovanni Lamagna

Ancora alcune riflessioni sul senso dell’esperienza mistica.

Alcuni commenti ricevuti sulla mia pagina facebook dal mio ultimo scritto sul “mistico” mi stimolano a tornare ancora sull’argomento per precisare meglio il mio pensiero. Lo farò per punti, solo in apparenza (almeno credo) slegati tra loro.

  1. Io penso che ciò che caratterizza la figura del mistico, ciò che lo contraddistingue da chi mistico non lo è, sia soltanto la consapevolezza con la quale egli fa il suo cammino di uomo e il desiderio (a cui però si deve accompagnare un impegno serio) di crescere ogni giorno di più nei suoi livelli di consapevolezza. In altre parole: il continuo dialogo/confronto con l’Altro da Sé, che è l’essenza stessa della consapevolezza.
  2. E però, nonostante sia l’unica, penso che questa caratteristica non sia cosa da poco, cioè un semplice dettaglio. Credo anzi che faccia compiere a chi la possiede un grande e significativo salto di qualità nei suoi livelli di umanità, rispetto a chi non la possiede.
  3. Penso che il cammino di ciascuno di noi inizi con la nascita e finisca con la morte. In questo il destino dell’uomo consapevole di sé (cioè dell’uomo che io definisco “mistico”) non differisce da quello di chi mistico non lo è. Infatti, di ciò che mi ha preceduto prima della nascita io non so niente, se non ciò che mi è stato “raccontato” da chi è nato prima di me. E di quello che succederà dopo la mia morte non sono consapevole oggi e penso che non lo sarò neanche dopo la mia morte. Di certo, se qualcosa di me sopravvivrà dopo la morte, non avrà a che fare con la mia consapevolezza di oggi. Non conosco, infatti, uomini che hanno mai manifestato consapevolezza di una loro vita o di loro vite precedenti.
  4. Dal momento che il mistico (per come lo intendo io) è consapevole che la sua vita inizia il giorno della sua nascita e terminerà il giorno della sua morte, egli cercherà di utilizzare al meglio i giorni che gli rimangono. Anche questa è una caratteristica del mistico. Il quale, più che per la fede in un al di là del tutto ipotetico e impossibile da dimostrare, si riconosce dall’impegno a non sprecare il suo tempo, qui ed ora, consapevole che la sua vita è breve.
  5. La vita dell’uomo ha un inizio certo (la nascita) e una fine altrettanto certa (la morte). Punto! So bene di teorie (nate e sviluppatesi in particolare nel mondo culturale e religioso orientale) che parlano di metempsicosi, di reincarnazione, cioè di nascite e rinascite molteplici, anche in forme e nature diverse, dell’essere umano. Ma queste teorie per me non hanno nessun fondamento razionale e, in quanto tali, le respingo radicalmente. Il mistico non è mistico perché ha una visione irrazionale della vita. Il mistico è anzi per me la persona più razionale che esista.
  6. Dire “io sento che dopo la morte esiste ancora qualcosa” per me non ha nulla a che fare con l’essenza dell’esperienza mistica. E’ una fede, cioè un sentimento irrazionale (o, quantomeno, senza fondamento razionale), in quanto indimostrabile. E perciò non riesco a condividerlo.
  7. Le parole hanno i loro limiti e non tutte le esperienze (certo!) sono facili da comunicare. Ma (altrettanto di certo!), al di fuori dell’uso delle parole noi non abbiamo altri strumenti per comunicare. E, quindi, bisogna fare ogni tentativo per comunicare con esse. Se non ci riusciamo, dobbiamo diffidare di ciò che vogliamo comunicare, non delle parole che non riuscirebbero a comunicare ciò che vorremmo comunicare.
  8. Dobbiamo fare attenzione a distinguere il semplice “sentire” dalla “consapevolezza”. Il “sentire”, se è tale, si basa su percezioni emotive, tutt’al più sensoriali, perciò del tutto soggettive e, quindi, psicolabili. La “consapevolezza” si pone su un piano diverso dal semplice “sentire”. Ha basi certe, solide. Anche razionali. Chi è consapevole è certo, sicuro, di quello che dice. Anche quando parla di cose che non può dimostrare alla maniera delle scienze sperimentali. Anche se le cose che dice non tutti sono in grado di coglierle. Nel senso che non sono immediatamente “visibili”, chiare e distinte per tutti.
  9. La consapevolezza profonda non può prescindere da considerazioni anche filosofico/razionali. Altrimenti corriamo il rischio di considerare oggetto di “consapevolezza” non ciò che realmente è, ma ciò che a noi farebbe piacere che fosse. Cioè facciamo un’esperienza che è il contrario della consapevolezza.
  10. Un’amica mi parla di una consapevolezza che scaturirebbe dal silenzio della mente, mentre la mia nascerebbe dal dialogo della mente con se stessa. Due tipi di consapevolezza che avrebbero codici diversi. Io sostengo, invece, che la consapevolezza è una, che ha una sola natura. Che ci possono essere livelli diversi di consapevolezza (nel senso che io posso essere consapevole di alcune cose e non esserlo di altre), ma non due o più tipi di consapevolezza. E una caratteristica universale della consapevolezza è quella di sottoporre i materiali della coscienza (anche) al filtro della ragione.
  11. Parlare di “silenzio della mente” è molto pericoloso. Con questa “logica” (illogica) anche i militanti dell’ISIS potrebbero dire che le loro idee (farneticanti) nascono dal “silenzio della mente”. E, tra l’altro, hanno pure ragione: infatti, le loro idee sono farneticanti proprio perché hanno messo a “dormire” la mente. Non si confrontano con la mente, ma solo coi loro deliri…
  12. Il problema centrale, da cui partire, è: che cosa intendiamo con il termine e con l’esperienza della consapevolezza? Per me la consapevolezza è un’esperienza sintetica di emozioni, sentimenti, intuizioni e di riflessioni. Per me la consapevolezza non è una sorta di visione estatica, nella quale la mente e, forse, anche le stesse emozioni e sentimenti sono completamente assenti. Pure i fanatici dell’ISIS vivono (probabilmente) la consapevolezza come una forma di “silenzio della mente”. E sono fanatici, già solo per questo: anche se non andassero a commettere le stragi che poi commettono e che ben conosciamo.
  13. Sono favorevole ad una ricerca costante di equilibrio e di apertura. E penso anch’io che, quando la mente è tranquilla, emergano molte cose interessanti su chi siamo e come funzioniamo. Ma in questa ricerca ha grande parte anche la mente. Una cosa, insomma, è una “mente tranquilla”, che contempla, più che ragionare (soltanto). Altra cosa è una “mente assente”.
  14. Una cosa sono le intuizioni, altra cosa le “visioni” o le “esperienze (cosiddette) estatiche”. Le intuizioni (quelle che possiamo considerare vere intuizioni) hanno sempre una componente di razionalità. E, infatti, non si sottraggono al confronto con la ragione. Anzi lo ricercano, si sottopongono al suo vaglio. Altrimenti sono solo puri e semplici deliri.
  15. Un’amica mi scrive: “Se qualcuno mi racconta un esperienza particolare… una visione o (perché no?) una esperienza anche estatica…io non la confuto solo perché non mi appartiene… Sollevo semmai delle obiezioni, se sul piano pratico essa va a ledere la libertà o l’ incolumità di qualcuno…”. Io le ho risposto: “E le obiezioni da dove nascono, se non da un’analisi razionale, che mette a confronto azioni ed effetti di queste azioni? Quale altro modo abbiamo noi esseri umani di sollevare obiezioni, se non quello di fare ricorso alla ragione? Perché poi disprezzarla tanto (la ragione), se essa è una delle qualità precipue dell’uomo?
  16. Un’altra amica si chiede: da dove vengono le nostre intuizioni, quelle piccole scintille che improvvisamente chiariscono i nostri dubbi? Io così le ho risposto: vengono dall’inconscio, che è capace di fare una sintesi ( di vissuti, emozioni, sentimenti, ragionamenti sedimentati…) di cui la nostra mente (troppo univoca, troppo solo razionale) non è (da sola) capace.
  17. Insomma, se non si fosse ancora capito, io ho una visione del tutto atipica della figura del mistico e dell’esperienza da lui vissuta. Per me l’esperienza mistica si può ridurre (ammesso che di “riduzione” si tratti) ad un’esperienza del tutto umana, direi (per usare un termine abusato) un’esperienza del tutto “laica”, in cui può entrarci (ma anche non entrarci) la religione, può entrarci (ma anche non entrarci) la fede in un Dio trascendente. Per me l’esperienza mistica è una esperienza umana che ha certe, determinate, caratteristiche psicologiche. E queste bastano ed avanzano, non solo per definirla, ma anche per giudicarne il valore, l’utilità per la crescita e la realizzazione degli esseri umani in quanto tali (e non – solo – in quanto uomini di fede, cioè credenti in una qualche religione).
  18. Tutti possono essere o diventare mistici. Anzi, dal mio punto di vista, è bene che lo diventino. O, almeno, che ci provino. Come tutti possono essere o diventare filosofi. Anzi è bene che lo diventino. O, almeno, che ci provino. Perché entrambe le cose aiutano a vivere, a campare meglio, a realizzare al massimo la propria umanità. Basta averne il desiderio e coltivarlo. Cioè far seguire al desiderio l’impegno serio, fattivo, costante, perché il desiderio si realizzi.

Giovanni Lamagna