Archivi Blog

Sulla “madre morta”

C’è in alcune persone un grumo di dolore, formatosi durante la loro infanzia, che nessuna offerta d’amore sarà poi in grado di sciogliere, di eliminare, quando esse diventeranno adulte.

Un grumo di dolore al quale queste persone si sono paradossalmente attaccate, potremmo anche dire affezionate. E che non sono disposte a mollare, perché è come se fosse il sostituto (anche se perverso) dell’amore che avrebbero desiderato da bambini e che evidentemente non hanno ricevuto.

E’ il dolore che Recalcati descrive benissimo in un paragrafo del suo bellissimo libro “Le mani della madre”. Il paragrafo si intitola “La madre morta” (pag. 156-159).

Citando A. Green e il suo “Narcisismo di vita, narcisismo di morte”, Recalcati così scrive: “Bloccati nella loro capacità di amare, i soggetti che sono sotto il dominio di una madre morta possono aspirare soltanto all’autarchia. La vita di coppia gli è preclusa: la solitudine che era una condizione angosciante, da evitare, cambia di segno, da negativa diviene positiva (…). Il soggetto si chiude in un nido. Diventa la sua propria madre, ma rimane prigioniero della sua economia di sopravvivenza. Suppone di essersi congedato dalla madre morta. In realtà quella non lo lascia in pace. (…) Questo nucleo freddo brucia e anestetizza come il ghiaccio, ma l’amore resta indisponibile, perché è avvertito come freddo.

Per poi concludere: “L’ombra della madre morta disattiva il desiderio del soggetto impedendo un’eredità positiva… Si tratta di “nutrire la madre morta per conservarla eternamente imbalsamata”.

Di mio aggiungo ancora qualche piccola riflessione.

In primo luogo penso che Recalcati mi autorizzerebbe a non limitare la possibilità di una tale dinamica al solo rapporto del figlio/a con la “madre morta”; e ad estenderla al rapporto del figlio/a con entrambi i genitori morti.

In secondo luogo ho l’impressione che i soggetti coinvolti in un tale tipo di dinamica siano impediti ad amare ed impossibilitati persino ad accettare l’amore che viene loro offerto, perché, se accettassero questo amore e se lo ricambiassero, sarebbero costretti a sperimentare l’angosciante sentimento del tradimento nei confronti dei loro genitori.

Per non mettere in atto questo tradimento, essi sono dunque condannati a riprodurre in sé la stessa incapacità di amare, che era stata dei loro genitori.

Terribile, micidiale circolo vizioso!

Questa dinamica perversa è accompagnata in alcuni casi da una non adeguata capacità di vedere i propri genitori nella loro effettiva realtà; e cioè come soggetti incapaci di amore, soggetti che hanno fatto mancare al figlio/a l’amore di cui questi necessitava.

Nei casi più estremi addirittura da una immotivata e del tutto infondata idealizzazione delle figure genitoriali.

In tutti questi casi è comunque dominante la dinamica del senso di colpa. Il senso di colpa per non aver meritato l’amore dei genitori, per non essere stati capaci di provocarlo.

Ciò significa che in questi soggetti l’aggressività naturale, provata verso i genitori da cui non hanno ricevuto amore, si inverte o, per meglio dire, perverte, cambia totalmente di segno e viene indirizzata verso se stessi, trasformandosi appunto in senso di colpa paralizzante, inibente, nelle relazioni d’amore.

© Giovanni Lamagna

Madre-coccodrillo e amanti-coccodrillo

Leggendo “Le mani della madre” di Massimo Recalcati

Nel libro “Le mani della madre”, Massimo Recalcati (pag. 116-117) così scrive:

Abbiamo già mostrato come l’Altro materno non sia affatto esente da profonde ambivalenze…

E’ stato in particolare Lacan – sulle orme di Melanie Klein – a inoltrarsi verso una rappresentazione più inquietante del desiderio materno proponendo di accostarlo alla bocca spalancata di uno spaventoso coccodrillo. In questa versione la madre, anziché fungere da riparo dell’angoscia, la provoca, la scatena, diventa un’incarnazione terrificante della minaccia che rende instabili sia il mondo esterno che quello interno.

La tesi di Lacan è che nell’inconscio di ogni madre – foss’anche di quella più amorevole e dedita sinceramente al bene dei propri figli – , nella struttura stessa del suo desiderio, risieda una spinta indomita a fagocitarli. Ecco l’immagine della bocca di coccodrillo spalancata che li vorrebbe divorare voracemente.

… In primo piano è ancora la tendenza incestuosa del desiderio materno: una madre vorrebbe divorare il proprio frutto, rimetterlo dentro di sé, incorporarlo, appropriarsene integralmente; vorrebbe conoscere tutto dei suoi figli, godere del loro corpo, rivendicare un diritto assoluto di proprietà, leggere nei loro pensieri…

… Si tratta di una forma chiaramente perversa del desiderio materno con la quale la clinica psicoanalitica spesso si confronta. In questo senso anche Franco Fornari, sulla scia di Lacan, riteneva che “quando il codice materno tende a perdurare al di là del periodo in cui è funzionale, allora mette in grave pericolo la femminilità” e, di conseguenza, il processo di differenziazione tra il bambino e la madre…

… Gli effetti sono quelli di una confusività che cancella ogni differenziazione simbolica…

… Quando l’amore materno può degradarsi in questo modo? Quando la madre si perde nei propri figli, vive solo per loro, vi si dedica senza limiti. Quando la responsabilità della maternità lascia il posto a una spinta alla divorazione, solitamente reciproca, di madre e figlio: la madre assorbe il bambino che assorbe la madre. L’amore materno sfocia allora in un’incorporazione che può raggiungere il suo punto più estremo nel passaggio all’atto omicida o in una presenza soffocante che non lascia alcuna libertà al soggetto. In diversi episodi di cronaca ci troviamo di fronte all’orrore di questa trasformazione dell’amore materno in violenza omicida. La clinica psicoanalitica mostra come il passaggio all’atto infanticida e, più in generale, i maltrattamenti infantili di ogni genere abbiano molto spesso come loro matrice una coppia madre-bambino che prescinde da ogni riferimento a un terzo capace di assicurare un limite al desiderio materno.

L’esistenza di questo limite dovrebbe essere stabilita innanzitutto dal legame amoroso da cui la vita del figlio scaturisce e che separa l’esistenza della donna da quella della madre. Senza una sufficiente distanza tra la madre e la donna, la madre e il bambino si confondono, si annullano reciprocamente, dando luogo a una simbiosi mortifera o a una conflittualità colma di odio e di violenza. In questi casi non è solo la madre che divora il bambino, ma – consacrando follemente la sua vita a quella del figlio – è la donna che viene divorata dalla madre. Se il bambino esaurisce l’orizzonte del mondo – se la madre cancella la donna – , il figlio diviene un oggetto che richiude il desiderio della donna sul desiderio della madre. Il mondo allora si contrae in un mondo chiuso e la diade madre-figlio diventa il modello di una relazione che non può sopportare alcuna forma di separazione. Ma un legame senza separazione viene privato di ogni forza espansiva e generativa ed è destinato fatalmente a scivolare in un incollamento reciproco privo di desiderio.

La riflessione, che vorrei introdurre a partire da questo testo e che mi è balzata alla consapevolezza quasi come una libera associazione mentre lo leggevo, è che la dinamica di cui parla Recalcati, sulla scorta dell’insegnamento di Lacan e, prima ancora, di Melanie Klein, la dinamica che talvolta corrompe la coppia madre-bambino, la dinamica della madre-coccodrillo, la si ritrova non poche volte – pari, pari – anche nelle coppie di amanti.

Anche gli amanti hanno talvolta la tendenza a fagocitarsi. A volte questa tendenza è presente in entrambi, altre volte è maggiormente presente in uno dei due e l’altro la subisce.

La mia tesi è che nell’inconscio di ogni amante, fosse anche il più rispettoso della libertà e dell’autonomia dell’altro/a, nella struttura stessa del suo desiderio, risieda una spinta (più o meno esplicita, più o meno latente) a fagocitare l’altro/a.

Non a caso un’espressione tipica e frequente tra gli amanti (che la rende benissimo) è la seguente: “Ti prenderei a morsi! Ti mangerei tutto/a!”.

Per cui l’immagine della bocca di coccodrillo spalancata, che vorrebbe divorare voracemente l’altro/a, si adatta non solo alla madre col bambino, ma talvolta anche agli amanti di una coppia o ad uno/a solo/a di essi.

Ci sono pagine e pagine della letteratura oltre che quelle della cronaca giornaliera che ci rendono conto e prova dell’esistenza di una tale dinamica, neanche poi tanto rara, anche se varia e diversificata nelle forme e nella intensità.

Nei casi estremi e più gravi di questa dinamica ciascun amante o anche uno solo dei due vorrebbe divorare l’altro/a, incorporarlo, appropriarsene integralmente; vorrebbe conoscere tutto di lui, non solo godere del suo corpo, ma rivendicare un diritto assoluto di proprietà su di esso, addirittura leggere nei suoi pensieri.

Anche qui, come nel caso del rapporto “bambino/madre-coccodrillo”, “gli effetti sono quelli di una confusività che cancella ogni differenziazione simbolica”.

Si tratta – a mio avviso – di una forma chiaramente perversa del modo di intendere e di vivere l’amore erotico, con la quale non saprei dire se tutti gli psicoanalisti si confrontano allo stesso modo e nella stessa misura con cui si confrontano con quella della “madre-coccodrillo”.

Perché c’è il rischio che questo modo divorante, incorporante, possessivo, proprietario, di vivere il sentimento erotico venga inteso come facente parte della natura stessa di questo sentimento, come un suo tratto distintivo e imprescindibile e non una sua perversione patologica.

Mentre è una evidente manifestazione patologica. In una tale situazione i confini tra i due amanti tendono ad annullarsi, viene a crearsi una simbiosi, quella che Eric Fromm definisce “egotismo a due”: l’uno/a non vive senza l’altro/a e viceversa.

La conseguenza è che un poco alla volta viene ad estinguersi anche la stessa creatività iniziale del rapporto e per conseguenza (paradossalmente) lo stesso erotismo, che progressivamente degrada in stanca routine e noiosa assuefazione reciproca.

Non è difficile andare a rintracciare le cause di tali comportamenti, che sicuramente risalgono all’infanzia delle persone che li mettono in atto.

La causa più comune (che in un certo senso le riassume tutte) è un mancato amore o un amore sbagliato ricevuto in età infantile, soprattutto dalle due figure genitoriali o anche da una sola di esse.

E’ probabile, per fare giusto l’esempio più direttamente connesso al discorso di Recalcati, che il figlio o la figlia di una madre-coccodrillo si comporterà in amore, nel suo rapporto di coppia, nei confronti del suo partner o della sua partner, con le stesse modalità fagocitanti e incorporanti che la madre aveva nei confronti del figlio o della figlia.

Molto semplicemente perché non ne conosce altre: per lui/lei “l’amore” è quello che gli/le ha dato la madre quando lo ha allattato e allevato.

Può succedere anche che chi ha “subito” questo tipo di amore da sua madre tenda a cercarlo uguale nel/la partner con il/la quale si accoppierà una volta diventato “adulto/a”.

A questo punto resta da chiedersi: quando l’amore erotico si degrada a tal punto da poter essere definito “amore coccodrillo”?

La mia risposta è: quando uno dei due partner si perde totalmente nell’altro, vive solo per lui/ei, vi si dedica senza limiti. Quando la responsabilità dell’amore erotico lascia il posto a una spinta alla divorazione, che, se non solitamente, spesso è reciproca. Quando l’amante assorbe l’amato che a sua volta assorbe l’amante.

L’amore erotico sfocia allora in un’incorporazione che può raggiungere il suo punto più estremo nel passaggio all’atto omicida o in una presenza soffocante che non lascia alcuna libertà al soggetto.

In diversi episodi di cronaca ci troviamo di fronte all’orrore di questa trasformazione dell’amore erotico in violenza omicida.

Anche qui, a mio avviso, come nel caso dell’infanticidio citato da Recalcati, la clinica psicoanalitica potrebbe mostrare come il passaggio all’atto omicida (più spesso, femminicida) e, più in generale, i maltrattamenti (anche fisici, oltre che psicologici) inflitti al coniuge abbiano molto spesso come loro matrice una coppia che prescinde da ogni riferimento a un “terzo” capace di assicurare un limite al loro desiderio reciproco (o a quello di uno solo dei due verso l’altro/a).

Solo che, mentre nel caso del rapporto madre-bambino, “l’esistenza di questo limite dovrebbe essere stabilita innanzitutto dal legame amoroso da cui la vita del figlio scaturisce e che separa l’esistenza della donna da quella della madre”, nel caso del rapporto di coppia erotica il limite dovrebbe essere costituito per ciascuno dei due partner dall’esistenza di un mondo di interessi e di affetti (oserei dire perfino erotici) che non si esaurisce nel loro rapporto di coppia.

Senza una sufficiente distanza tra la dimensione di “amante” e quella di “donna” o “uomo” complessivamente intesi, i due partner si confondono, si annullano reciprocamente, dando luogo a una simbiosi mortifera o a una conflittualità colma di odio e di violenza.

In questi casi non è solo “l’amante” che divora il compagno o la compagna, ma – quando si consacra follemente la propria vita a quella del partner – è “la dimensione donna” o “la dimensione uomo” che vengono divorati dalla “dimensione amante”.

Se “l’amante” esaurisce l’orizzonte del mondo – se “l’amante” cancella “l’uomo” o “la donna” – , “l’amante” diviene un oggetto che richiude il desiderio dell’”uomo” o della “donna” sul desiderio dell’”amante”.

Il mondo allora si contrae in un mondo chiuso e la diade erotica diventa il modello di una relazione che non può sopportare alcuna forma di separazione, diventa, come dice appunto Fromm, una diade egotica.

Ma un legame senza separazione viene privato di ogni forza espansiva e generativa ed è destinato fatalmente a scivolare in un incollamento reciproco privo di desiderio.

Come si vede, nell’argomentare la mia tesi iniziale, ho utilizzato (quasi) le stesse frasi adoperate da Recalcati per descrivere la dinamica madre-coccodrillo/bambino. Ho dovuto cambiare solo poche, pochissime parole.

Non ho voluto modificare (per scelta consapevole) non solo lo schema concettuale, ma neanche (se non in minima parte) lo stesso lessico, la stessa grammatica e la stessa sintassi del discorso fatto da Recalcati sulla madre-coccodrillo.

Quasi per dare l’idea plastica (e spero la dimostrazione) di come le due dinamiche siano molto simili. Ed anche perché (lo confesso) non avrei saputo descrivere meglio la seconda, senza ricorrere alla magistrale descrizione che Recalcati fa della prima.

Di questo ovviamente sono riconoscente a Massimo Recalcati, che spessissimo offre importanti, anzi decisivi, stimoli alle mie riflessioni.

© Giovanni Lamagna

Dare e ricevere in amore: leggendo “Le mani della madre” di Massimo Recalcati

Amare non è solo dare, donare delle cose all’altro, ma anche (e, forse, soprattutto) manifestargli il nostro desiderio di ricevere; che sta a dire: “tu mi manchi, tu sei importante per me”.

L’ho capito molto bene – confesso che non l’avevo mai capito finora così bene – leggendo questo passaggio del libro di Massimo Recalcati “ Le mani della madre” a pag. 51.

Recalcati, citando il suo maestro Lacan, afferma: “… amare è dare all’Altro quello che non si ha. Questo significa che il dono dell’amore… non è mai dono di qualcosa che si possiede, ma dono di ciò che non abbiamo, di ciò che radicalmente manca a noi stessi.”.

Cosa vuol dire questa affermazione “il dono dell’amore… è… dono di ciò che non abbiamo”? A mio avviso, questo: che l’amore dice all’altro: io ho bisogno di te, tu mi manchi, io desidero il tuo amore, io ho bisogno del tuo amore.

Forse è esagerato affermare, come fa Recalcati,  che “il dono dell’amore… non è mai dono di qualcosa che si possiede”. Con questa affermazione Recalcati si è lasciato forse prendere un po’ la mano e dall’enfasi del pensiero opposto.

A mio avviso in amore donare è anche dare ciò che si possiede o, meglio, ciò che si è.

E però l’amore non è solo questo. E, forse, non è manco innanzitutto questo.

E qui sta la grande originalità del pensiero di Lacan, ribadita molto bene, anche se a mio avviso in maniera un po’ unilaterale, dal suo allievo Recalcati.

La caratteristica principale dell’amore (sembrano dire sia Lacan che Recalcati) sta nel far sentire all’Altro tutta la sua importanza per me, nel fargli sentire la mia mancanza di lui/lei, nel dirgli/le e soprattutto fargli/le sentire “ senza di te io non sono la stessa cosa, mi manca qualcosa, che è proprio quello che mi dai tu”.

Questo si capisce molto bene nel rapporto madre-figlio/a. Il figlio non ha bisogno solo delle cure della madre. Il figlio ha bisogno anche (se non soprattutto) del riconoscimento della madre.

La madre deve saper dire al figlio (ovviamente non solo e non tanto con le parole, che un bimbo piccolo manco capirebbe, ma soprattutto con i gesti, lo sguardo, il sorriso, il tono della voce, la postura…) “ tu sei importante per me, tu hai cambiato il mio mondo, la mia vita, lo/a hai arricchito/a, io ti ho desiderato, voluto e adesso non potrei fare a meno di te.”.

Il bambino, insomma, anche un neonato, deve sentire che egli non solo riceve dalla mamma, ma che sta dando alla propria mamma; le sta dando il suo stesso essere, il fatto di esserci, sta restituendo alla madre in un certo senso la vita che lei le ha dato.

Amare, dunque, non è solo capacità di dare ma anche capacità di ricevere. Persino di ricevere da un bambino piccolo.

Il buon samaritano che dona le sue cure all’uomo incontrato sul ciglio della strada non dona soltanto, in maniera unilaterale. Ma riceve anche.

Il samaritano a sua volta riceve dall’uomo che sta assistendo: sta ricevendo la sua umanità, che è parte di lui (del samaritano).

Per questo l’atto d’amore non è mai un atto di sacrificio: io nell’atto d’amore non tolgo a me per dare all’altro. Nell’atto d’amore io do (anche) a me stesso nel momento in cui do all’altro.

E qui sta il fondamento più solido, per niente utopico (come molti lo ritengono), del comandamento cristiano dell’amore universale (e allo stesso del tutto particolare e individualizzato, come dice Recalcati: l’amore non è mai amore per l’Umanità, ma è sempre amore per il singolo uomo).

Quello che dice Recalcati è molto vero: l’amore astratto, universale, non avrebbe senso, se non si rivolgesse poi nei fatti ad una singola persona.

Ma è un po’ unilaterale. Perché è anche vero che io posso amare il singolo uomo solo in quanto riconosco in lui la mia stessa umanità, l’Umanità che ci accomuna.

© Giovanni Lamagna