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Anima mortale e corpo “immortale”.

La maggior parte delle religioni sostiene che l’anima è immortale e il corpo mortale.

Io, invece, penso esattamente il contrario; penso che l’anima sia mortale (fino a prova contraria, che, fin quando siamo in vita, non possiamo comunque avere) e il corpo, in qualche modo, immortale.

Perché il corpo – in quanto materia – non muore realmente, si trasforma soltanto; entra cioè in un altro stato di materia, che in quanto materia è – sempre fino a prova contraria – eterna e, quindi, immortale.

L’anima, invece, in quanto coscienza di sé, come individualità che trascende la pura materialità del corpo, ha vita breve, l’arco temporale di un’esistenza (oggi 80 anni mediamente).

Infatti, nel momento in cui il corpo, al quale l’anima è indissolubilmente legata, muore (o, meglio, come ho prima detto, cambia stato), l’anima si estingue, si ecclissa nel nulla (o in una realtà da noi del tutto sconosciuta e, quindi, per noi misteriosa) da cui era venuta al momento della nascita.

© Giovanni Lamagna

Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi?

Davvero “Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi”, come afferma Massimo Recalcati a pag. 27 del suo “La luce delle stelle morte” (2022 Feltrinelli)?

No, non lo penso.

Certo, non ci sono dubbi manco per me, che la perdita di un’amicizia e, ancora più, di un amore (di un genitore, di un amante, di un figlio…) comporti un dolore, più o meno grande, più o meno lacerante, a seconda del significato e del valore che il legame con loro aveva per noi.

E’ innegabile – non c’è dubbio manco per me – che la perdita di un legame significativo crei in noi un vuoto, una mancanza, uno smarrimento esistenziale, un appannamento, se non un vero e proprio obnubilamento, del senso del vivere.

Ma di qui a “perdersi”, come sostiene Recalcati, ce ne corre; o, perlomeno, ce ne dovrebbe correre.

Il “perdersi” (dopo la perdita di un legame importante) può essere anche molto grave, può durare anche un tempo molto lungo, ma non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) totale e, soprattutto, non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) definitivo.

Prima o poi, anche dopo la perdita più grave e significativa, la natura ha previsto (e per fortuna!) l’elaborazione e la fine del “lutto” legato alla perdita.

E questo per una ragione fondamentale, che si oppone allo stesso assunto iniziale di Recalcati; e cioè che nessuno, in fondo, costituisce (o, meglio, dovrebbe costituire) “il senso” della nostra vita; a nessuno dovremmo attribuire un tale valore e un tale significato, potremmo dire anche un tale potere.

Nel senso che (ed è questo l’assunto fondamentale dal quale io parto e che – almeno per me -sostituisce quello da cui è partito Recalcati) il significato profondo della nostra vita deve (o, meglio, dovrebbe) poggiare su altro: non le singole persone e, meno che mai, le singole cose; manco le persone alle quali siamo legati dagli affetti più grandi e profondi.

Dovrebbe, in altre parole, poggiare su un’accettazione della vita nel suo complesso, nella sua totalità, con le sue luci e con le sue ombre, e non su suoi singoli aspetti (situazioni, oggetti, persone… per quanto importanti, preziosi) isolati dal resto.

Singoli aspetti che sono tutti inevitabilmente soggetti a caducità e possono tutti, quindi, sfuggirci, venirci a mancare da un momento all’altro.

Mentre il resto della vita bene o male perdura, perdura oltre ogni morte, ha un che di immortale, di solido, di eterno.

E’ dunque l’amore della vita in sé – un sentimento che ha a che fare con le pascaliane ragioni del cuore più che con quelle della mente (quindi o c’è non c’è), un sentimento quasi religioso di fede o, meglio, fiducia di base – che (almeno a mio avviso) dà (o, meglio, può dare) un senso alla nostra vita e fonda poi tutti gli altri amori.

Compresi, quindi, quelli la cui perdita, quando ci colpisce, ci fa un male da morire.

Non viceversa.

Ecco perché, quando perdiamo un’amicizia o un amore, staremo male, per un tempo anche molto lungo; avremo persino la (momentanea) sensazione di morirne, di non poter sopravvivere alla perdita, perlomeno psicologicamente, se non fisicamente.

Ma, prima o poi, la persona sana, solida, strutturata psicologicamente, ne uscirà: questo ci insegna l’esperienza dei più; anche quella di coloro che nel momento in cui subiscono una perdita ci appaiono disperati, distrutti, devastati dal dolore.

Corre il rischio, invece, di perdersi definitivamente (o si perde effettivamente) la persona che aveva con la persona “amata” una relazione di attaccamento simbiotico, di dipendenza patologica, più che di vero amore.

Il vero amore, infatti, prevede e richiede indubbiamente intimità, interdipendenza, vicinanza, legame, perfino attaccamento, ma anche confini, autonomia, giusta distanza e libertà, finanche un certo distacco.

Non è (o, meglio, ripeto, non dovrebbe essere) la ragione stessa della nostra vita, quella senza la quale viene meno il senso stesso della nostra esistenza, che si ridurrebbe pertanto ad un mero e depresso sopravvivere.

© Giovanni Lamagna