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Invidia del pene?

Ogni essere umano vive una mancanza, si sente mancante di qualcosa: è normale!

“Mancanza”, però, non è sinonimo di “mutilazione”; né sul piano psicologico, né, tantomeno, su quello fisico.

Quindi ha senso, ha un suo fondamento, affermare – come ha fatto Freud – che le donne avrebbero “l’invidia del pene”.

A patto, però, di ipotizzare – per analogia – che anche gli uomini hanno invidia di qualcosa; ad esempio, “l’invidia del seno”.

Come sembra dimostrato – in modo inequivocabile – dalla conversazione tra Marco e Paola di qualche giorno fa: “Mamma, vorrei avere anche io le tette come le hai tu; perché non sono nato femmina?”

© Giovanni Lamagna

Confessione privata.

Avverto uno stridore fortissimo e costante, quasi ininterrotto, tra quello che è il mondo attorno a me (da quello immediatamente più vicino a me – casa mia, i miei affetti più cari – a quello più lontano, anche migliaia di chilometri lontano, da me) e il mondo come – immagino, idealizzo – dovrebbe essere, come mi piacerebbe che fosse, come desidererei che fosse.

Insomma, mi sento un mezzo disadattato.

Questo stridore vedo, avverto, ha, da qualche tempo, delle ripercussioni anche fisiche, soprattutto nella pancia, come se l’intestino stesse sotto una tensione costante, quasi permanente, e facesse fatica a rilassarsi, a distendersi; insomma, a stare bene.

Me lo conferma il fatto che, quando vado a letto la sera; questa tensione psicofisica scompare quasi immediatamente; il sonno mi ristora; almeno il primo sonno, quello che dura quattro/cinque ora e che è profondo, tutto sommato sereno.

Poi, passato il primo sonno, vado in uno stato di dormiveglia e alle volte faccio brutti sogni; qualche volta persino angosciosi; o mi assalgono pensieri tristi, malinconici, specie negli ultimi tempi.

E, allora, quasi sempre all’alba o anche prima, sono costretto ad alzarmi; mi dedico, quindi, a un po’ di autoanalisi (quasi sempre su quanto ho vissuto il giorno precedente), a qualche lettura che mi tiri su, alla meditazione.

E così inizio bene, in genere abbastanza bene, la mia giornata.

Ma, quando vengo preso dal solito trantran quotidiano, riprendono piede lo stato d’animo e, di conseguenza, i sintomi fisici di cui prima; e questo fino alla sera.

Per fortuna, nel corso della giornata ci sono anche momenti “altri”: una passeggiata, la conversazione con un amico o un’amica, un film, uno spettacolo teatrale, la presentazione di un libro, un evento politico, ogni tanto l’incontro coi miei nipotini…

E in questi momenti il mio animo e, per conseguenza, il mio corpo si rilassano, distendono: sono momenti che benedico.

Ma sono sempre troppo pochi e troppo brevi, rispetto a quelli che desidererei e di cui, forse (o senza forse), avrei bisogno.

Non so bene perché ho messo in pubblico questo mio pezzo di privato.

O, forse lo so, ma non ne sono sicuro.

So solo, per certo, che me ne è venuta voglia e perciò l’ho fatto.

Nella speranza di non essere compatito, ma solo compreso.

Grazie a chi mi ha dedicato la sua attenzione.

……………………….

p. s. voglio solo aggiungere a questa piccola “confessione privata” che di grande conforto mi sono nel corso della giornata la lettura e la scrittura; non a caso ad esse dedico lunghe ore, lettura e scrittura occupano gran parte della mia giornata.

Per cui posso definirmi una persona fondamentalmente solitaria, mentre amerei essere una persona anche, se non fondamentalmente, socievole, che ama stare in compagnia degli altri.

La mia compagnia fondamentale, invece, sono le persone che hanno scritto i libri che leggo e quelle alle quali idealmente scrivo, nella speranza che almeno qualcuna di esse talvolta incroci le cose che scrivo e le legga.

© Giovanni Lamagna

La “scopata” come forma di “conversazione alta”.

A me non è mai bastata la semplice scopata.

In fondo non ne sono mai stato attirato.

E, quando mi è capitata, non ne sono mai rimasto del tutto soddisfatto.

Per me la scopata (che, a questo punto, faccio fatica a chiamare ancora così) è stata sempre una forma di “conversazione” alta, cioè un’azione di “con-versione” verso l’altro (nel mio caso: una donna), intima, profonda, per entrare in lei e coglierne il mistero, per aprirmi a lei e regalarle il mio mistero.

Con questa aggiunta e particolarità: che nella “scopata” la “conversazione” non è fatta solo di parole, ma anche (anzi, soprattutto) di gesti, carezze, baci, abbracci…

Quindi di piaceri, sensazioni, emozioni non solo affettive ed intellettuali, spirituali, ma anche corporee.

È fatta di spirito e di carne, di anima e di corpo.

Insomma, il massimo del massimo!

© Giovanni Lamagna

Fuga.

Tutti quanti noi abbiamo la tendenza a far “cadere” i discorsi che ci rivolgono gli altri quando essi ci pungolano su questioni che per noi sono “zona rossa”, “vietata” o “a traffico limitato”.

“Far cadere” nel senso di interrompere la conversazione in corso, cambiando argomento o, addirittura, allontanandosi dal proprio interlocutore piuttosto bruscamente.

È un meccanismo classico di difesa o, meglio, di fuga: si chiama “rimozione” o “evitamento”.

© Giovanni Lamagna

Conversazione e chiacchiera.

La conversazione, la vera conversazione, non ha nulla a che fare con la chiacchiera.

E, infatti, ha bisogno di due condizioni fondamentali per poter essere e definirsi tale; due condizioni dalle quali può benissimo, invece, prescindere la chiacchiera.

La prima è che ciascuno dei due interlocutori abbia la disponibilità ad ascoltare l’altro, almeno quanto quella a parlare all’altro.

La seconda è quella di prendere seriamente in considerazione gli argomenti portati dal proprio interlocutore.

Al punto di essere disposto a mettere in discussione i propri e a modificarli, se quelli dell’interlocutore si dimostreranno più convincenti dei nostri.

© Giovanni Lamagna

Noi e i social.

Sento spesso dire con atteggiamento snobistico: “Io non frequento i social…”; e talvolta con espressione ancora più drastica e severa: “Io schifo i social!”.

Non condivido né l’uno atteggiamento né l’altra espressione.

I social sono null’altro che delle “piazze”, che la moderna tecnologia ci mette a disposizione: piazze virtuali, che si sono aggiunte da qualche anno a quelle reali, da tempo immemorabile luogo abituale di incontro e frequentazione tra persone di vario tipo e livello.

Dire “io non frequento i social” o, addirittura, “io schifo i social” equivale a dire “io non scendo mai per strada e non vado mai in piazza, perché schifo le persone che le frequentano”.

Come se tutte le persone che frequentano strade e piazze fossero lo stesso tipo di persone; mentre non è così.

Nelle strade, nelle piazze, nei bar si incontrano persone che non sanno fare altro che parlare di sport o fare pettegolezzi, le classiche e banali “quattro chiacchiere da bar”.

Ma ci sono e si incontrano anche persone che leggono libri oltre che giornali, che sono attente agli altri ed hanno sviluppato una sensibilità interiore, che sono capaci di una conversazione profonda e stimolante, oltre che educata, persino, gentile e garbata.

La stessa, analoga cosa avviene anche sui social: vi si incontrano persone banali, superficiali, astiose, rabbiose, che spesso insultano ed aggrediscono i loro interlocutori.

Ma vi si incontrano anche belle persone: sensibili, intelligenti, persino colte, che sono disposte ad ascoltare ed imparare e dalle quali è possibile apprendere cose nuove e a volte molto interessanti e stimolanti.

Si possono incontrare persone come il cantante rapper Federico Lucia (in “arte” Fedez) e la sua compagna, l’imprenditrice e blogger Chiara Ferragni, che utilizzano i social, per fare mostra frivola e volgare del loro privato, come si usa fare ne “Il grande fratello”, al puro scopo di promuovere sé stessi ed ottenere, quindi, facile arricchimento.

Ma si possono incontrare anche persone di spessore e grande livello umano e culturale, quali (faccio solo tre nomi) Franco Arminio (poeta), Vito Mancuso (filosofo) e Massimo Recalcati (psicoanalista), dei quali leggo spesso cose interessantissime, a volte addirittura sublimi.

Frequentando i social non ci si condanna, quindi, ad incontrare solo persone cretine e negative; si ha anche la possibilità di incontrare persone positive e intelligenti.

Basta saperle scegliere; proprio come si fa nel mondo delle amicizie reali.

© Giovanni Lamagna

Tre tipi di relazione.

Con la lettura di un libro io instauro un vero e proprio rapporto: quello con il suo autore.

Solo che questo rapporto è incompleto, parziale e, quindi, non del tutto soddisfacente; perché è unidirezionale: l’autore parla a me, ma io non posso parlare all’autore.

Con un libro, in altre parole, non si può dialogare, se non in una maniera molto, molto virtuale: io parlo con l’autore, ma egli non mi ascolta e, quindi, non mi risponde, non può rispondermi.

Al rapporto con il libro, perciò, io preferisco e di gran lunga (o, meglio, preferirei in linea teorica) il rapporto, il colloquio, la conversazione diretta con un essere umano in carne ed ossa, non mediati cioè dalle parole scritte su un foglio di carta o su un tablet.

Quando il rapporto, il colloquio, la conversazione si rivelano ricchi, interessanti, stimolanti, educativi, fattori di crescita umana, emotiva, spirituale e non solo intellettuale.

Il problema è che non è facile trovare persone in carne ed ossa con le quali sia interessante entrare in relazione, avere cioè delle conversazioni davvero avvincenti, stimolanti, arricchenti.

Per cui molti di noi alle relazioni con le persone in carne ed ossa – spesso banali, convenzionali e noiose – preferiscono la relazione, che viene ad instaurarsi attraverso le pagine di un libro con il suo autore, relazione in genere molto più ricca e stimolante delle prime.

Ma questo tipo di relazione, a mio avviso e almeno per me, è comunque surrogatoria di relazioni interessanti e stimolanti in carne ed ossa, che desidereremmo avere e che spesso ci mancano o, quantomeno, sono carenti nella nostra vita.

Nessun libro, infatti, riuscirà mai a sostituire il calore, l’empatia, di una relazione in carne ed ossa, di una conversazione vis a vis.

Oggi, da quando esiste internet, ci viene offerta una terza possibilità di relazione: quella cosiddetta virtuale, nella quale la persona con cui interloquiamo, con cui instauriamo in certi casi una vera e propria conversazione, non è presente fisicamente.

Ma questa relazione è comunque bidirezionale, diversamente dalla relazione che viene a crearsi quando leggiamo un libro, che è invece unidirezionale.

Ora io mi accorgo che tra la lettura di un libro e questa terza possibilità di relazione personalmente tendo (perlomeno tendo) a preferire, privilegiare, quest’ultima.

Perché mi offre comunque la possibilità di instaurare una relazione bilaterale, per quanto solo virtuale.

E non poche volte con persone interessanti e stimolanti, quasi come gli autori di un libro; e molto spesso più interessanti e stimolanti delle persone che di solito frequento, le persone in carne ed ossa.

Mentre la lettura di un libro è una relazione solo unidirezionale, per quanto alle volte molto ricca, in certi casi addirittura ricchissima.

Quasi sempre più ricca di quella virtuale, che ti offre Internet, e molto spesso più ricca anche di quella che ti offre la relazione vis a vis con una persona in carne ed ossa.

In conclusione, ciascuno dei tre tipi di relazione che ho descritto poc’anzi presenta pregi e difetti, limiti e potenzialità.

Per cui, a me sembra, l’ideale è farle convivere, in alternanza l’una con le altre.

© Giovanni Lamagna

Gesù e Buddha: entrambi pessimisti allo stesso modo?

Nell’ultimo capitolo del suo libro “I quattro maestri” (Garzanti, 2020) Vito Mancuso accosta Gesù a Buddha e Socrate a Confucio; i primi sarebbero portatori di una visione della vita fondamentalmente amara e pessimista, i secondi di una visione dolce ed ottimistica.

Sono d’accordo con la gran parte delle cose che afferma Mancuso in questo libro, che – sia detto per inciso – è molto bello, ma su quest’ultima sua affermazione esprimo forte dissenso.

Mancuso prende in considerazione l’obiezione che Gesù, “a differenza del Buddha, amava festeggiare e che quindi trovava la vita tutt’altro che amara, come appare dal Vangelo in cui si legge che veniva accusato di concedersi un po’ troppo ai piaceri della vita” (pg. 442).

E, però, a tale obiezione Mancuso risponde che “la partecipazione di Gesù a tali banchetti…, ben lungi dall’essergli congeniale, faceva parte della sua strategia missionaria tesa a recuperare coloro che sentiva maggiormente in pericolo di fronte all’arrivo imminente del regno di Dio” (pg. 442).

Io non credo sia così.

Certo, anche io ritengo che Gesù non avesse nulla dell’edonista. Il fatto che partecipasse a feste e banchetti non me lo fa immaginare certo come un crapulone e, meno che mai, come un dissoluto.

E, però, la mia impressione, a giudicare dal quadro complessivo che ne viene fuori dai Vangeli, è che egli comunque fosse un amante della vita, delle sue gioie e dei suoi piccoli e grandi piaceri.

Si concedeva, infatti, momenti di riposo, di conversazione con i suoi discepoli, che considerava i suoi amici più intimi, si prendeva lunghe pause di preghiera, immagino non certo angosciosa, ma ristoratrice e pacificatrice; a parte l’ultima, quella dell’orto del Getsemani, a poche ore dal suo arresto e dalla crocifissione, quando era diventato consapevole della condanna a morte imminente.

Oltretutto, ancora poche ore prima della notte dolorosa trascorsa nel Getsemani, aveva organizzato un’ultima cena, quasi di commiato dai suoi più vicini seguaci.

Che senso avrebbe avuto questa cena, se fosse vero quanto affermato da Mancuso; dal momento che i suoi discepoli non avevano certo bisogno di essere convertiti?

E’ del tutto evidente, quindi, che la sua partecipazione a banchetti simili non aveva nulla di strumentale, ma era del tutto congeniale alla sua indole, mite, dolce e socievole.

Sì, è vera anche la seconda affermazione di Mancuso, e cioè che Gesù considerava imminente la venuta del regno di Dio.

Ma, a mio avviso, la venuta del regno di Dio, per quanto da lui auspicata, oltre che profetizzata, non significava affatto per lui il superamento di un regno, di un mondo, di una vita, fatti solo di brutture, di angosce e di sofferenza; come è nel caso del Nirvana buddhista.

No, il nuovo regno di cui parla Gesù è l’avvento di “cieli nuovi e terre nuove”, che non negheranno o cancelleranno i cieli vecchi e le terre vecchie, ma semmai li esalteranno al loro meglio, eliminandone solo le brutture e le ingiustizie e salvaguardandone le bellezze e la bontà.

Tanto è vero che… “Il lupo abiterà con l’agnello, e il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno assieme, e un bambino li condurrà. La vacca pascolerà con l’orsa, i loro piccoli si sdraieranno assieme, e il leone mangerà il foraggio come il bue. Il lattante giocherà sul nido della vipera, e il bambino divezzato stenderà la mano nella buca del serpente.”, secondo le parole del profeta Isaia (11, 6- 8).

No, non riesco a vederlo Gesù affiancato a Buddha.

Gesù amava la vita: ne ha dato cento testimonianze; egli sognava e profetizzava un mondo altro, ma non disprezzava questo mondo.

Altrimenti, per fare solo alcuni esempi, non avrebbe pianto di fronte alla morte di alcuni amici, non avrebbe compiuto il “miracolo di risuscitarli” e non avrebbe supplicato il Padre di allontanare da lui il “calice amaro” che gli si stava apprestando.

Per Buddha la vita è essenzialmente sofferenza e la rinuncia ai desideri, ovverossia a ciò che rende la vita degna di essere vissuta, è l’unica via per uscire dalla sofferenza.

Cosa ha a che fare una tale filosofia nichilista con il modo di pensare di Gesù, che, pur con tutte le sue contraddizioni, è fondamentalmente gioioso e amante della vita?

© Giovanni Lamagna