Archivi Blog

Siamo sia angeli che demoni. Alla fine di questo tempo di corona virus saremo più angeli o più demoni?

Nel numero del 17 aprile 2020 de “il venerdì di Repubblica” è comparso un articolo, a firma di Alex Saragosa, dal titolo “Siamo buoni per natura (quasi come le formiche)”, nel quale vengono riportate (ovviamente in forma molto sintetica) le tesi di Edward Wilson, 91enne professore emerito ad Harvard e padre della sociobiologia, una disciplina che si colloca a metà fra la biologia e la sociologia, fra le scienze naturalistiche e quelle umanistiche.

Lo riporto quasi integralmente (con piccole modifiche) e quasi interamente, per poi utilizzarlo come (pre)testo per una riflessione su un tema che mi sta molto a cuore, uno dei temi classici della filosofia: l’uomo è prevalentemente buono o prevalentemente cattivo?

“Nel suo “Le origini profonde delle società umane” (Raffaello Cortina Editore), Wilson identifica sei tappe nell’evoluzione del mondo vivente, ognuna caratterizzata dall’apparizione di strutture di complessità superiore: si comincia (1) con la comparsa stessa della vita e si prosegue (2) con la formazione delle cellule eucariote, nate dalla fusione di più rudimentali cellule batteriche, (3) lo sviluppo del sesso, che crea nuovi individui mescolando il genoma di altri, (4) l’apparizione di esseri viventi multicellulari e poi (5) quella delle società animali.

Al vertice di queste società – spiega Wilson – ci sono quelle delle specie eusociali: qui gli individui sono disposti a sacrificare la riproduzione o persino la vita per il bene comune del gruppo a cui appartengono, come accade per termiti, formiche, api, ma anche per Homo sapiens, l’unica specie che abbia raggiunto anche la sesta tappa della complessità, lo sviluppo di un linguaggio simbolico astratto che consente un eccezionale coordinamento fra gli individui.

Questo primato, secondo Wilson, non ci deve però dare l’illusione di essere “speciali”: siamo, come tutti gli altri viventi, solo frutto di circostanze fortuite.

Il nostro successo deriva soprattutto dall’avere agili mani da primate, liberate poi dal camminare eretti, che ci hanno avvantaggiato nell’uso di oggetti su chi ha pinne, ali o artigli, e dall’aver ereditato il cervello di scimmie sociali, quindi già predisposto per la comunicazione e la decifrazione di emozioni e intenzioni altrui.

E’ con queste poche qualità che, circa cinque milioni di anni fa, abbiamo affrontato la savana, un ambiente ricco ma pericoloso, in cui la salvezza poteva venirci solo dall’agire collettivamente. Ciò ci ha spinto verso lo sviluppo ulteriore di comunicazione, solidarietà ed empatia, fino al sacrificio dei singoli a vantaggio del gruppo.

Nella savana abbiamo anche costruito i primi rifugi, dove alcuni badavano alla prole, e iniziato a usare il fuoco, che certo solo certi individui sapevano come gestire.

La presenza di un altruismo estremo, di un nido da difendere e di caste specializzate in certi compiti sono tutti segni di eusocialità” spiega Wilson.

Insomma i gruppi di ominidi, una volta nella savana, sono riusciti a sopravvivere solo diventando superorganismi sociali, come formicai o alveari, in grado di battere qualsiasi avversario e, con il tempo, hanno evoluto un linguaggio simbolico di gesti e suoni sempre più complesso, che ha consentito loro di mettere in comune anche le menti e, quindi, idee, ricordi e scenari futuri.

Ciò ha instaurato un circolo virtuoso fra crescente abilità nella caccia, più carne nella dieta, sviluppo di cervello e abilità cognitive, fino ad arrivare a Homo sapiens.

Uno scenario suggestivo, che però sembra avere un problema: noi non siamo insetti dall’altruismo geneticamente obbligato, possiamo scegliere se esserlo o meno. Se è l’eusocialità il segreto del nostro successo, come abbiamo fatto ad evitare la “trappola dell’altruismo” per cui, se in un gruppo ci sono altruisti ed egoisti, i secondi prosperano a spese dei primi, diffondendo di più i loro geni?

Questo è un punto molto dibattuto da decenni – risponde Wilson – La soluzione è arrivata con la teoria della selezione di gruppo, che in sintesi si può definire così: all’interno di un gruppo gli egoisti vincono, ma nella competizione fra gruppi vincono quelli con più altruisti.

In altre parole , la selezione individuale premia i più capaci ad accaparrarsi risorse e partner; ma se, come ci è accaduto nella savana, si ha bisogno di un gruppo solidale per sopravvivere, quelli con tanti egoisti dentro non ce la fanno, mentre quelli ricchi di altruisti prosperano, diffondendo, con gli scambi riproduttivi fra i gruppi, i geni della cooperazione e dell’empatia.

Con il tempo l’altruismo è diventato regola – premiare generosità e reciprocità accomuna tutte le società umane – con punizioni per chi non le rispetta. (…)

(…) Per Wilson è questo il punto chiave: è la contraddittoria “doppia selezione” a cui siamo stati sottoposti ad averci fatti diventare “sia angeli che demoni”.

Il dilemma del Bene e del Male è nato da questo contrasto.

La selezione individuale, che premia i singoli più capaci di riprodursi modellando istinti egoistici, è responsabile di buona parte di ciò che chiamiamo Peccato.

La selezione di gruppo, che premia le comunità più abili a sfruttare le risorse del territorio e modella istinti altruistici, è responsabile di buona parte di ciò che chiamiamo Virtù.

Il problema è che la virtù si esprime solo all’interno di ciò che consideriamo la nostra comunità: al di fuori tornano a dominare le pulsioni più egoistiche e distruttive.

Così, quando il gruppo è minacciato da un “nemico esterno”, contro di esso diventa ammissibile tutto ciò che puniamo all’interno del gruppo: omicidi, furti, stupri, torture.

Per evitarlo bisognerebbe riconoscere l’intera umanità come “nostro gruppo”, cosa intuita da varie filosofie e religioni.

Purtroppo la storia, con i suoi massacri, la cronaca – pensate agli scontri fra tifosi – e vari esperimenti psicologici dimostrano che amiamo tanto dividerci in comunità ristrette, separate da etnia, fede, ideologia, persino mode, e diffidenti delle altre.

Anche ai tempi di facebook e degli amici virtuali, il cerchio di quelli per cui ci sacrificheremmo resta limitato quanto quello di un cacciatore paleolitico, di cui in fondo abbiamo ancora geni e cervello.

In tempi in cui Homo sapiens decide dei destini della biosfera, superare il tribalismo è però questione di vita o di morte.

Sarebbe l’unico modo per trovare soluzioni globali a problemi globali come pandemie o cambiamento climatico, superando gli egoismi. Ma oramai dubito che ci riusciremo.

Sarebbe stato allora preferibile un’umanità-formicaio, con individui del tutto altruistici?

Forse, ma non avrei voluto viverci: è dalla spinta egoistica a migliorare la propria condizione che sono nate tante idee utili per tutti, mentre è dalla dualità bene/male che deriva gran parte della nostra produzione artistica.

Le formiche costruiscono città meravigliose, certo, ma non hanno uno Shakespeare che ne racconti i tormenti interiori.

…………………………………….

E adesso vorrei riportare le mie riflessioni nel merito delle affermazioni contenute nell’articolo.

1.La prima che mi viene è relativa al termine stesso “sociobiologia”, che mi piace molto, in quanto anche per me l’uomo (qualsiasi uomo, di qualsiasi contesto geografico e di qualsiasi epoca storica) è il frutto/risultato, la combinazione, sia di fattori genetici, biologici, sia di fattori ambientali, storico/culturali.

  1. Anche io penso che la caratteristica più tipica dell’homo sapiens, rispetto alle altre specie animali, sia il linguaggio. Tanto è vero che più è povero il suo linguaggio e tanto più l’essere umano si avvicina o si differenzia poco dalle altre specie animali.
  2. Concordo anche sul fatto che la necessità di affrontare i rischi di un ambiente esterno, ricco ma pericoloso, abbia stimolato nei primi ominidi lo spirito collaborativo. Anche se ritengo che non devono essere mancate anche a quell’epoca situazioni di conflitto e di aggressività all’interno dei gruppi ominidi.
  3. Ma sicuramente la tesi per me più interessante esposta da Wilson, alla quale vorrei dedicare la parte principale di questa mia riflessione, è quella della “doppia selezione”: la selezione che avviene all’interno dei gruppi e quella che avviene nella competizione tra i gruppi.

La prima favorisce gli “egoisti”: coloro che sanno appropriarsi della maggiore quantità di beni disponibili nell’ambiente e congiungersi alle donne più belle, più sane e più fertili.

La seconda favorisce gli “altruisti”, cioè coloro che hanno maggiore spirito collaborativo, che quindi sono più capaci di tenere il gruppo coeso, condizione questa necessaria per poter competere (e vincere) con gli altri gruppi.

Il dilemma del Bene e del Male è nato da questo contrasto”, dice Wilson. E, a mio avviso ha perfettamente ragione. La sua teoria fa giustizia delle opposte tesi che si sono succedute e contrastate nel corso della storia del pensiero filosofico.

Quelle secondo le quali (la minoranza di esse) l’uomo sarebbe fondamentalmente buono e virtuoso. E quelle secondo le quali (la maggioranza di esse) l’uomo sarebbe principalmente cattivo e vizioso.

A mio modesto modo di vedere (e mi fa piacere che le tesi di Wilson lo confermino), l’uomo non è né solamente buono, né solamente cattivo, ma è buono e cattivo, angelo e demone allo stesso tempo, un impasto di bontà/generosità e di cattiveria/egoismo.

In certe situazioni prevale – come giustamente nota la sociobiologia – la prima caratteristica: quando il gruppo, di cui l’individuo è parte, deve fronteggiare un nemico esterno, ad esempio un gruppo ostile o un pericolo naturale.

In altre situazioni prevale la seconda caratteristica, quando il rischio esterno è vissuto dal gruppo come remoto o del tutto assente.

Mi pare che alcune situazioni della nostra storia recente (mi riferisco in questo caso al periodo che va dalla fine della II guerra mondiale ai giorni nostri) lo confermino plasticamente. Ne cito solo alcune, ma se ne potrebbero credo riportare molte altre, anche di altri periodi storici.

La prima che mi viene in mente è quella che dal 1945 fino al 1989 ha visto competere due blocchi di paesi, raggruppati attorno a due grandi superpotenze: il blocco dei paesi del mondo occidentale, sotto l’egemonia imperiale degli Stati Uniti, e quello dei paesi dell’Est europeo e in parte anche dell’estremo oriente asiatico, sotto l’egemonia, altrettanto imperiale, dell’allora Unione Sovietica.

La forte e minacciosa competizione esistente tra questi due blocchi determinò in quella fase, all’interno di ciascuno di essi, un altrettanto forte (certo, non del tutto privo di contraddizioni e conflitti, per carità) spirito di solidarietà e di collaborazione.

Non a caso i decenni compresi tra il 1945 e il 1975 sono passati alla storia con la definizione di “trentennio glorioso” o di “compromesso aureo” tra il capitale e il lavoro, almeno nei paesi del blocco occidentale.

Ma analogo fenomeno, anche se con caratteristiche del tutto diverse, si verificò in fondo anche nel blocco opposto.

Ulteriore e molto significativa conferma (tra l’altro collegata alla prima) della teoria sociobiologica la possiamo avere dal fatto che – una volta crollato, imploso su se stesso, il blocco dei paesi dell’Est, imperniato sull’URSS – nei paesi occidentali, è venuto ben presto meno quello spirito solidale e collaborativo che li aveva caratterizzati nel primo trentennio postbellico, il cui massimo frutto era stato il “welfare-state”.

A sostituirlo è emerso un forte spirito individualistico e competitivo, espresso “magnificamente” e simbolicamente dall’affermazione del primo ministro britannico Margaret Thatcher “la società non esiste, esistono solo gli individui”.

Una volta scomparso il nemico esterno, si è affermato un pensiero unico ultraliberista (o neoliberista che dir si voglia) tutto basato sulla competizione estrema tra gli individui, tra i soggetti organizzati (ad esempio, tra padronato e sindacati), tra le nazioni, persino tra quelle omologhe ed affini per struttura socioeconomica, cultura, storia, organizzazione istituzionale-politica.

Sono entrati in crisi organismi sovranazionali quali l’ONU (l’Organizzazione delle Nazioni Unite), che è diventata poco più che un simulacro e, perfino, la stessa Comunità Europea.

Che (non a caso, a mio avviso) ha rinunciato al nome troppo impegnativo di Comunità per assumere quello molto più generico e vago di Unione, laddove di “unione” c’è ben poco, mentre vi prevale, appunto, una notevole competizione.

E’ quasi inutile qui evidenziare che in un tempo di mondializzazione sfrenata, come quello in cui ci troviamo attualmente, in cui il nostro pianeta sembra essere diventato un unico villaggio globale, di solidarietà se ne veda ben poca.

Si sono accorciate enormemente le distanze che fino a pochi decenni orsono separavano in maniera quasi incolmabile i popoli tra di loro, ma paradossalmente l’umanità sembra essere diventata una specie di giungla, dove ciascun uomo è lupo per l’altro uomo, dove quindi alcuni (pochi) vincono e altri (moltissimi) perdono, con un allargamento conseguente  della forbice delle disuguaglianze da far paura.

Cosa dobbiamo dedurre da questa brevissima e molto sommaria ricostruzione della storia di questi ultimi 70/75 anni? Che nella lotta, da sempre esistita, tra il Bene e il Male, tra l’Angelo e il Demone presenti nell’uomo, hanno, almeno per il momento, prevalso, se non vinto, se non proprio trionfato definitivamente, il Male e il Demone?

A giudicare dallo “stato presente” delle cose sembra di sì. E, a voler tener conto della teoria della “doppia selezione” di Wilson, sembra poter essere questo il risultato finale e definitivo della antica contesa.

Mancando, infatti, un “nemico” esterno ed essendo diventata l’Umanità un unico gruppo globalizzato, tutto sembra dirci che, al suo interno, prevarranno gli “istinti egoistici”, la tendenza cioè di individui e (piccoli o grandi) gruppi ad accaparrarsi (a danno di altri) quante più risorse possibili di quelle che mette a disposizione il nostro pianeta, diventato oramai un piccolo villaggio, per quanto globale.

A cominciare da una risorsa elementare e basilare quale l’acqua; e qualcuno già prevede per un prossimo futuro persino l’aria.

Questo potrebbe dar ragione al pensatore americano, Francis Fukuyama, che qualche anno fa profetizzò la fine della Storia. Nel senso della fine della dialettica tra opposti principi (bene e male) e opposti soggetti (sfruttati e sfruttatori), con la vittoria definitiva (dico io) dei secondi sui primi.

Se non è già così, sarà probabilmente così in un prossimo futuro. A meno che non si verifichino due scenari, che potrebbero ancora modificare questo esito, prima che esso diventi davvero finale e, soprattutto, irreversibile.

Il primo lo definirei apocalittico e molto poco desiderabile, anche se potrebbe in qualche modo anch’esso alimentare nuovamente la antica “doppia selezione” di cui parla la sociobiologia: quella tutta interna ai gruppi e quella tra gruppi e gruppi.

Il secondo potrebbe essere definito pre-apocalittico, ma, a differenza del primo, avrebbe quanto meno l’effetto di mobilitare le energie migliori dell’umanità, quelle che la sociobiologia definisce eusociali.

Il primo scenario potrebbe essere quello della ricostituzione di nuovi blocchi di potenze imperiali che si contrappongano nella lotta per l’egemonia globale sul pianeta.

Questo scenario non è affatto irrealistico, anzi è molto probabile che si realizzi (se non si è già realizzato), vista l’ascesa impetuosa e travolgente che ha avuto la Cina in questi ultimi due o tre decenni. Prossima oramai a contrastare da pari a pari l’egemonia degli Stati Uniti, in atto da almeno un secolo.

Se questa ascesa andrà avanti (come tutto lascia supporre), allora potrebbe succedere che, all’interno dei nuovi blocchi contrapposti che verrebbero a formarsi, riprenda vigore quello spirito cooperativo e solidaristico, che abbiamo visto si afferma quando è in atto una competizione tra gruppi ostili.

La non piena desiderabilità o la totale indesiderabilità di un tale scenario è dovuta al fatto che esso potrebbe sfociare prima o poi (come sempre è successo nella storia dell’Umanità) in un conflitto mondiale di portata ancora più devastante dei due già esplosi nel secolo scorso.

Probabilmente definitivo (questo sì!) per la vita dell’Umanità, perché non solo sarebbe di dimensioni globali (di gran lunga superiori a quelle dei primi due conflitti mondiali), ma anche perché vedrebbe il ricorso ad armi enormemente devastanti, in grado di distruggere forse la gran parte della vita (non solo umana) sul pianeta.

Il secondo scenario che ipotizzavo si potrebbe affermare in seguito al profilarsi di un pericolo o di più pericoli comuni, cioè condivisi dall’intero genere umano, al di là delle pur grandi differenze economiche, sociali, culturali, ideologiche, politiche, che oggi lo contraddistinguono.

In questo caso l’interesse a fronteggiare un pericolo o pericoli comuni potrebbe stimolare nel “gruppo globale Umanità” quei sentimenti solidaristici che sempre nella storia dell’uomo, fin dai tempi dei primi ominidi, si sono manifestati quando un determinato gruppo doveva fronteggiare un gruppo ostile o un problema esterno.

Quali potrebbero essere questi pericoli condivisi in grado di mobilitare le energie migliori dell’Umanità, i suoi sentimenti eusociali? Si possono fare già adesso delle ipotesi, delle supposizioni, delle proiezioni probabili in vista di un futuro più o meno prossimo, più o meno remoto? Certo! Se ne possono fare!

Uno, forse, lo stiamo già sperimentando in questi giorni. La pandemia del Covid 19 è un mostro che minaccia non un singolo popolo o un gruppo ristretto di popoli della Terra, ma tutti i popoli del pianeta, chi più e chi meno e però tutti indistintamente. Non ce n’è uno solo che possa dirsi al sicuro dalla sua minaccia.

Ecco allora che questo pericolo potrebbe costringere l’Umanità ad una cooperazione forzata, anche non voluta, anche non desiderata, ma alla quale essa si potrebbe vedere costretta, per non correre il rischio (mortale) di una estensione del contagio che danneggerebbe tutti i popoli della Terra e non solo alcuni a vantaggio di altri.

Il secondo pericolo è stato ampiamente segnalato dalla (gran parte della) comunità scientifica già da alcuni decenni: quello del surriscaldamento dell’atmosfera che circonda la Terra, in seguito alla forte emissione di gas (specie CO2) prodotti dall’uomo.

Tale surriscaldamento sta provocando, almeno da una decina d’anni a questa parte, vistosi cambiamenti climatici, che potrebbero entro pochi decenni apportare gravissimi e molto probabilmente irreversibili danni all’ecosistema che ha finora reso possibile la vita dell’uomo su questo pianeta.

Di questo allarme le istituzioni politiche nazionali e sovranazionali sono state tutte ampiamente avvertite. Non tutte però lo condividono allo stesso modo: anzi alcune – ad esempio, l’attuale amministrazione americana e quella brasiliana – non lo condividono per niente. Tutte indiscriminatamente, invece, chi più e chi meno, hanno fatto finora ben poco per porre rimedio al pericolo che incombe.

Da meno di due anni in qua, un po’ in tutto il mondo, (sotto l’impulso dell’attivismo di Greta Thumberg, una giovanissima ragazza svedese, che dall’agosto del 2018 ogni venerdì, ha iniziato a manifestare davanti al Parlamento del suo Paese, ponendo il problema del cambiamento climatico) è nato, dal basso e in modo del tutto spontaneo, un movimento, in prevalenza formato da giovani, denominato “Fridays for future”, che ha posto all’attenzione dell’opinione pubblica generale le questioni di cui sopra.

C’è realisticamente da sperare che questo movimento si estenda sempre di più, che lo imponga all’ordine del giorno delle agende politiche delle Istituzioni ai massimi livelli perché attuino misure all’altezza, che quindi un pericolo come questo, del cambiamento climatico, possa far sì che l’Umanità arrivi a sentirsi un corpo unico, minacciato dallo stesso e comune pericolo, e che questo la stimoli a sviluppare quegli elementi di solidarietà e di eusocialità, che negli ultimi decenni sono sempre più venuti a mancare?

Il professor Wilson sembra dubitarne: si dimostra piuttosto scettico e pessimista al riguardo. Io, invece, non ho del tutto perso la speranza e l’ottimismo. Almeno quello della volontà, se non quello della ragione.

Mi dico e dico agli altri, anche in questo articolo: se non altro bisogna provarci; almeno fino a quando ci saranno margini, pur minimi, per crederci ancora.

© Giovanni Lamagna

Quattro modi di rapportarsi al sesso e alla corporeità

7 settembre 2015

Quattro modi di rapportarsi al sesso e alla corporeità.

Ci sono, a mio avviso, quattro modi di rapportarsi al sesso in particolare, ma potremmo dire anche all’elemento corporeo in generale, alla dimensione puramente animale che è presente in ognuno di noi.

Il primo è quello di considerare questa dimensione l’unica o la più importante.

Chi si pone in questo atteggiamento si comporta di conseguenza e di solito (quasi) come gli animali. Segue esclusivamente i propri istinti e impulsi, senza (quasi) nessuna mediazione del pensiero e (in alcuni casi) neanche della sfera emotivo/affettiva.

Nella sfera comportamentale di queste persone non c’è nessuna evoluzione, nessuna crescita: per loro non ci sono altri modi di comportarsi che quelli che mettono in atto da quando hanno acquisito una certa autonomia; non arrivano nemmeno a immaginare che ci possano essere delle alternative.

Nella vita di queste persone il sesso è molto presente (a volte in maniera addirittura compulsiva), ma come esperienza (quasi) puramente fisica, senza grossi coinvolgimenti emozionali ed affettivi. Non è esclusa una certa dose di violenza nel loro approccio sessuale.

Stiamo parlando ovviamente dei bruti, molto più vicini come modo di sentire e di agire al mondo animale che a quello degli umani.

I bruti (per fortuna!) sono piuttosto rari. Quindi diciamo che questo modo di rapportarsi al sesso è poco diffuso tra coloro che risultano iscritti dalla nascita all’anagrafe civile.

Il secondo modo potremmo dire è l’opposto del primo. E’ quello di coloro che provano una certa ripugnanza (più o meno profonda ed estesa) nei confronti della corporeità (in generale) e della sessualità (in particolare). Di coloro che hanno come modello la natura angelicata e che preferirebbero quindi essere angeli.

Spesso queste persone fanno la scelta della castità (nel campo della sessualità) e si impongono comportamenti (più o meno) ascetici su tutti gli altri piani (ad esempio nel rapporto col cibo, con l’abbigliamento, con la fatica e il tempo libero, ecc…).

E’ la scelta dei preti, dei monaci, dei frati, delle suore, degli eremiti, di molti guru, ma anche di persone che vivono inseriti abbastanza bene nella società comune degli altri umani, ma hanno un rapporto complicato con il loro corpo e in modo particolare con la loro sessualità.

Anche questo modo di essere, comportando implicazioni abbastanza radicali ed estreme, è piuttosto raro, è in fondo la scelta di pochi individui.

Esso indubbiamente risolve alla radice il problema di trovare una sintesi/armonia tra istanze (apparentemente) opposte, ma lo fa attraverso una rimozione delle sue cause, piuttosto che attraverso una loro effettiva risoluzione, lo fa eliminando uno dei corni del dilemma, anziché trovare un “accordo” tra i due corni.

Il terzo modo di rapportarsi al sesso e alla corporeità è quello di trovare un compromesso tra la natura animale presente in ogni uomo (tesa alla esclusiva soddisfazione dei bisogni primari: quelli legati alla sopravvivenza personale e alla riproduzione della specie) e quella più specificamente umana (coltivazione dei sentimenti, degli affetti, del pensiero, dell’intelligenza, della cultura…).

Talvolta (anzi piuttosto spesso) i primi vanno in conflitto con i secondi ( o viceversa) e allora occorre trovare un’armonia o (in mancanza) un compromesso tra i due.

La maggior parte degli uomini preferisce trovare un compromesso, che per forza di cose sta in un punto che potremmo definire mediano tra l’animalità pura e l’umanità ai suoi livelli più alti.

In questo caso parlerei di compromesso “mediocre”, non solo per il significato letterale di questo termine, perché si situa in un punto di medietà tra le due dimensioni in conflitto, ma anche perché comporta il sacrificio, la penalizzazione contemporanea di entrambe le dimensioni.

Questo modo di pensare, di essere e di vivere è quello che è stato codificato nella maniera più perfetta e completa dal modello di educazione borghese, specie da quello piccolo borghese, che potremmo anche definire del “perbenismo borghese”.

Questa modalità non implica una rinuncia al sesso, né tantomeno alla corporeità, ma questi devono essere “contenuti” entro schemi molto ben prestabiliti, delimitati e delimitanti: il piacere non può superare certi limiti (altrimenti scattano i sensi di colpa, collegati alle convenzioni sociali), la nudità è consentita solo in certi ambiti, situazioni e relazioni (altrimenti viene violato il comune senso del pudore), la sessualità deve obbedire a regole e norme alquanto rigide (in alcuni casi sanzionate addirittura dal codice civile).

Nella vita delle persone che adottano questo tipo di modalità il sesso è presente, ma con molta moderazione (come del resto tutto nella loro vita), viene vissuto senza grandi entusiasmi ed eccitazione, starei per dire è un sesso soft, a bassa intensità emotiva e fisica, che col tempo tende poi a svanire del tutto o quasi, in maniera quasi inerziale, sostituito (nel migliore dei casi) da un’affettività più fraterna/amicale che erotico/coniugale.

E’ questo di gran lunga il modo più diffuso di rapportarsi al sesso e alla corporeità presente tra gli uomini.

Ne esiste però un quarto.

E’ quello di coloro che ambiscono a raggiungere le più alte vette dell’umanità: non solo non vogliono restare bruti, ma vogliono evolvere, crescere, sviluppando al massimo il loro potenziale umano (emotivo, affettivo, intellettuale, spirituale); e però non dimenticano, non rimuovono (e non hanno nessuna intenzione di farlo) la loro natura animale (come fanno, invece, coloro che appartengono al secondo gruppo di persone che sto provando a descrivere).

E’ il modo di coloro che vogliono trovare una sintesi, un’armonia (e non un compromesso al ribasso, come fanno coloro che appartengono al terzo gruppo) tra le esigenze della spiritualità e quelle della corporeità.

Una sintesi, un’armonia che non penalizzi né la spiritualità né la corporeità, ma (paradossalmente, però molto concretamente) le esalti entrambe.

Sono persone che (a voler usare ancora un paradosso) ambiscono a diventare angeli restando bestie e restare bestie diventando angeli.

Per queste persone la corporeità ha una grande importanza nella loro vita; come ce l’ha in modo particolare il sesso. Queste persone non solo non rifuggono dall’attività sessuale, né tanto meno la disprezzano, ma la praticano molto attivamente e con grande entusiasmo: vivono insomma un sesso hard.

Inoltre non si rassegnano all’idea che col tempo, con l’età che avanza, la loro vita sessuale debba inevitabilmente appassire, sfiorire, diradarsi, fin quasi a scomparire.

Questo non vuol dire che pratichino un sesso puramente bestiale e animale, come fanno le persone che appartengono al primo gruppo. Anzi per loro sessualità e spiritualità devono andare di pari passo: né la spiritualità deve essere una denegazione o una sublimazione della sessualità, né questa deve essere negazione e annullamento della spiritualità.

Per queste persone allora anche la sessualità non è la ripetizione meccanica di gesti sempre uguali (come per gli animali), ma è un terreno, un ambito di ricerca e di sperimentazione, come del resto tutte le altre dimensioni della loro vita.

La stessa morale, in questo ambito, non viene vissuta come un insieme di norme imposte dai costumi sociali vigenti e introiettate, accettate in modo quasi automatico e senza nessuna valutazione critica. Ma un terreno su cui fare ricerca, da mettere costantemente in discussione, in qualche modo da “trasgredire” (nel senso letterale dell’andare oltre), avendo come unica stella polare il rispetto di sé e (in un certo senso ancora di più) degli altri.

Per queste persone, insomma, in campo sessuale vale alla lettera la massima di S. Agostino “ama e fa ciò che vuoi!”. Nel senso che la morale comune in campo sessuale non vale, può essere e va trasgredita, se la sua trasgressione è dettata dall’amore.

Un esempio sublime di questo tipo di approccio è dato dalle pratiche tantriche, che sono allo stesso tempo una forma di spiritualità (quasi di religiosità) e un modo di teorizzare e vivere la sessualità (ben oltre i confini ristretti della morale comune).

Ricco di indicazioni, a tale proposito, è il bel libro dei maestri di Tantra Elmar e Michaela Zadra “Trasgredire con amore”, edizioni Mediterranee.

Il Tantra a mio modo di vedere è la più alta realizzazione della sintesi , dell’armonia tra sessualità/corporeità e spiritualità/religiosità finora raggiunta nell’esperienza storica degli umani.

Ben diversa dal compromesso mediocre di cui si accontenta il perbenismo borghese, che caratterizza il modo di vivere la spiritualità e la sessualità della maggior parte degli uomini e delle donne. Almeno lo ha caratterizzato finora nella storia.

Giovanni Lamagna