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Leggere è meditare.
Nella vera lettura le parole penetrano in noi profondamente, non ci scivolano addosso, come acqua sulla pietra.
Le emozioni, i sentimenti e i pensieri, che ci raggiungono mentre leggiamo, diventano carne della nostra carne e, in qualche misura, più o meno grande, ci trasformano.
La vera lettura è in fondo sempre una meditazione delle cose lette.
E meditare è come mangiare.
Mangiare non è solo ingurgitare il cibo, ma anche, anzi soprattutto, digerirlo, assimilarlo.
Non a caso il cibo non digerito, non assimilato, dopo un po’ viene espulso (vomitato) dal nostro organismo, che lo sente estraneo a sé e, quindi, lo rifiuta.
Allo stesso modo leggere non è solo far scorrere delle parole sotto i nostri occhi, ma anche, anzi soprattutto, farle entrare dentro di noi, assimilarle, in qualche modo digerirle.
Altrimenti non stiamo davvero leggendo; stiamo solo vivendo un passatempo come un altro, più o meno frivolo e superficiale.
© Giovanni Lamagna
Cosa significa “meditare”?
Meditare per me è diverso dal semplice pensare; è qualcosa in più.
Pensare è qualcosa che obbedisce a delle regole precise, in qualche modo meccaniche, automatiche.
Quando faccio l’operazione 1 + 1 e arrivo al risultato che fa 2 sto pensando; ho fatto in questo caso un’operazione puramente mentale.
Quando, invece, arrivo al risultato che 1 + 1 può fare anche tre (come ci “insegna” la metafora del Dio Uno e Trino) sto meditando; ho fatto cioè un’operazione che va al di là delle pure regole mentali, le ri-vede, le trasforma, a volte (come in questo caso) addirittura le sconvolge.
In nome di una logica non solo mentale, puramente intellettuale, ma diversa, io dico addirittura superiore, perché fondata su una intuizione, che coglie altri aspetti del reale, che la pura intelligenza matematica o aritmetica non sarà mai in grado di cogliere.
E che, però, a pensarci bene, sta dietro il mistero della vita stessa.
Cosa accade, infatti, quando un uomo e una donna (ma anche due animali di sesso diverso) si congiungono e concepiscono una nuova creatura, se non il fatto (logicamente paradossale) che uno più uno fa tre e non due?
Vado avanti nella mia riflessione; quando ascolto una persona o leggo un testo e sto attento a capire le parole che ascolto o che leggo, sto pensando, sto facendo anche qui un’operazione soprattutto mentale, anche se non solo mentale; perché qui c’entra anche l’empatia, quindi entrano in gioco anche le emozioni e i sentimenti.
Ma, se ritorno una seconda volta o, addirittura, più volte sulle parole che ho appena ascoltate o lette, in questo caso non sto solamente, semplicemente pensando, sto, infatti, meditando.
Sto facendo, cioè, un’operazione che è qualcosa in più del semplice capire o del rispettare alcune procedure logiche, intellettuali, di puro ed esclusivo pensiero.
Capire, infatti, ha qualcosa a che fare col ricevere, col carpire, col prendere, con l’impossessarsi di un concetto.
Meditare ha a che fare, invece, piuttosto col dare, col produrre, con il generare, con il mettere a frutto ciò che ho capito, ciò che ho carpito, com-preso, ciò di cui sono entrato in possesso quando ho semplicemente pensato o solo visto, guardato qualcosa.
Capire mi fa pensare alla pianta che, per vivere, ha bisogno di ricevere periodicamente acqua e concime.
Meditare alla pianta che, dopo aver assorbito acqua e concime, produce prima fiori e poi frutti.
Capire ha a che fare prevalentemente con l’ascoltare e il leggere.
Meditare piuttosto con il parlare (anche solo con sé stessi) e con lo scrivere (fosse anche solo una pagina di diario).
So bene, lo leggo dai vocabolari, che la parola “meditare” deriva dal latino “meditari”, che, a sua volta, deriva dalla parola “mederi”, che vuol dire “curare”, raccostato nel significato al greco “μελετάω”, che equivale a “curarsi di” o “curare qualche cosa”, dopo aver (appunto) riflettuto, pensato; equivale, potremmo dire anche, a “medicare” (vedi vocabolario Treccani).
Ma a me piace pensare che la parola “meditare” abbia a che fare anche con questa etimologia: “medium + ire”; ovverossia con l’andare, l’entrare in mezzo, cioè dentro, nel cuore delle cose, oltre la loro apparenza superficiale, semplicemente fenomenica, fisica, materiale; per coglierne l’anima, il senso profondo.
Per riceverne in primis alimento spirituale e poi, in seconda battuta, comunicarlo, socializzarlo, donarlo a tutti coloro coi quali abbiamo a che fare, coi quali entriamo in contatto, in relazione.
Questo secondo movimento, infatti, viene naturale, spontaneo, dopo aver meditato.
E qui mi sovviene la famosa frase di Tommaso d’Aquino contenuta nella sua “Summa Theologiae”: “contemplata aliis tradere”; divenuta poi motto dell’Ordine Domenicano.
Che potrebbe essere – io penso – condiviso dalla maggior parte degli uomini di pensiero, anche da quelli del tutto alieni da qualsiasi fede religiosa.
© Giovanni Lamagna
Lettura e vita.
Per parecchi di noi molte delle cose che stanno scritte sui libri sono vere.
Quando le leggiamo, le riconosciamo (non possiamo fare a meno di riconoscerle) come vere, almeno in teoria.
Talvolta arrivano perfino ad emozionarci; in certi casi dal profondo dell’anima.
Ma esse stanno scritte sui libri e restano scritte sui libri, separate da noi, dal nostro vissuto reale.
Non entrano, quindi, se non molto superficialmente, nella nostra vita concreta, quella di tutti i giorni: le restano sostanzialmente estranee.
E, pertanto, non la trasformano minimamente, ma la lasciano inalterata, immodificata.
Insomma, scivolano su di noi, come l’acqua sulla pietra dura.
In questo caso, a che è servita, a che serve, la lettura?
© Giovanni Lamagna
Anima individuale (atman) e anima universale (brahma).
Condivido l’idea centrale dell’induismo: che c’è un’anima individuale (atman) e c’è un’anima universale (brahma).
Anche per me l’anima individuale (di ognuno di noi) non troverà pace fino a quando non si fonderà con l’anima universale.
Fino a quando – in altre parole – non scoprirà che il suo interesse profondo coincide con quello dell’anima universale, che è fatta dall’insieme delle anime individuali e, financo, di tutte le cose, organiche e inorganiche, che compongono il creato.
Fino a quando cioè non scoprirà e non imparerà a praticare la logica dell’amore, che affratella – secondo l’insegnamento di santo Francesco – tutti gli uomini, anzi tutto ciò che esiste in natura: sorella acqua, sorella terra, sorella aria, fratello fuoco…
© Giovanni Lamagna
Il “sentimento oceanico” e il “sentimento egoico primitivo”.
Secondo Sigmund Freud il “sentimento oceanico”, cioè la sensazione di essere tutt’uno con l’universo (ovvero l’equivalente del sentimento religioso secondo Romain Rolland, il letterato francese suo contemporaneo con il quale il fondatore della psicoanalisi aveva avuto un importante scambio epistolare), se esiste, è il “sentimento egoico primitivo” preservato dopo la fine dell’infanzia.
Il sentimento egoico primitivo precede, secondo Freud, la creazione dell’ego vero e proprio ed esiste fino a quando la madre non cessa l’allattamento al seno. Fino a quando viene allattato regolarmente, in genere in risposta al suo pianto, il bambino non ha idea che il seno non gli appartenga. Pertanto, il bambino non ha la percezione del “sé” o, meglio, considera il seno della madre come parte di sé.
Freud sostiene che coloro che sperimentano un sentimento oceanico da adulti stanno in realtà rivivendo un sentimento egoico primitivo. In altre parole lo stesso sentimento che prova il bambino quando è attaccato al seno della madre e non ha ancora percepito che il seno della madre è altro da sé.
Il sentimento oceanico è, dunque, per Freud lo stesso che prova il bambino per tutta la fase dell’allattamento fino al suo svezzamento. Quindi una sorta di vera e propria regressione a quella fase della vita infantile.
Mi permetto (pur con tutto l’ovvio rispetto dovuto al geniale fondatore della psicoanalisi) di essere in disaccordo con questa interpretazione di Freud. E per almeno due motivi.
Il primo è, perfino, banale a dirsi.
Se il sentimento oceanico di cui parla Rolland è sperimentato da adulti, cioè da persone che sono evidentemente uscite dalla fase del “sentimento egoico primitivo” ed hanno acquisito una piena e matura percezione del sé, non si capisce come possano tornare a sperimentare ancora una volta il “sentimento egoico primitivo”.
Si potrà tutt’al più affermare che l’esperienza del “sentimento oceanico” ha delle somiglianze, delle affinità emozionali-affettive con il “sentimento egoico primitivo”. Ma non si potrà dire che quello coincida con questo. Non si potrà dire che si tratti dello stesso “sentimento egoico”, preservato in una specie di memoria bioenergetica.
Il secondo motivo è molto più profondo e significativo del primo.
Il bambino che vive nella fase del “sentimento egoico primitivo” è un soggetto profondamente egocentrico, narcisista, potremmo dire perfino egoista. Tutto concentrato, cioè, sui suoi bisogni primari e del tutto indifferente a quelli degli altri. Tanto è vero che, se, avendo fame, il seno non gli viene dato immediatamente, piange come un disperato e può diventare perfino aggressivo.
L’adulto che vive l’autentico “sentimento oceanico”, quello di cui parla Romain Rolland è, invece, profondamente sensibile ai bisogni degli altri, quasi come (se non, in alcuni casi, addirittura di più) che ai suoi. Rispettoso e amante non solo degli altri esseri umani suoi simili, ma di tutto ciò che ha a che fare con la natura, dal mondo minerale a quello vegetale a quello animale, dall’aria all’acqua in primis.
Queste così diverse manifestazioni esteriori (evidenti a chiunque le voglia osservare senza pregiudizi pseudoscientifici) rendono del tutto irriducibile il “sentimento oceanico”, di cui parla Rolland, al “sentimento egoico primario”, di cui parla Freud. Trattasi di due esperienze completamente e profondamente diverse. Forse addirittura opposte.
Potremmo, infatti, dire (penso senza tema di esagerare troppo) che l’esperienza del “sentimento oceanico” è addirittura lo stigma inequivocabile del completo e definitivo superamento della fase del “sentimento egoico primitivo” nell’uomo, l’uscita completa dalla condizione infantile per addivenire a quella adulta.
La persona che è in grado di sperimentare il cosiddetto “sentimento oceanico” è uscita definitivamente dalla fase egoica primaria del Sé (mi verrebbe di dire) tutto ripiegato su di sé, (cioè dalla fase del narcisismo tipica dell’infanzia e anche – se vogliamo – dell’adolescenza) e si è aperta alla dimensione dell’Altro da sé, che è (o dovrebbe essere) quella tipica dell’età adulta pienamente realizzata.
Chi prova il vero, autentico, “sentimento oceanico” si fonde (o tende a fondersi) con l’Altro da sé non, certo, con il seno della madre, ovverossia con l’immagine di sé proiettata nella madre, come avviene al bambino. Vive un’esperienza del tutto diversa, anzi addirittura opposta, a quella del bambino.
Giovanni Lamagna
La ricerca del vero Sè
25 maggio 2015
La ricerca del vero Sé.
A me pare che il senso della vita non vada cercato tanto nelle cose che facciamo. Per quanto esse possano essere interessanti, piacevoli, utili, necessarie, perfino culturalmente elevate o moralmente generose.
Ma vada ricercato attraverso un’azione tutta interiore e invisibile, finalizzata a raggiungere il centro di Sé.
Ma che cos’è questo “centro di sé”?
E’ una zona misteriosa, ma ben reale. Che solo coloro che l’hanno raggiunta sanno cos’è, ma che chi l’ha raggiunta sa bene cos’è. Anche se è difficile per lui/lei esprimerla a parole, in quanto si tratta di un’esperienza appunto interiore e non esteriore, spirituale e non materiale; e meno che mai di una teoria.
La si comunica perciò meglio attraverso la testimonianza della propria vita, piuttosto che con le parole e i discorsi.
La ricerca del “vero Sé” da sempre caratterizza la storia dell’umanità, presso tutti i popoli, sotto tutte le latitudini. Si identifica con la ricerca religiosa e, in parte, con quella filosofica (quando questa non è puramente intellettualistica).
Ma ha sempre avuto pochi adepti, perché “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti”. Ed ha assunto, a seconda delle culture e dei popoli, forme, modalità e nomi diversi.
Per alcuni il centro di Sé ha il nome di Dio, per altri quello di Tao (il principio, l’essenza della vita), per altri quello di alcuni elementi della natura (il Sole, la Luna, l’Acqua, il Fuoco, l’Aria, la Terra…), per altri quello del Maestro di Vita, per altri ancora il Maestro Interiore, l’Altro sa sé.
C’è comunque un comune denominatore in tutti questi nomi e in tutte queste esperienze. Il Centro di Sé, nel momento in cui viene raggiunto (attraverso un’esperienza tipica di illuminazione e di conversione) diventa il faro, la luce che orienta tutti i pensieri, i sentimenti, le azioni della persona che lo ha raggiunto.
Diventa il tempo di una seconda nascita, il luogo di partenza di un nuovo viaggio.
Nel momento in cui la persona l’ha raggiunto è una nuova persona: non più dissipata, disorientata, inquieta (come lo era prima), ma unificata, orientata, pacificata.
Forse questo spiega perché alcune persone, pur facendo una vita brillante, ricca di agi, di svaghi, di relazioni importanti, professioni e status prestigiosi, rivelino al fondo (o manco tanto al fondo) una sottile, malcelata (o perfino manifesta) insoddisfazione.
La ragione di questa apparente, (in alcuni casi) inspiegabile insoddisfazione sta (a me pare) nel fatto che esse sono ricche all’esterno, ma povere all’interno, perché hanno cercato (e quindi trovato) molto fuori e poco dentro.
Mentre l’unico modo di trovare la vera pace (e, in certi momenti almeno, addirittura la gioia e la felicità) è quello di cercare dentro e trovare, incontrare lì il vero Sé.
Giovanni Lamagna