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Ordinario e straordinario.

E’ un dato di fatto e di realtà: nella storia l’ordinario, cioè il mediocre, vince spesso (anzi quasi sempre) sullo straordinario.

Lo straordinario, infatti, è tale proprio perché va oltre l’ordinario; è eccezionale perché fa eccezione alle regole.

L’Umanità, sui grandi numeri, preferisce accontentarsi dell’ordinario e del mediocre: aborre gli eroi e i santi; si tiene lontana dai loro stili di vita.

Tranne poi elevarli agli onori degli altari o costruire loro dei monumenti alla loro morte, facendone dei modelli.

Ma (quasi sempre) alla loro morte.

Dopo averli (quasi sempre) ignorati o addirittura disprezzati o, peggio, perseguitati mentre erano ancora in vita.

© Giovanni Lamagna

Il filosofo e il mondo.

Il filosofo è immerso pienamente nella vita del mondo, ma allo stesso tempo non ne è fagocitato, assorbito, risucchiato.

Il filosofo in un certo senso può dire di sé quello che Cristo diceva di sé: sono del mondo ma non del mondo.

Egli guarda al mondo con sguardo critico, distaccato, come se ne fosse un po’ dentro e un po’ fuori.

Non si tratta ovviamente per il filosofo di tirarsi fuori dalla vita quotidiana; cosa del resto impossibile.

Ma di non soccombere alla sua banalità, per ricercare lo straordinario che è sempre presente nell’ordinario della vita quotidiana.

© Giovanni Lamagna

Ordinario/straordinario, banale/sacro.

Noi non abbiamo alternative a quella di vivere nell’attimo presente, che è, in genere, tranne rare eccezioni, assolutamente ordinario, quasi sempre addirittura banale.

Allo stesso tempo abbiamo però la possibilità di trasformare questo momento del tutto ordinario in un qualcosa di assolutamente straordinario.

Come?

Vivendo l’attimo presente come se esso fosse il primo e allo stesso tempo l’ultimo della nostra vita; come se fosse quindi un momento sacro.

Nella consapevolezza che ogni momento della nostra vita, anche il più routinario, ha il suo valore e la sua preziosità, perché unico e irripetibile.

© Giovanni Lamagna

Mediocrità e perfezione.

E’ un dato di fatto e di realtà: nella storia l’ordinario vince spesso (anzi quasi sempre) sullo straordinario.

Lo straordinario , d’altra parte, è tale proprio perché eccede l’ordinario, cioè la regola, perché va fuori delle norme, è oltre la regola.

L’Umanità sui grandi numeri preferisce accontentarsi. Aborre gli eroi e i santi. Si tiene lontana dai loro stili di vita.

Tranne poi elevarli agli onori degli altari e costruire monumenti alla loro morte, facendone dei modelli di Umanità.

Ma, appunto, alla loro morte! Dopo averli quasi sempre ignorati o addirittura disprezzati e perfino perseguitati mentre erano in vita.

Santi ed eroi vengono riconosciuti tali quasi sempre post mortem, quando i loro modelli di vita non danno più fastidio ai mediocri, cioè a coloro che si accontentano di stardard di vita ordinari.standard,

E che si sentono, perciò, messi in crisi nel loro piatto conformismo dalla vicinanza/contiguità dei santi e degli eroi.

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D’altra parte nessuno nasce perfetto e nessuno potrà mai diventare perfetto.

Ma, se rinunciamo già in partenza al progetto di diventare perfetti (“Siate perfetti come è perfetto il Padre mio!”), siamo fatalmente e già in partenza destinati alla mediocrità.

A restare cioè persone irrealizzate, nel senso di persone che non hanno realizzato il loro potenziale.

L’idea di perfezione, dunque, non serve tanto a diventare perfetti (cosa impossibile da realizzare), ma a crescere, a migliorare, ad evolvere, a stimolare la nostra volontà di superarci, di elevarci.

Allo stesso modo dell’utopia, che non serve certo a costruire, una volta e per sempre, un mondo perfetto, senza macchie e senza peccati.

Ma serve – anzi io dico è necessaria – a costruire un mondo migliore, a camminare, come dice Salgado, nella direzione della sua costruzione, per quanto questa rimarrà sempre imperfetta e, quindi, incompiuta.

© Giovanni Lamagna

Il quotidiano e l’assoluto.

Nel suo libro “L’Arcisenso” il filosofo Aldo Masullo introduce il capitolo dedicato alla “Sapienza”, parlando (a pagina 119) “dell’insidioso insinuarsi della produzione mentale di assoluto nel tessuto della quotidianità umana”.

Come a dire (almeno io così l’ho interpretato): la quotidianità umana è fatta essenzialmente di contingenza e di relativo, ma l’animo umano è destinato a incrociare spesso (e volentieri) la dimensione dell’assoluto.

Dimensione quasi sempre fallace: una specie di allucinazione, frutto “della produzione mentale” dell’uomo stesso, che gli fa perdere di vista i contorni della nuda ed effettiva realtà. Tanto è vero che il filosofo Masullo fa cenno al “disastroso effetto” di questo “insinuarsi della produzione mentale di assoluto”.

Io avrei adoperato, invece del termine “insinuarsi” (che lascia pensare a un lento e dolce “introdursi”), piuttosto il termine “irrompere”. In quanto, più che un cambiamento, l’assoluto produce, il più delle volte, un vero e proprio sconvolgimento “della quotidianità umana”.

Eppure, nonostante il “disastroso effetto” che quasi sempre esso produce, sembra esistere nell’animo umano una irresistibile attrazione per l’assoluto, per questa rottura della contingenza e della relatività insite nella condizione umana che il suo irrompere introduce. Anche questo è un dato di realtà.

A questo punto insorgono in me due domande.

Innanzitutto: quali sono le principali situazioni in cui l’uomo sperimenta l’insinuarsi (come dice Masullo) o l’irrompere (come mi permetto di dire io) dell’assoluto nella sua vita? E’ possibile indicarne alcune, almeno le principali, le più ricorrenti nella vicenda umana? A mio avviso, sì.

La prima, la più a portata di mano e, quindi, la più sperimentata dalla grande maggioranza degli uomini, è quella dell’innamoramento.

Quando ci si innamora, infatti, l’altro/a diventa per l’innamorato/a una sorta di assoluto, che rompe, spezza la monotonia della sua esistenza quotidiana.

La figura dell’innamorato/a ci è continuamente presente, come fosse un miraggio nel deserto.

Si dilata, ci accompagna e, quindi, la vediamo dappertutto, anche quando è momentaneamente assente dal punto di vista fisico, moltiplicata all’infinito, proiezione evidente del nostro desiderio che la sua presenza non ci manchi mai.

La nostra giornata è accompagnata, come in sottofondo, da una sorta di dolcissima colonna sonora che la rallegra, anzi la rende felice, perché unica, speciale.

I nostri orizzonti sensoriali si dilatano all’infinito, come sotto un effetto allucinogeno, esaltando la nostra potenza, come in una specie di delirio. Quando siamo innamorati nulla ci sembra impossibile, anzi tutto sembra alla nostra portata.

L’innamoramento produce una vera e propria deformazione ottica. Caudale (re della Licia) “era innamorato di sua moglie; e, nell’esaltazione dell’amore, credeva di possedere la donna di gran lunga più bella di tutte”. Non a caso la sua storia (Erodoto; Storie; Libro I) viene citata da Masullo come esempio perfetto (“una perfetta mitizzazione”) dell’assunto iniziale da cui siamo partiti.

La seconda situazione in cui ci è dato verificare l’irrompere dell’assoluto nella nostra vita è, per certi aspetti, speculare alla prima: è la sperimentazione del rischio e dell’avventura, cioè della possibilità (in certi casi addirittura, paradossalmente, voluta, ricercata) di perdere il bene che ci rende felici, al limite il bene della vita stessa.

L’amore ci conferma e, perciò, rassicura: in questo sta la felicità ad esso collegata. Il rischio e l’avventura mettono tutto in pericolo, in discussione ed a soqquadro, ma introducono, allo stesso tempo, un elemento adrenalinico, che l’eccesso di conferma e di rassicurazione corre il rischio di spegnere: sta in questo l’eccitazione e la felicità che essi possono procurarci.

Caudale mette a rischio la sua felicità di marito, di uomo esaltato dall’amore che nutre per la moglie, offrendola alla vista (e, quindi, al desiderio) di un altro uomo: Gige, la più fidata delle sue guardie del corpo. In questo modo corre il rischio di eccitare anche il desiderio della moglie e di indurla alla infedeltà nei suoi confronti.

Mette a rischio, anzi, come ci racconta Erodoto, la sua stessa vita. Di uomo ricco, di potere e di amore. Eppure egli sceglie (non si capisce bene con quanta consapevolezza; ma la cosa ha molta importanza?) di correre questo rischio, perché l’eccitazione data dal rischio è simile all’eccitazione che danno il potere, la ricchezza e, perfino, l’amore.

Il rischio ha il potere di interrompere la monotonia che possono intervenire in una situazione in cui c’è troppa sicurezza. Il rischio quindi è un altro modo di sperimentare l’irruzione dell’assoluto nella nostra esistenza, nella nostra monotona quotidianità.

Esistono poi, a mio avviso, altri tre modi di incontrare l’assoluto, di interrompere (o, almeno, coltivare l’illusione di interrompere) lo scorrere contingente, fragile, monotono, della nostra esistenza.

Il primo è l’ispirazione artistica, che in certi casi assume le caratteristiche di un vero e proprio raptus. Il vero artista non è colui che decide di fare l’opera d’arte, ma è colui che è trascinato da una forza quasi a lui estranea a fare l’opera d’arte.

Il risultato è qualcosa che è paragonabile alle meraviglie stesse del creato. Non solo perché ne eguaglia per certi aspetti la bellezza. Ma perché è omologo in qualche modo all’atto stesso della creazione.

Perciò anche il semplice fruitore dell’opera d’arte ne è in qualche modo rapito, allo stesso modo di come ciascuno di noi rimane rapito, addirittura talvolta estasiato di fronte ad un cielo stellato, a certe albe o a certi tramonti, a certi paesaggi della natura che sembrano mostrarci l’essenza stessa del bello.

Il secondo è l’intuizione filosofica o scientifica. Io credo che sia il filosofo che lo scienziato vivano e lavorino alla ricerca del mistero della vita. Il primo sotto l’aspetto più spirituale e intellettuale del termine. Il secondo sotto l’aspetto più materiale, in senso lato, del termine, comprensivo della dimensione chimica, biologica, fisica, fisiologica e via dicendo.

Quando il filosofo e lo scienziato (per vie ovviamente molto diverse) incontrano, colgono, uno spicchio, uno sprazzo, un pezzettino di questo mistero assoluto che sono la vita e l’universo, credo che l’esperienza psicologica da loro vissuta sia quella (non saprei definirla in altro modo) dell’incontro con l’assoluto, dell’insinuarsi (o dell’irrompere) dell’assoluto nella loro vita.

Il terzo è l’illuminazione o estasi mistica. Il mistico è una persona che ha un solo o principale scopo nella vita: quello di entrare in comunione, farsi uno, con l’universo che lo circonda (l’universo fisico, costituito dalla natura, e l’universo antropologico, costituito dai suoi simili). Dio è solo la metafora di questo Tutto, con il quale il mistico aspira a connettersi.

Quando vive (nei pochi, rari o, per alcuni fortunati, molti momenti in cui riesce a vivere) l’esperienza dell’illuminazione o dell’estasi (che non è facile da definire, proprio perché essa ha a che fare con il mistero, l’essenza stessa della vita) entra in contatto con l’assoluto (o, almeno ha l’impressione, la percezione, quasi fisica, di entrare in contatto con un qualcosa o qualcuno che per lui è l’assoluto).

Concludo provando a rispondere alla seconda delle due domande che erano insorte in me all’inizio di questa riflessione: che cosa spinge l’uomo a ricercare l’assoluto nella sua vita? o (ponendo la stessa domanda da un altro versante) che cosa lo predispone all’insinuarsi (come dice Masullo) o all’irrompere (come propendo a dire io) dell’assoluto nella quotidianità della sua esistenza?

La mia risposta è secca, netta, precisa: la noia.

L’uomo deve combattere con una malattia, un tarlo incombente, che può diventare addirittura un vero e proprio cancro, in grado di rovinare qualsiasi situazione esistenziale, anche quella di massimo benessere, perfino quella, rara e pure da alcuni sperimentata, almeno in certi momenti, che potremmo definire di felicità.

Questa malattia è la monotonia, la routine, la ripetitività. Che a loro volta producono lo stato d’animo della noia, il tarlo in grado di rodere e consumare anche la più perfetta delle gioie e delle felicità.

L’unico rimedio, farmaco in grado di guarire da questa malattia o, almeno, di interrompere il suo circuito perverso e il suo progressivo aggravamento è l’incontro con l’assoluto o, meglio, con ciò che l’uomo si illude sia l’assoluto, definendolo con questo termine, in fondo del tutto convenzionale.

Questo incontro può avvenire, a mio avviso, solo nei cinque modi che ho provato a descrivere sopra. Anche se non posso escludere che ce ne siano degli altri.

Un altro, il primo che mi viene in mente in questo momento, è forse il gioco. Anche se il gioco mi sembra parecchio più futile, effimero e meno potente degli altri cinque per l’effetto terapeutico che può avere sulla malattia di cui parlavo prima.

Come tutti i farmaci, però, anche quelli da me indicati hanno delle controindicazioni. Che, in alcuni casi, possono essere addirittura devastanti, disastrosi. Come afferma Masullo e come ci dicono le biografie di molti amanti, artisti, filosofi, scienziati e mistici.

Eppure credo che davanti all’uomo ci siano solo due opportunità, due scelte: o quella di un’esistenza potremmo dire senza storia, una vita mancata, persa nella tranquilla mediocrità del quotidiano; o quella di azzardare il rischio, l’avventura dell’incontro (almeno momentaneo) con l’assoluto, con lo straordinario.

In questo secondo caso, è vero, l’uomo corre il pericolo di andare incontro a un esito che potrebbe essere disastroso. Da temere, ma non certo.

Nel primo caso, invece, il disastro è sicuro, perché è già in atto. Non c’è neanche bisogno di temerlo, perché è già presente.

Giovanni Lamagna