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Età avanzata, vecchiaia e poliamore.

Più volte negli ultimi tempi, alcuni amici, che leggono spesso (bontà loro!) questi miei articoletti, mi hanno chiesto, tra il serio e il faceto, se le mie frequenti riflessioni sulla sessualità (in modo particolare la mia critica alla monogamia e una certa sponsorizzazione da parte mia della pratica, che si va sempre più diffondendo oggi, del “poliamore”) avessero a che fare con la mia incombente vecchiaia.

Sotto, sotto, in maniera manco troppo celata, per quanto scherzosa e pur sempre amichevole, questi amici paventavano – ho avuto l’impressione – una mia tendenza ossessiva verso questi argomenti e forse anche un vegliardo delirio di onnipotenza, proprio quando obiettivamente l’età oramai molto avanzata non favorisce certo la plenitudine della vita sessuale e delle sue prestazioni.

Sono consapevole che tali allusioni (e forse financo preoccupazioni) potrebbero avere (e, forse hanno) un qualche fondamento e perciò intendo confrontarmi con esse, senza sottrarmi non solo all’ironia, per quanto (almeno apparentemente) benevola, bonaria, ma anche alle critiche eventuali verso una posizione ritenuta non solo estremista, utopistica, ma persino stonata (in una persona della mia età) e, quindi, tutto sommato patetica.

A queste critiche velate, per quanto – ripeto – rivestite di bonarietà ed intatta amicizia, dopo essermi esaminato, come faccio di solito quando qualcuno mette in discussione le mie “certezze”, rispondo con i tre argomenti che seguono.

1 Mi capita da alcuni anni non solo di scrivere (come faccio oramai da decenni) privatamente sul mio diario, ma di rendere pubbliche (via email, facebook e su qualche libretto) le mie riflessioni su tutta una varietà di argomenti, tra i quali quello relativo alla sessualità.

Lo faccio, forse, “anche” per una forma di esibizionismo e, quindi, di narcisismo: questo non posso escluderlo del tutto.

Ma, se fosse solo per narcisismo, voglio dire per un narcisismo smaccato ed acclarato, credo che in fondo me ne vergognerei e che non oserei sfidare il fastidio che esso inevitabilmente e giustificatamente provocherebbe in quelli a cui indirizzo le mie riflessioni, per quanto amici (e, quindi, tolleranti nei miei confronti) essi possano essere.

Cosa è, allora, che mi spinge a rendere pubbliche certe riflessioni che non solo sono molto intime, ma spesso toccano argomenti che solitamente si tengono riservati e che (forse) possono addirittura offendere il senso del pudore di coloro che mi leggono o, almeno, di alcuni di loro?

La risposta (meditata) è questa: io considero la vita un viaggio e, come del resto accade a molti viaggiatori, a me piace raccogliere “note di viaggio”, quelle che io considero “mappe di orientamento”, relative ai sentieri e alle vie che sto percorrendo o che ho già percorso.

Ritengo allora di offrire una sorta di “servizio pubblico” rendendo manifeste queste mie “note di viaggio” e queste mie “mappe di orientamento”.

Può darsi pure, anzi è molto probabile, che esse non risulteranno utili a o attraenti per nessuno; ma, quand’anche dovessero risultare utili o attraenti anche solo in qualche sporadico caso e anche solo ad uno dei miei sparuti lettori (come talvolta mi succede di avere riscontro), la mia sensazione (potrei dire anche la mia convinzione) è di non aver soddisfatto solo una mia sterile pulsione narcisistica, come forse ai più apparirà.

Dunque, in sintesi e per tentare di dare una risposta alla domanda che mi sono fatto poco sopra, se io oggi rendo pubbliche certe mie riflessioni su sessualità e dintorni, non lo faccio tanto perché penso di poter mettere (io) in pratica le cose che mi capita di sentire, comprendere e di scrivere, ma perché penso e spero che esse possano risultare utili e attraenti in qualche modo a chi verrà dopo di me, a chi è più giovane di me, in qualche modo traendo frutto e facendo tesoro (anche) da quanto io ho potuto sperimentare nel corso della mia vita, comprese le mie frustrazioni e i miei fallimenti, anzi traendo insegnamenti soprattutto da questi ultimi.

E’ forse presunzione la mia? Può darsi. Ma non ne sono del tutto sicuro. Anzi in tutta sincerità non lo penso affatto. E allora oso scrivere di certi argomenti, anche se a qualcuno la mia potrà sembrare presunzione e vanità. Disposto ad affrontare, dunque, a viso aperto, le critiche e le ironie che me ne verranno.

2. Io non penso affatto (come, forse, i più – a mio avviso con troppa faciloneria tendono a ritenere – compresi alcuni illustri psicologi e psicoanalisti, di cui ho letto molto, quali – per fare solo due nomi – Galimberti e Recalcati) che il cosiddetto “poliamore” sia sinonimo di dongiovannismo, di casanovismo e (meno che mai) di ossessione, dipendenza, mania sessuale, ipersessualità.

Che in alcuni casi sia “anche” questo, forse, è vero; che alcuni puri e semplici maniaci sessuali possano definirsi oggi (visto che il termine è in voga) poliamorosi, è probabile.

Questo però non vuol dire che tale identificazione sia giusta ed appropriata sempre e per chiunque oggi si definisca “poliamoroso”.

Cosa è, infatti, per me il “poliamore”? E’ una visione dell’amore e della sessualità che si distacca, distingue, da quello che è stato finora il modo prevalente di vedere e di vivere sia l’uno (l’amore) che l’altra (la sessualità), fondato sulla esclusività del sentimento e del legame.

E’ l’idea, anzi la convinzione, che un amore non escluda altri amori, che più amori possano convivere serenamente e apertamente in contemporanea, senza sotterfugi e inganni (come, purtroppo, è avvenuto in passato – per secoli, anzi millenni – e come avviene anche oggi nella maggior parte dei casi), se il sentimento del possesso e quello della gelosia (che scattano inevitabilmente quando un amore nuovo insorge in presenza di un amore “vecchio”, ma ancora vivo) vengono educati e superati.

Non è, insomma, niente affatto la ricerca ossessiva, spasmodica e, quindi, anche per me del tutto nevrotica, se non addirittura psicotica, di più legami amorosi e sessuali; in questo caso, a dire il vero, in genere più sessuali che amorosi.

E’, invece, la disponibilità serena, tranquilla, niente affatto ossessiva, a viversi più legami amorosi, laddove se ne presentassero le condizioni, le opportunità e laddove questi fossero occasioni di crescita e di arricchimento di tutti i legami amorosi in atto.

Il poliamoroso, dunque, non ha niente a che fare con gli archetipi del don Giovanni e del Casanova, i quali vivono le loro conquiste amorose come trofei da aggiungere ad una metaforica galleria/bacheca, da ostentare con fanatico e narcisistico orgoglio.

Il poliamoroso è semplicemente una persona aperta, che rimane aperta anche quando vive un legame amoroso solido e ancora valido, perché sperimenta che un nuovo amore non cancella quello precedente e che gli amori (se sono veri amori) non si escludono a vicenda.

Il poliamoroso è oltretutto una persona che (al contrario del dongiovanni) dà molta più importanza all’amore che al sesso; anche se non sottovaluta affatto il sesso, perché ha sperimentato ed è convinto che il sesso è (o, almeno, può essere) una delle manifestazioni dell’amore, in molti casi la sua espressione più intima e profonda.

3. I due argomenti precedenti se ne tirano dietro un terzo, che è il seguente: almeno in linea teorica, anche una persona anziana può essere aperta alla poliamorosità; perché questo non comporta nessun velleitarismo, nessuna smania di prestazioni sensazionali, nessuna ricerca spasmodica e ossessiva di nuove performance amorose e, meno che mai, sessuali.

Comporta solo un’apertura mentale e il superamento di alcuni tabù consolidati che le epoche precedenti ci hanno trasmessi e di cui un po’ tutti quanti noi, anche i più disponibili ai cambiamenti, facciamo fatica a liberarci.

Sono convinto che anche una persona anziana possa, anzi debba, rimanere aperta a nuovi incontri e possa assaporare addirittura nuovi amori; questi, se gli capiteranno, non potranno che fare bene alla sua salute, a quella fisica e a quella psicologica.

Ovviamente, però, non dovrà confondere i nuovi amori col “primo vero grande amore”; non dovrà confondere il nuovo amore con l’amore dei suoi sogni, secondo l’idea romantica, ancora dura a morire e largamente prevalente anche tra gli anziani.

Ma, soprattutto, non dovrà perdere la testa confondendo la “novità” con la “superiorità” del nuovo amore rispetto a quello “vecchio”, già in corso e, oramai, datato; dovrà conservare la lucidità di pensare che un amore nuovo non cancella (necessariamente) l’amore che lo ha preceduto, ma che i due amori possono convivere benissimo, se ci si educa ad un modo meno rigido e convenzionale, più aperto e flessibile, di vivere i propri rapporti.

Infine, con l’avanzare sempre più incalzante dell’età dovrà, forse, prendere atto che la stagione degli amori plurimi per lui è finita e che, nel migliore dei casi, egli oramai sarà in grado di viversene uno solo.

Ma questo dato di realtà non gli chiederà affatto di rinnegare la teoria e la pratica poliamorose; che, se non varranno più per lui, saranno valide comunque per quelli più giovani di lui; e, quindi, comunque degne di essere da lui condivise e propagandate, almeno in teoria, se non nella pratica reale.

Che è esattamente il mio caso; per questo mi capita di parlarne spesso, anche a costo di sottopormi all’ironia benevola di amici e conoscenti.

Non certo perché io pensi che alla mia età si possa realisticamente mettere in pratica la teoria poliamorosa.

Ma perché penso che parlarne possa favorire (specie nei molto più giovani di me) un nuovo modo di pensare l’amore e la sessualità e contribuire quindi alla nascita di una società più aperta, più libera, più tollerante, oltre che meno ipocrita, di quella attuale.

© Giovanni Lamagna

Esiste la pulsione di morte?

Francamente non credo che esista, come afferma Freud, una vera e propria “pulsione di morte” (Todestrieb), autonoma dalla pulsione di vita, anzi ancora “più originaria, più elementare, più pulsionale” di questa.

Capisco bene le motivazioni ed il contesto storico e persino personale che spinsero Freud ad elaborare questa idea: penso all’esperienza della prima guerra mondiale e al sentore dello scoppio imminente della seconda, alla frequentazione quotidiana di pazienti devastati da una condizione esistenziale talvolta insanabile e (forse) anche alla stessa sofferenza dei suoi ultimi anni di vita, quelli della vecchiaia e, quindi, della decadenza.

Ma ugualmente l’idea della “pulsione di morte”, così come la elaborò Freud, non a caso nell’ultima fase della sua vita, pur con tutto il rispetto e l’ammirazione che ho per il grande pensatore viennese, mi appare poco o niente convincente. E per vari motivi.

Innanzitutto perché affermare l’idea di una pulsione di morte che addirittura precede la pulsione di vita è un po’ come dire che la morte viene prima della vita, che l’uomo (anzi qualsiasi vivente) prima esiste e, quindi, vive come morto e poi come vivo: pensiero alquanto paradossale!

Poi perché la stessa espressione “pulsione di morte” è per me un vero e proprio ossimoro, rappresenta una contraddizione in termini: ciò che pulsa non può essere morto e ciò che è morto non può pulsare.

E, infine, perché penso che la pulsione di morte, di cui parla Freud, altro non sia che la stessa pulsione di vita quando si ammala, quando cioè la vita si rivolta contro se stessa, devia da quello che dovrebbe essere il suo percorso evolutivo naturale e tende ad autodistruggersi.

Quindi la pulsione di morte (ammesso che si possa parlare correttamente, dal punto di vista anche solo linguistico, di “pulsione di morte”) per me non è, non può essere, una pulsione altra, distinta, autonoma, diversa, anzi opposta alla pulsione di vita, ma è solo la sua versione patologica.

A maggior ragione la pulsione di morte (concepita da Freud – ripeto e guarda caso negli ultimi anni della sua vita – , sostenuta poi con forza da Lacan e oggi ripresa con altrettanta energia e convinzione da Massimo Recalcati, nel suo libro “Le nuove melanconie”, in polemica garbata ma altrettanto decisa con i neolacaniani, che a suo dire l’avrebbero edulcorata e in fondo svuotata del suo potere urticante e scabroso) non è, dunque, almeno per me, una pulsione che strutturalmente, per sua natura intrinseca, nega “l’incontro con l’Altro”.

Quasi fosse un’altra forma di vita, di esistenza, una vita e un’esistenza paradossalmente nate già morte.

Ma è la stessa pulsione di vita, che non ha avuto (nella fase dell’infanzia soprattutto) un’esperienza positiva e felice nell’incontro con l’Altro (quando i primi incontri con l’Altro – in modo particolare con i genitori, in modo ancora più particolare con la madre – segnano, decidono quasi definitivamente il destino della nostra vita emotivo/affettiva) e, quindi, si è ritirata in se stessa, ripiegata su di sé, delusa, disperatamente immalinconita, e perciò ammalata.

Oltretutto questo modo di vedere non mi pare che neghi e neanche che tenda ad oscurare, edulcorare o sottovalutare, come sembra temere Recalcati, il lato tragico della vita e persino le spinte autodistruttive, a volte assolutamente devastanti, presenti in molte esistenze umane.

Significa solo spiegarli e motivarli con argomentazioni diverse da quelle a cui fece ricorso Freud e, dopo di lui, da tanti altri insigni psicoanalisti ( i cosiddetti ortodossi), tra i quali i già citati Lacan e Recalcati, senza cadere nelle loro contraddizioni teoriche, che a me sembrano piuttosto vistose, come ho provato qui a dimostrare.

© Giovanni Lamagna

Madre-coccodrillo e amanti-coccodrillo

Leggendo “Le mani della madre” di Massimo Recalcati

Nel libro “Le mani della madre”, Massimo Recalcati (pag. 116-117) così scrive:

Abbiamo già mostrato come l’Altro materno non sia affatto esente da profonde ambivalenze…

E’ stato in particolare Lacan – sulle orme di Melanie Klein – a inoltrarsi verso una rappresentazione più inquietante del desiderio materno proponendo di accostarlo alla bocca spalancata di uno spaventoso coccodrillo. In questa versione la madre, anziché fungere da riparo dell’angoscia, la provoca, la scatena, diventa un’incarnazione terrificante della minaccia che rende instabili sia il mondo esterno che quello interno.

La tesi di Lacan è che nell’inconscio di ogni madre – foss’anche di quella più amorevole e dedita sinceramente al bene dei propri figli – , nella struttura stessa del suo desiderio, risieda una spinta indomita a fagocitarli. Ecco l’immagine della bocca di coccodrillo spalancata che li vorrebbe divorare voracemente.

… In primo piano è ancora la tendenza incestuosa del desiderio materno: una madre vorrebbe divorare il proprio frutto, rimetterlo dentro di sé, incorporarlo, appropriarsene integralmente; vorrebbe conoscere tutto dei suoi figli, godere del loro corpo, rivendicare un diritto assoluto di proprietà, leggere nei loro pensieri…

… Si tratta di una forma chiaramente perversa del desiderio materno con la quale la clinica psicoanalitica spesso si confronta. In questo senso anche Franco Fornari, sulla scia di Lacan, riteneva che “quando il codice materno tende a perdurare al di là del periodo in cui è funzionale, allora mette in grave pericolo la femminilità” e, di conseguenza, il processo di differenziazione tra il bambino e la madre…

… Gli effetti sono quelli di una confusività che cancella ogni differenziazione simbolica…

… Quando l’amore materno può degradarsi in questo modo? Quando la madre si perde nei propri figli, vive solo per loro, vi si dedica senza limiti. Quando la responsabilità della maternità lascia il posto a una spinta alla divorazione, solitamente reciproca, di madre e figlio: la madre assorbe il bambino che assorbe la madre. L’amore materno sfocia allora in un’incorporazione che può raggiungere il suo punto più estremo nel passaggio all’atto omicida o in una presenza soffocante che non lascia alcuna libertà al soggetto. In diversi episodi di cronaca ci troviamo di fronte all’orrore di questa trasformazione dell’amore materno in violenza omicida. La clinica psicoanalitica mostra come il passaggio all’atto infanticida e, più in generale, i maltrattamenti infantili di ogni genere abbiano molto spesso come loro matrice una coppia madre-bambino che prescinde da ogni riferimento a un terzo capace di assicurare un limite al desiderio materno.

L’esistenza di questo limite dovrebbe essere stabilita innanzitutto dal legame amoroso da cui la vita del figlio scaturisce e che separa l’esistenza della donna da quella della madre. Senza una sufficiente distanza tra la madre e la donna, la madre e il bambino si confondono, si annullano reciprocamente, dando luogo a una simbiosi mortifera o a una conflittualità colma di odio e di violenza. In questi casi non è solo la madre che divora il bambino, ma – consacrando follemente la sua vita a quella del figlio – è la donna che viene divorata dalla madre. Se il bambino esaurisce l’orizzonte del mondo – se la madre cancella la donna – , il figlio diviene un oggetto che richiude il desiderio della donna sul desiderio della madre. Il mondo allora si contrae in un mondo chiuso e la diade madre-figlio diventa il modello di una relazione che non può sopportare alcuna forma di separazione. Ma un legame senza separazione viene privato di ogni forza espansiva e generativa ed è destinato fatalmente a scivolare in un incollamento reciproco privo di desiderio.

La riflessione, che vorrei introdurre a partire da questo testo e che mi è balzata alla consapevolezza quasi come una libera associazione mentre lo leggevo, è che la dinamica di cui parla Recalcati, sulla scorta dell’insegnamento di Lacan e, prima ancora, di Melanie Klein, la dinamica che talvolta corrompe la coppia madre-bambino, la dinamica della madre-coccodrillo, la si ritrova non poche volte – pari, pari – anche nelle coppie di amanti.

Anche gli amanti hanno talvolta la tendenza a fagocitarsi. A volte questa tendenza è presente in entrambi, altre volte è maggiormente presente in uno dei due e l’altro la subisce.

La mia tesi è che nell’inconscio di ogni amante, fosse anche il più rispettoso della libertà e dell’autonomia dell’altro/a, nella struttura stessa del suo desiderio, risieda una spinta (più o meno esplicita, più o meno latente) a fagocitare l’altro/a.

Non a caso un’espressione tipica e frequente tra gli amanti (che la rende benissimo) è la seguente: “Ti prenderei a morsi! Ti mangerei tutto/a!”.

Per cui l’immagine della bocca di coccodrillo spalancata, che vorrebbe divorare voracemente l’altro/a, si adatta non solo alla madre col bambino, ma talvolta anche agli amanti di una coppia o ad uno/a solo/a di essi.

Ci sono pagine e pagine della letteratura oltre che quelle della cronaca giornaliera che ci rendono conto e prova dell’esistenza di una tale dinamica, neanche poi tanto rara, anche se varia e diversificata nelle forme e nella intensità.

Nei casi estremi e più gravi di questa dinamica ciascun amante o anche uno solo dei due vorrebbe divorare l’altro/a, incorporarlo, appropriarsene integralmente; vorrebbe conoscere tutto di lui, non solo godere del suo corpo, ma rivendicare un diritto assoluto di proprietà su di esso, addirittura leggere nei suoi pensieri.

Anche qui, come nel caso del rapporto “bambino/madre-coccodrillo”, “gli effetti sono quelli di una confusività che cancella ogni differenziazione simbolica”.

Si tratta – a mio avviso – di una forma chiaramente perversa del modo di intendere e di vivere l’amore erotico, con la quale non saprei dire se tutti gli psicoanalisti si confrontano allo stesso modo e nella stessa misura con cui si confrontano con quella della “madre-coccodrillo”.

Perché c’è il rischio che questo modo divorante, incorporante, possessivo, proprietario, di vivere il sentimento erotico venga inteso come facente parte della natura stessa di questo sentimento, come un suo tratto distintivo e imprescindibile e non una sua perversione patologica.

Mentre è una evidente manifestazione patologica. In una tale situazione i confini tra i due amanti tendono ad annullarsi, viene a crearsi una simbiosi, quella che Eric Fromm definisce “egotismo a due”: l’uno/a non vive senza l’altro/a e viceversa.

La conseguenza è che un poco alla volta viene ad estinguersi anche la stessa creatività iniziale del rapporto e per conseguenza (paradossalmente) lo stesso erotismo, che progressivamente degrada in stanca routine e noiosa assuefazione reciproca.

Non è difficile andare a rintracciare le cause di tali comportamenti, che sicuramente risalgono all’infanzia delle persone che li mettono in atto.

La causa più comune (che in un certo senso le riassume tutte) è un mancato amore o un amore sbagliato ricevuto in età infantile, soprattutto dalle due figure genitoriali o anche da una sola di esse.

E’ probabile, per fare giusto l’esempio più direttamente connesso al discorso di Recalcati, che il figlio o la figlia di una madre-coccodrillo si comporterà in amore, nel suo rapporto di coppia, nei confronti del suo partner o della sua partner, con le stesse modalità fagocitanti e incorporanti che la madre aveva nei confronti del figlio o della figlia.

Molto semplicemente perché non ne conosce altre: per lui/lei “l’amore” è quello che gli/le ha dato la madre quando lo ha allattato e allevato.

Può succedere anche che chi ha “subito” questo tipo di amore da sua madre tenda a cercarlo uguale nel/la partner con il/la quale si accoppierà una volta diventato “adulto/a”.

A questo punto resta da chiedersi: quando l’amore erotico si degrada a tal punto da poter essere definito “amore coccodrillo”?

La mia risposta è: quando uno dei due partner si perde totalmente nell’altro, vive solo per lui/ei, vi si dedica senza limiti. Quando la responsabilità dell’amore erotico lascia il posto a una spinta alla divorazione, che, se non solitamente, spesso è reciproca. Quando l’amante assorbe l’amato che a sua volta assorbe l’amante.

L’amore erotico sfocia allora in un’incorporazione che può raggiungere il suo punto più estremo nel passaggio all’atto omicida o in una presenza soffocante che non lascia alcuna libertà al soggetto.

In diversi episodi di cronaca ci troviamo di fronte all’orrore di questa trasformazione dell’amore erotico in violenza omicida.

Anche qui, a mio avviso, come nel caso dell’infanticidio citato da Recalcati, la clinica psicoanalitica potrebbe mostrare come il passaggio all’atto omicida (più spesso, femminicida) e, più in generale, i maltrattamenti (anche fisici, oltre che psicologici) inflitti al coniuge abbiano molto spesso come loro matrice una coppia che prescinde da ogni riferimento a un “terzo” capace di assicurare un limite al loro desiderio reciproco (o a quello di uno solo dei due verso l’altro/a).

Solo che, mentre nel caso del rapporto madre-bambino, “l’esistenza di questo limite dovrebbe essere stabilita innanzitutto dal legame amoroso da cui la vita del figlio scaturisce e che separa l’esistenza della donna da quella della madre”, nel caso del rapporto di coppia erotica il limite dovrebbe essere costituito per ciascuno dei due partner dall’esistenza di un mondo di interessi e di affetti (oserei dire perfino erotici) che non si esaurisce nel loro rapporto di coppia.

Senza una sufficiente distanza tra la dimensione di “amante” e quella di “donna” o “uomo” complessivamente intesi, i due partner si confondono, si annullano reciprocamente, dando luogo a una simbiosi mortifera o a una conflittualità colma di odio e di violenza.

In questi casi non è solo “l’amante” che divora il compagno o la compagna, ma – quando si consacra follemente la propria vita a quella del partner – è “la dimensione donna” o “la dimensione uomo” che vengono divorati dalla “dimensione amante”.

Se “l’amante” esaurisce l’orizzonte del mondo – se “l’amante” cancella “l’uomo” o “la donna” – , “l’amante” diviene un oggetto che richiude il desiderio dell’”uomo” o della “donna” sul desiderio dell’”amante”.

Il mondo allora si contrae in un mondo chiuso e la diade erotica diventa il modello di una relazione che non può sopportare alcuna forma di separazione, diventa, come dice appunto Fromm, una diade egotica.

Ma un legame senza separazione viene privato di ogni forza espansiva e generativa ed è destinato fatalmente a scivolare in un incollamento reciproco privo di desiderio.

Come si vede, nell’argomentare la mia tesi iniziale, ho utilizzato (quasi) le stesse frasi adoperate da Recalcati per descrivere la dinamica madre-coccodrillo/bambino. Ho dovuto cambiare solo poche, pochissime parole.

Non ho voluto modificare (per scelta consapevole) non solo lo schema concettuale, ma neanche (se non in minima parte) lo stesso lessico, la stessa grammatica e la stessa sintassi del discorso fatto da Recalcati sulla madre-coccodrillo.

Quasi per dare l’idea plastica (e spero la dimostrazione) di come le due dinamiche siano molto simili. Ed anche perché (lo confesso) non avrei saputo descrivere meglio la seconda, senza ricorrere alla magistrale descrizione che Recalcati fa della prima.

Di questo ovviamente sono riconoscente a Massimo Recalcati, che spessissimo offre importanti, anzi decisivi, stimoli alle mie riflessioni.

© Giovanni Lamagna