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Età avanzata, vecchiaia e poliamore.

Più volte negli ultimi tempi, alcuni amici, che leggono spesso (bontà loro!) questi miei articoletti, mi hanno chiesto, tra il serio e il faceto, se le mie frequenti riflessioni sulla sessualità (in modo particolare la mia critica alla monogamia e una certa sponsorizzazione da parte mia della pratica, che si va sempre più diffondendo oggi, del “poliamore”) avessero a che fare con la mia incombente vecchiaia.

Sotto, sotto, in maniera manco troppo celata, per quanto scherzosa e pur sempre amichevole, questi amici paventavano – ho avuto l’impressione – una mia tendenza ossessiva verso questi argomenti e forse anche un vegliardo delirio di onnipotenza, proprio quando obiettivamente l’età oramai molto avanzata non favorisce certo la plenitudine della vita sessuale e delle sue prestazioni.

Sono consapevole che tali allusioni (e forse financo preoccupazioni) potrebbero avere (e, forse hanno) un qualche fondamento e perciò intendo confrontarmi con esse, senza sottrarmi non solo all’ironia, per quanto (almeno apparentemente) benevola, bonaria, ma anche alle critiche eventuali verso una posizione ritenuta non solo estremista, utopistica, ma persino stonata (in una persona della mia età) e, quindi, tutto sommato patetica.

A queste critiche velate, per quanto – ripeto – rivestite di bonarietà ed intatta amicizia, dopo essermi esaminato, come faccio di solito quando qualcuno mette in discussione le mie “certezze”, rispondo con i tre argomenti che seguono.

1 Mi capita da alcuni anni non solo di scrivere (come faccio oramai da decenni) privatamente sul mio diario, ma di rendere pubbliche (via email, facebook e su qualche libretto) le mie riflessioni su tutta una varietà di argomenti, tra i quali quello relativo alla sessualità.

Lo faccio, forse, “anche” per una forma di esibizionismo e, quindi, di narcisismo: questo non posso escluderlo del tutto.

Ma, se fosse solo per narcisismo, voglio dire per un narcisismo smaccato ed acclarato, credo che in fondo me ne vergognerei e che non oserei sfidare il fastidio che esso inevitabilmente e giustificatamente provocherebbe in quelli a cui indirizzo le mie riflessioni, per quanto amici (e, quindi, tolleranti nei miei confronti) essi possano essere.

Cosa è, allora, che mi spinge a rendere pubbliche certe riflessioni che non solo sono molto intime, ma spesso toccano argomenti che solitamente si tengono riservati e che (forse) possono addirittura offendere il senso del pudore di coloro che mi leggono o, almeno, di alcuni di loro?

La risposta (meditata) è questa: io considero la vita un viaggio e, come del resto accade a molti viaggiatori, a me piace raccogliere “note di viaggio”, quelle che io considero “mappe di orientamento”, relative ai sentieri e alle vie che sto percorrendo o che ho già percorso.

Ritengo allora di offrire una sorta di “servizio pubblico” rendendo manifeste queste mie “note di viaggio” e queste mie “mappe di orientamento”.

Può darsi pure, anzi è molto probabile, che esse non risulteranno utili a o attraenti per nessuno; ma, quand’anche dovessero risultare utili o attraenti anche solo in qualche sporadico caso e anche solo ad uno dei miei sparuti lettori (come talvolta mi succede di avere riscontro), la mia sensazione (potrei dire anche la mia convinzione) è di non aver soddisfatto solo una mia sterile pulsione narcisistica, come forse ai più apparirà.

Dunque, in sintesi e per tentare di dare una risposta alla domanda che mi sono fatto poco sopra, se io oggi rendo pubbliche certe mie riflessioni su sessualità e dintorni, non lo faccio tanto perché penso di poter mettere (io) in pratica le cose che mi capita di sentire, comprendere e di scrivere, ma perché penso e spero che esse possano risultare utili e attraenti in qualche modo a chi verrà dopo di me, a chi è più giovane di me, in qualche modo traendo frutto e facendo tesoro (anche) da quanto io ho potuto sperimentare nel corso della mia vita, comprese le mie frustrazioni e i miei fallimenti, anzi traendo insegnamenti soprattutto da questi ultimi.

E’ forse presunzione la mia? Può darsi. Ma non ne sono del tutto sicuro. Anzi in tutta sincerità non lo penso affatto. E allora oso scrivere di certi argomenti, anche se a qualcuno la mia potrà sembrare presunzione e vanità. Disposto ad affrontare, dunque, a viso aperto, le critiche e le ironie che me ne verranno.

2. Io non penso affatto (come, forse, i più – a mio avviso con troppa faciloneria tendono a ritenere – compresi alcuni illustri psicologi e psicoanalisti, di cui ho letto molto, quali – per fare solo due nomi – Galimberti e Recalcati) che il cosiddetto “poliamore” sia sinonimo di dongiovannismo, di casanovismo e (meno che mai) di ossessione, dipendenza, mania sessuale, ipersessualità.

Che in alcuni casi sia “anche” questo, forse, è vero; che alcuni puri e semplici maniaci sessuali possano definirsi oggi (visto che il termine è in voga) poliamorosi, è probabile.

Questo però non vuol dire che tale identificazione sia giusta ed appropriata sempre e per chiunque oggi si definisca “poliamoroso”.

Cosa è, infatti, per me il “poliamore”? E’ una visione dell’amore e della sessualità che si distacca, distingue, da quello che è stato finora il modo prevalente di vedere e di vivere sia l’uno (l’amore) che l’altra (la sessualità), fondato sulla esclusività del sentimento e del legame.

E’ l’idea, anzi la convinzione, che un amore non escluda altri amori, che più amori possano convivere serenamente e apertamente in contemporanea, senza sotterfugi e inganni (come, purtroppo, è avvenuto in passato – per secoli, anzi millenni – e come avviene anche oggi nella maggior parte dei casi), se il sentimento del possesso e quello della gelosia (che scattano inevitabilmente quando un amore nuovo insorge in presenza di un amore “vecchio”, ma ancora vivo) vengono educati e superati.

Non è, insomma, niente affatto la ricerca ossessiva, spasmodica e, quindi, anche per me del tutto nevrotica, se non addirittura psicotica, di più legami amorosi e sessuali; in questo caso, a dire il vero, in genere più sessuali che amorosi.

E’, invece, la disponibilità serena, tranquilla, niente affatto ossessiva, a viversi più legami amorosi, laddove se ne presentassero le condizioni, le opportunità e laddove questi fossero occasioni di crescita e di arricchimento di tutti i legami amorosi in atto.

Il poliamoroso, dunque, non ha niente a che fare con gli archetipi del don Giovanni e del Casanova, i quali vivono le loro conquiste amorose come trofei da aggiungere ad una metaforica galleria/bacheca, da ostentare con fanatico e narcisistico orgoglio.

Il poliamoroso è semplicemente una persona aperta, che rimane aperta anche quando vive un legame amoroso solido e ancora valido, perché sperimenta che un nuovo amore non cancella quello precedente e che gli amori (se sono veri amori) non si escludono a vicenda.

Il poliamoroso è oltretutto una persona che (al contrario del dongiovanni) dà molta più importanza all’amore che al sesso; anche se non sottovaluta affatto il sesso, perché ha sperimentato ed è convinto che il sesso è (o, almeno, può essere) una delle manifestazioni dell’amore, in molti casi la sua espressione più intima e profonda.

3. I due argomenti precedenti se ne tirano dietro un terzo, che è il seguente: almeno in linea teorica, anche una persona anziana può essere aperta alla poliamorosità; perché questo non comporta nessun velleitarismo, nessuna smania di prestazioni sensazionali, nessuna ricerca spasmodica e ossessiva di nuove performance amorose e, meno che mai, sessuali.

Comporta solo un’apertura mentale e il superamento di alcuni tabù consolidati che le epoche precedenti ci hanno trasmessi e di cui un po’ tutti quanti noi, anche i più disponibili ai cambiamenti, facciamo fatica a liberarci.

Sono convinto che anche una persona anziana possa, anzi debba, rimanere aperta a nuovi incontri e possa assaporare addirittura nuovi amori; questi, se gli capiteranno, non potranno che fare bene alla sua salute, a quella fisica e a quella psicologica.

Ovviamente, però, non dovrà confondere i nuovi amori col “primo vero grande amore”; non dovrà confondere il nuovo amore con l’amore dei suoi sogni, secondo l’idea romantica, ancora dura a morire e largamente prevalente anche tra gli anziani.

Ma, soprattutto, non dovrà perdere la testa confondendo la “novità” con la “superiorità” del nuovo amore rispetto a quello “vecchio”, già in corso e, oramai, datato; dovrà conservare la lucidità di pensare che un amore nuovo non cancella (necessariamente) l’amore che lo ha preceduto, ma che i due amori possono convivere benissimo, se ci si educa ad un modo meno rigido e convenzionale, più aperto e flessibile, di vivere i propri rapporti.

Infine, con l’avanzare sempre più incalzante dell’età dovrà, forse, prendere atto che la stagione degli amori plurimi per lui è finita e che, nel migliore dei casi, egli oramai sarà in grado di viversene uno solo.

Ma questo dato di realtà non gli chiederà affatto di rinnegare la teoria e la pratica poliamorose; che, se non varranno più per lui, saranno valide comunque per quelli più giovani di lui; e, quindi, comunque degne di essere da lui condivise e propagandate, almeno in teoria, se non nella pratica reale.

Che è esattamente il mio caso; per questo mi capita di parlarne spesso, anche a costo di sottopormi all’ironia benevola di amici e conoscenti.

Non certo perché io pensi che alla mia età si possa realisticamente mettere in pratica la teoria poliamorosa.

Ma perché penso che parlarne possa favorire (specie nei molto più giovani di me) un nuovo modo di pensare l’amore e la sessualità e contribuire quindi alla nascita di una società più aperta, più libera, più tollerante, oltre che meno ipocrita, di quella attuale.

© Giovanni Lamagna

Fantasie, fantasticherie, immaginazione

“Dobbiamo tenere a freno la fantasia su tutte le cose che riguardano il nostro malessere e il nostro benessere”, così come ci consiglia Arthur Schopenauer (“L’arte della felicità”; Adelphi 1997; p. 58)?

A mio avviso, dipende.

Certo, se ci lasciamo prendere dalla fantasia a tal punto da perdere il senso stesso della realtà, immaginando scenari del tutto impraticabili e irrealizzabili da noi, allora ha ragione Schopenauer.

Inoltre se la fantasia ci porta a ingrandire preoccupazioni e affanni oltre la loro consistenza reale, fino a farli diventare veri e propri incubi, allora Schopenauer ha ancora di più ragione.

Se la fantasia, invece, ci porta a prefigurare scenari creativi e piacevoli, che poi siamo in grado di rendere reali con le nostre scelte e la nostra azione, allora credo che Schopenauer abbia torto.

In questo ultimo caso credo che non solo non sia bene tenere a freno la fantasia, ma che sia bene coltivare la fantasia, che in questo caso è immaginazione.

In altre parole credo che una cosa siano le fantasticherie, che non hanno nessun rapporto con la realtà, altra cosa le fantasie, con le quali talvolta siamo in grado di immaginare e anticipare il reale possibile per noi.

© Giovanni Lamagna

La compassione buddhista e l’amore cristiano.

Molti considerano il concetto buddhista di “compassione” e quello cristiano di “amore” quasi omologhi, come se essi si riferissero a due esperienze molto affini.

Io ritengo, invece, che non solo i due concetti siano parecchio diversi, ma che soprattutto corrispondano a due esperienze molto diverse.

La compassione è l’atteggiamento – soprattutto emotivo/affettivo – che mi porta a condividere il tuo dolore, anzi la tua stessa condizione umana, che è una condizione di fondamentale sofferenza. Provare compassione vuol dire, in altri termini, sentirmi vicino al tuo dolore, alla tua sofferenza.

L’amore è, invece, l’atteggiamento – anche questo soprattutto emotivo/affettivo – che mi porta a provare non solo solidarietà per la tua sofferenza, ma mi spinge anche a desiderare per te il massimo di felicità possibile e a darmi da fare, adoperarmi, perché tu la possa sperimentare.

L’amore, quindi, per me è qualcosa in più della compassione.

La compassione si fonda su una concezione fondamentalmente pessimistica dell’esistenza, secondo la quale la vita è essenzialmente, principalmente, strutturalmente dolore, sofferenza.

Il dolore della nascita, che avviene nelle sofferenze del parto e dà origine alle sofferenze future della vita.

Il dolore della vecchiaia, che ci fa sentire l’avvicinarsi della morte e ci fa quindi sperimentare con forza la “impermanenza”, cioè la fuggevolezza, la non durata eterna della vita.

Il dolore della malattia, causato dagli squilibri che vengono a crearsi talvolta nel nostro corpo, fino a quello finale che ne causa la dissoluzione e , quindi, la morte.

Il dolore della morte, generato dalla perdita della vita.

Il dolore causato dall’essere vicini a ciò che non “piace”.

Il dolore causato dall’essere lontani da ciò che si “desidera”.

Il dolore causato dal non “ottenere” ciò che si “desidera”.

Il dolore causato dai cosiddetti cinque “aggregati”, ovvero dalla loro unione e dalla loro separazione. I cinque aggregati sono: il corpo, le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza.

L’amore cristiano si fonda su una concezione del mondo e della vita che non è certo del tutto e banalmente ottimistica, ma non è neanche del tutto e cupamente pessimistica.

Per il cristiano che ama (e non prova solo compassione) la vita non è solo dolore, ma può essere anche gioia e, in alcuni momenti almeno, perfino felicità.

Basti citare il passo del Vangelo di Matteo 6,25-34 (il primo che mi viene in mente):

«Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un’ora sola alla durata della sua vita? E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. Ora se Dio veste in questa maniera l’erba dei campi che oggi è, e domani è gettata nel forno, non farà molto di più per voi, o gente di poca fede? Non siate dunque in ansia, dicendo: “Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?” Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno».

Non ci sono dubbi: anche in Gesù è presente un discorso che invita al distacco. Ma il distacco di cui parla il Vangelo è un distacco dalle preoccupazioni e dalle ansie della vita, pieno di fiducia nella vita. Che invita a goderne e non a disprezzarla. A non rovinarsene la gioia e il godimento a causa delle ansie e delle preoccupazioni.

Ben distante, dunque, dal distacco ascetico e cupo del Buddha, che considera la vita essenzialmente dolore e sofferenza e quindi invita i suoi seguaci a separarsene mentalmente, fino a raggiungere il Nirvana, che è assenza di sofferenza, non certo pienezza di gioia e felicità: realtà che per il Buddha non sono esperibili dall’uomo.

I due diversi modi di guardare e considerare la vita hanno delle profonde e rilevantissime ricadute nel modo con cui essi suggeriscono di guardare agli altri e di rapportarsi a loro.

Per Buddha gli uomini si devono rapportare ai loro simili con un atteggiamento di compassione per la loro sofferenza. Che vuol dire provare empatia e condivisione del loro dolore strutturale, fondamentale: non c’è altro da condividere.

Per Cristo, invece, come la sua stessa vita ha mirabilmente testimoniato, si tratta di condividere con gli altri gioie e dolori: le gioie della festa e dell’amicizia fraterna e i dolori della malattia e della morte. E in questo consiste l’amore.

Che è dunque cosa ben diversa dalla semplice compassione.

La concezione del Buddha è triste e cupa e spinge fondamentalmente alla rinuncia alla vita, alla rassegnazione, via, via sempre più consapevole, ad un destino di morte. Buddha è come se dicesse: più ci si rassegna e prepara al dolore e alla morte, meno se ne soffrirà, quando il dolore e la morte sopraggiungeranno per noi.

La concezione di Gesù è, invece, luminosa, gioiosa, perfino allegra. Anche egli parla di distacco. Ma dalle ansie e dalle preoccupazioni eccessive o addirittura inutili (potremmo perfino dire dai fantasmi di morte, cui sono legate le nostre nevrosi). Non certo dalle gioie e, perfino, dai piaceri che la vita può regalarci.

Tra i due messaggi, quello di Buddha e quello di Gesù, personalmente, preferisco (e di gran lunga) quello di Gesù.

Giovanni Lamagna