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Sul concetto di “normalità”
Volendo affrontare questo argomento, credo che per prima cosa bisogna chiedersi: ma esiste la normalità? Esiste un criterio per definire ciò che è normale e ciò che non lo è?
A me sembra di poter dire che fino a non moltissimi decenni fa queste domande sarebbero apparse del tutto stravaganti; anzi nessuno se le sarebbe neanche poste.
Da qualche tempo, invece, esse sono entrate a pieno titolo nel dibattito filosofico e perfino in quello pubblico, della gente comune, anche quella per niente abituata a riflessioni e discussioni di carattere speculativo.
Tanto è vero che il pensiero moderno tra le sue varie caratteristiche potrebbe comprendere proprio quella del relativismo.
Ovviamente anche sul concetto di “relativismo” bisogna intendersi, perché potremmo parlare di un relativismo soft, morbido, e di un relativismo hard, estremo.
Il relativismo estremo è quello che nega la possibilità stessa di accedere a una qualche nozione che possa essere definita non dico oggettivamente, ma almeno soggettivamente, come vera; sfiora il nichilismo o, addirittura, si identifica con esso.
Per questo tipo di relativismo anche il concetto di “norma” e conseguentemente quello di “normale” finiscono per non avere alcun solido fondamento teorico-razionale.
Per esso ogni norma e, quindi, ogni riferimento al concetto di “normale” hanno un valore estremamente labile: possono perciò essere messi in discussione da chiunque e in qualsiasi momento; dalla stessa persona che in altri momenti li aveva ritenuti validi.
Il relativismo soft, morbido, non è invece così drastico; infatti, non nega che ciascuno di noi possa raggiungere delle nozioni/convinzioni che per lui, almeno per lui, hanno il valore di “verità”; solo che questa verità nessuno (manco chi la professa) la potrà mai definire come la Verità assoluta.
Ogni “verità” (non a caso scritta con la iniziale minuscola) sarà sempre e solo la mia verità, nella quale magari io crederò con ferma convinzione, ma sempre accompagnandola con un qualche margine di dubbio, disposto dunque a metterla sempre in discussione e a rivederla di fronte ad altre e superiori evidenze.
Io personalmente non condivido il relativismo hard, estremo, mentre mi riconosco in quello soft, morbido.
In questo credo di trovare man forte nel pensiero scientifico, per il quale vale il metodo sperimentale, in base al quale io formulo delle ipotesi e le assoggetto a delle verifiche; se esse vengono validate da prove non contraddette dalla comunità scientifica, queste ipotesi divengono “verità”, nel senso di tesi condivise, quantomeno da un certo numero di persone o di gruppi, più o meno grandi.
Ma anche queste “verità” non hanno nulla del dogma, nel senso che non sono verità indiscutibili ed assolute, valide cioè una volta e per sempre, magari contro ogni evidenza e smentita della realtà.
Rimangono “verità” (e, quindi, risultano utili come forme di orientamento sia teorico che pratico) fino a che non vengono invalidate da qualche nuova scoperta e da qualche nuova teoria.
Questo discorso, anzi questo metodo, si può (anzi, a mio avviso, si deve) applicare anche quando parliamo di ciò che è normale e di ciò che non lo è.
Per me si può applicare il concetto di “normale” a qualsiasi ambito della vita, a patto di non considerarlo un assoluto (ciò che è normale per me o per un gruppo di cui faccio parte lo deve essere per tutti) e a patto di riuscire a metterlo in discussione laddove cadano i presupposti teorici e pratici che in un dato momento storico, in una data fase della mia vita, me lo hanno fatto considerare tale.
Dopo questa premessa teorica, allora che cosa è “normale” per me e che cosa non lo è?
Io credo che si possano distinguere tre criteri per definire il concetto di “normalità”: un “criterio statistico”, un “criterio funzionale” e un “criterio ideale/valoriale”.
In base al primo criterio è normale tutto ciò che rientra nel numero maggioritario di casi all’interno di un universo di casi presi in esame e da noi (più o meno approfonditamente o più o meno superficialmente) conosciuti.
Ad esempio, è “normale” che le donne siano meno alte della maggioranza degli uomini. E per converso è “anormale” che una donna sia più alta della maggior parte degli uomini.
Altro esempio: una volta definita l’altezza media di una determinata popolazione (in questo caso potremmo anche considerare quella dell’intera popolazione mondiale), allora tutti gli individui che si discostano di molto da questa altezza media potranno essere definiti “anormali”; cioè nani, nel caso se ne discostino in basso, o giganti, nel caso se ne discostino in alto.
In base al secondo criterio – quello “funzionale” – è “normale” tutto ciò che “obbedisce” alla funzione per cui è nato o è stato pensato.
Non è “normale”, quindi, un occhio che non vede o un orecchio che non sente, un polmone che non respira o un rene che non depura il corpo di cui fa parte.
Non è “normale” l’utero della donna che non è in grado di farla procreare, come non sono “normali” i testicoli dell’uomo che non producono spermatozoi capaci di assicurare la riproduzione nel caso dell’accoppiamento con una donna fertile.
Non è “normale” un tavolo che non sta in piedi o una lampada che non si accende.
Non è certamente “normale” la persona che non si nutre per restare in vita e così si lascia morire.
Infine non è “normale” la persona che logora e prima o poi rompe i rapporti con tutte le persone con le quali entra in relazione, a causa del suo “brutto carattere”.
Ma anche qui siamo andati, un poco alla volta, verso un concetto di “normalità” che non è facile da definire, perché diventa sempre più difficile fissare il concetto stesso di “funzione”: che cosa è, infatti, un “brutto carattere” e cosa è invece un “bel carattere”? in base a quali criteri si può definire bello o brutto un carattere?
C’è, infine, un terzo criterio per definire la “normalità”, quello che io ho chiamato “ideale/valoriale”.
Qui il concetto di normalità si lega strettamente a quello di etica e a quello di morale: è “normale” ciò che si attiene, è conforme all’etica e alla morale; non è normale ciò che è difforme dall’etica e dalla morale.
Ed è proprio in questo ambito che il concetto di “normalità” in molti casi diventa alquanto vago e ambiguo, in alcuni casi estremamente soggettivo e, quindi, relativo.
Può succedere, infatti, che ciò che è morale per la società nella quale io vivo non sia etico per la mia coscienza individuale, che ha interiormente elaborato e riconosciuto “valori” difformi da quelli nei quali si riconosce, più o meno convintamente, più o meno ipocritamente, la maggioranza delle persone che compongono la “societas” nella quale sono nato, cresciuto o nella quale, in un certo momento storico, vivo.
In questo caso, cosa è “normale” per me? Il “valore” esterno che mi viene additato da coloro o dalla maggioranza di coloro che vivono attorno a me? O il “valore” interno, che io sento come “vero” nel mio foro interiore?
A mio avviso, nel caso in cui si ponesse questo conflitto, dovrebbe valere il “valore interno”.
Ma sono ben consapevole che per i più non è così, che per i più il valore – e quindi anche il concetto di “normalità” – è dato, stabilito, da ciò che pensa e ritiene la maggioranza del “popolo” di cui essi fanno parte.
Fu così, ad esempio, per la grande maggioranza del popolo tedesco durante il periodo della dittatura nazista, quando questo popolo si rese complice di atrocità incredibili, addirittura di un genocidio, perché riteneva che l’obbedienza alle leggi “esterne” imposte dal regime fosse un dovere (molti così dichiararono ex post) rispetto all’obbedienza a ciò che magari leggi “interne”, quelle della coscienza, loro suggerivano.
C’è, infine e per concludere, anche una dimensione teorico-filosofica, che non garantisce facili scelte, quando il discorso va su questo terreno.
Cosa è, infatti, “bene” e che cosa è “male”? A queste domande la filosofia non è mai stata in grado di dare risposte univoche e meno che mai definitive.
Per alcuni filosofi, infatti, perseguire il proprio bene individuale, diciamo pure egoistico, in parziale o perfino totale e radicale conflitto con il bene degli altri, del mio prossimo, non parliamo poi di quello dell’intera Umanità, è del tutto legittimo, anzi doveroso.
Per altri filosofi, meno radicali dei primi, esiste una doppia morale: quella “individuale” e quella “politica”; la prima deve (o dovrebbe) obbedire a determinati valori, la seconda può (e, in alcuni casi, deve) contraddire i valori della prima, in nome del superiore interesse e bene della polis.
Per altri filosofi, infine, il valore dell’amore scambievole e fraterno e della solidarietà tra gli uomini è quello supremo e deve dettare le “norme” del nostro comportamento, sia individuale che collettivo.
Per questi filosofi non solo è inconcepibile una doppia morale, ma una morale fondata sull’egoismo estremo (per intenderci, sulla realtà – data per inscritta nella natura – che “homo homini lupus”) è una contraddizione in termini.
Date queste premesse, – illustrate qui (ne sono consapevole) in modo estremamente sommario e schematico – è del tutto ovvio che il concetto di “normalità” che voglia fondarsi sul criterio “ideale/valoriale” è del tutto opinabile e soggettivo; e, pur tuttavia, è un criterio dal quale nessuno di noi potrà prescindere.
Sia che voglia adeguarsi conformisticamente al pensiero e all’agire della maggioranza (come fecero i più del popolo tedesco durante il regime hitleriano) sia che voglia distaccarsene per obbedire alla propria coscienza individuale (come fecero pochissimi dissidenti tedeschi nello stesso periodo di cui sopra, spesso pagando con la vita questa loro scelta), ciascuno di noi si dovrà assumere per intero la responsabilità delle proprie scelte.
Ciascuno di noi si dovrà assumere la responsabilità intellettuale, etica e, persino, estetica di considerare normali certe cose e anormali altre; nessuno altro potrà fare questa scelta (e prendere le decisioni esistenziali che ne conseguono) al posto suo.
Ma non potrà certo pretendere che esse siano considerate universali ed assolute, cioè valide per tutti.
Tutt’al più si potrà battere, sul piano intellettuale, etico ed estetico, per convincere gli altri del loro valore e spingerli a condividerle con scelte e decisioni meditate e, anche per loro, a loro volta, del tutto personali, individuali e, quindi, soggettive.
Senza integralismi, senza presunzioni dogmatiche e, meno che mai, facendo ricorso alla forza e alla violenza, potrà provare a persuadere gli altri della bontà dei propri argomenti, utilizzando le uniche e umili, oltre che miti, “armi” della parola, del dialogo e della ragione.
© Giovanni Lamagna
L’adesione al messaggio cristiano richiede necessariamente la fede?
Jaspers, a pag. 146 del suo libro “Socrate, Buddha, Confucio, Gesù”, fa questa affermazione: “La conclusione dell’annuncio (cristiano) è: credi nella buona novella. Si richiede la fede (pistis). Essa è indispensabile per entrare nel regno di Dio. E’ condizione della salvezza ed è già salvezza.”
Io non la vedo così: ho un’idea diversa da quella di Jaspers sulla natura del messaggio cristiano, sulla sua essenza.
Credo che l’adesione alla buona novella del Cristo, all’annuncio del suo messaggio di fraternità universale, che (almeno per me ne è l’essenza), non presupponga necessariamente un’adesione fideistica, meno che mai la fede nell’esistenza di una realtà soprannaturale, che sussista oltre questa vita e questo mondo.
Credo che l’adesione alla “buona novella” del Cristo possa avvenire anche per semplice (mica poi tanto semplice!) scelta razionale.
Sulla base cioè della convinzione, puramente, esclusivamente logica e intellettuale (anche se non solo logica e intellettuale, ma anche prelogica, cioè emotiva e sentimentale, come è giusto che sia), che, se gli uomini non si “convertono” all’amore universale predicato (soprattutto) dal Cristo (ma non solo da lui), sono destinati fatalmente alla catastrofe, all’autodistruzione (morale, psicologica, se non proprio fisica) sia come individui sia, prima o poi, anche come collettività, come genere.
Il messaggio di Cristo va, pertanto, a mio avviso, demitizzato, desacralizzato, contestualizzato e decontestualizzato allo stesso tempo. Liberato, depurato, della sua parte caduca, legata cioè al contesto storico in cui esso è nato e si è manifestato.
E razionalizzato, filtrato al vaglio del pensiero scientifico, reso, dunque, compatibile con la cultura moderna. Che non può accettare il “credo quia absurdum”, come avveniva in epoche antiche e premoderne.
Ma può credere solo in ciò che è razionale, sensato, sano, equilibrato, confermato, avvalorato, dalle scienze. In primo luogo dalle scienze che, in vario modo, si occupano dell’uomo. Soprattutto dalle scienze che si occupano dell’animo umano.
Giovanni Lamagna