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La gelosia si può educare.

Certo che gelosia, orgoglio ferito, delusione, rabbia fanno parte della natura umana; che in buona parte è simile a quella degli altri animali!

Ma l’uomo, a differenza degli altri animali, ha una coscienza e un’intelligenza che possono aiutarlo a divenire consapevole dei suoi impulsi e ad educarli, per non restarne prigioniero.

L’uomo – volendo – si può educare a non essere possessivo, a non considerare l’altro/a una sua proprietà; e, quindi, a non essere più geloso.

Tra l’altro io sento che, quando l’altro/a non ci appartiene mai del tutto e in qualche modo ci sfugge, si sviluppa in noi un’adrenalina, un’eccitazione, che appassisce, muore, quando egli/ella sono invece per noi troppo scontati.

Un rapporto in cui non c’è la presenza di un “terzo” (quantomeno immaginario, simbolico) tende a diventare fatalmente “incestuoso”, più fraterno e amicale, che passionale ed erotico.

Accettare questa presenza ha (può avere) due effetti: ci aiuta a diventare meno possessivi e gelosi nei confronti di un nostro “rivale” (potenziale o reale) ed alimenta il nostro desiderio nei confronti del “nostro” partner.

© Giovanni Lamagna

Sulla elaborazione di un lutto.

Quando si vive un lutto (cioè il dolore profondo che ci colpisce per la perdita di qualcuno o qualcosa a cui eravamo legati da amore) il primo passo per elaborarlo (e, quindi, per uscirne, per superarlo) non è quello (come molti pensano) di rimuovere, dimenticare, allontanare il pensiero, l’immagine dell’oggetto amato che si è perduto.

Ma piuttosto il contrario: il primo passo dovrebbe essere quello di renderlo ancora più presente nella nostra memoria e nella nostra coscienza, fino a farlo diventare così parte di noi, da non sentire quasi più il bisogno della sua presenza fisica e, quindi, attutire, addolcire il dolore che la perdita di questa presenza causava.

Forse è questo il processo psichico a cui alludeva Gesù, quando, poco prima di esser preso prigioniero e sottoposto al martirio del Golgota (fatti che Gesù sapeva bene sarebbero avvenuti di lì a poco), disse ai suoi discepoli: “Ma io vi assicuro che per voi è meglio se io me ne vado” (Vangelo di Giovanni; 16, 7).

Evidentemente il suo “andare via”, quindi la perdita della sua presenza fisica, il lutto che questo avrebbe causato nei suoi discepoli, erano condizioni imprescindibili perché la sua presenza spirituale si radicasse ancora di più nei loro cuori; (“Perché, se non me ne vado, non verrà da voi lo Spirito che vi difende”; ibidem).

La sua morte, il suo allontanamento fisico, erano pertanto necessari, affinché potesse avvenire nei discepoli quello che di lì a poco Paolo di Tarso dirà essere avvenuto in lui: “Non sono più io che vivo: è Cristo che vive in me.” (Lettera ai Galati; 2, 20).

A mio avviso, secondo la mia esperienza e per concludere questa breve riflessione, chi non vive il lutto in questo modo, cioè chi lo supera in modo eccessivamente frettoloso o addirittura lo rimuove del tutto, è destinato a rimanere con una ferita sempre aperta, che non si rimarginerà mai.

Nonostante egli voglia convincersi (o si sia magari convinto) di aver completamente dimenticato, rimosso dalla propria coscienza, l’oggetto d’amore perduto e, quindi, superato del tutto e definitivamente il dolore della sua perdita.

Questa speranza/convinzione si rivela ancora più falsa ed illusoria, quando la perdita avviene in seguito a un “tradimento” da parte della persona che egli/ella amava, a cui era profondamente legato/a.

In questo caso l’orgoglio ferito blocca un’adeguata interiorizzazione dell’oggetto perduto, addirittura provoca il suo rifiuto, la sua espulsione, il suo rigetto rancoroso dal proprio spazio interiore ed affettivo.

E ciò impedisce, per conseguenza, una soddisfacente elaborazione della perdita vissuta.

© Giovanni Lamagna

Età avanzata, vecchiaia e poliamore.

Più volte negli ultimi tempi, alcuni amici, che leggono spesso (bontà loro!) questi miei articoletti, mi hanno chiesto, tra il serio e il faceto, se le mie frequenti riflessioni sulla sessualità (in modo particolare la mia critica alla monogamia e una certa sponsorizzazione da parte mia della pratica, che si va sempre più diffondendo oggi, del “poliamore”) avessero a che fare con la mia incombente vecchiaia.

Sotto, sotto, in maniera manco troppo celata, per quanto scherzosa e pur sempre amichevole, questi amici paventavano – ho avuto l’impressione – una mia tendenza ossessiva verso questi argomenti e forse anche un vegliardo delirio di onnipotenza, proprio quando obiettivamente l’età oramai molto avanzata non favorisce certo la plenitudine della vita sessuale e delle sue prestazioni.

Sono consapevole che tali allusioni (e forse financo preoccupazioni) potrebbero avere (e, forse hanno) un qualche fondamento e perciò intendo confrontarmi con esse, senza sottrarmi non solo all’ironia, per quanto (almeno apparentemente) benevola, bonaria, ma anche alle critiche eventuali verso una posizione ritenuta non solo estremista, utopistica, ma persino stonata (in una persona della mia età) e, quindi, tutto sommato patetica.

A queste critiche velate, per quanto – ripeto – rivestite di bonarietà ed intatta amicizia, dopo essermi esaminato, come faccio di solito quando qualcuno mette in discussione le mie “certezze”, rispondo con i tre argomenti che seguono.

1 Mi capita da alcuni anni non solo di scrivere (come faccio oramai da decenni) privatamente sul mio diario, ma di rendere pubbliche (via email, facebook e su qualche libretto) le mie riflessioni su tutta una varietà di argomenti, tra i quali quello relativo alla sessualità.

Lo faccio, forse, “anche” per una forma di esibizionismo e, quindi, di narcisismo: questo non posso escluderlo del tutto.

Ma, se fosse solo per narcisismo, voglio dire per un narcisismo smaccato ed acclarato, credo che in fondo me ne vergognerei e che non oserei sfidare il fastidio che esso inevitabilmente e giustificatamente provocherebbe in quelli a cui indirizzo le mie riflessioni, per quanto amici (e, quindi, tolleranti nei miei confronti) essi possano essere.

Cosa è, allora, che mi spinge a rendere pubbliche certe riflessioni che non solo sono molto intime, ma spesso toccano argomenti che solitamente si tengono riservati e che (forse) possono addirittura offendere il senso del pudore di coloro che mi leggono o, almeno, di alcuni di loro?

La risposta (meditata) è questa: io considero la vita un viaggio e, come del resto accade a molti viaggiatori, a me piace raccogliere “note di viaggio”, quelle che io considero “mappe di orientamento”, relative ai sentieri e alle vie che sto percorrendo o che ho già percorso.

Ritengo allora di offrire una sorta di “servizio pubblico” rendendo manifeste queste mie “note di viaggio” e queste mie “mappe di orientamento”.

Può darsi pure, anzi è molto probabile, che esse non risulteranno utili a o attraenti per nessuno; ma, quand’anche dovessero risultare utili o attraenti anche solo in qualche sporadico caso e anche solo ad uno dei miei sparuti lettori (come talvolta mi succede di avere riscontro), la mia sensazione (potrei dire anche la mia convinzione) è di non aver soddisfatto solo una mia sterile pulsione narcisistica, come forse ai più apparirà.

Dunque, in sintesi e per tentare di dare una risposta alla domanda che mi sono fatto poco sopra, se io oggi rendo pubbliche certe mie riflessioni su sessualità e dintorni, non lo faccio tanto perché penso di poter mettere (io) in pratica le cose che mi capita di sentire, comprendere e di scrivere, ma perché penso e spero che esse possano risultare utili e attraenti in qualche modo a chi verrà dopo di me, a chi è più giovane di me, in qualche modo traendo frutto e facendo tesoro (anche) da quanto io ho potuto sperimentare nel corso della mia vita, comprese le mie frustrazioni e i miei fallimenti, anzi traendo insegnamenti soprattutto da questi ultimi.

E’ forse presunzione la mia? Può darsi. Ma non ne sono del tutto sicuro. Anzi in tutta sincerità non lo penso affatto. E allora oso scrivere di certi argomenti, anche se a qualcuno la mia potrà sembrare presunzione e vanità. Disposto ad affrontare, dunque, a viso aperto, le critiche e le ironie che me ne verranno.

2. Io non penso affatto (come, forse, i più – a mio avviso con troppa faciloneria tendono a ritenere – compresi alcuni illustri psicologi e psicoanalisti, di cui ho letto molto, quali – per fare solo due nomi – Galimberti e Recalcati) che il cosiddetto “poliamore” sia sinonimo di dongiovannismo, di casanovismo e (meno che mai) di ossessione, dipendenza, mania sessuale, ipersessualità.

Che in alcuni casi sia “anche” questo, forse, è vero; che alcuni puri e semplici maniaci sessuali possano definirsi oggi (visto che il termine è in voga) poliamorosi, è probabile.

Questo però non vuol dire che tale identificazione sia giusta ed appropriata sempre e per chiunque oggi si definisca “poliamoroso”.

Cosa è, infatti, per me il “poliamore”? E’ una visione dell’amore e della sessualità che si distacca, distingue, da quello che è stato finora il modo prevalente di vedere e di vivere sia l’uno (l’amore) che l’altra (la sessualità), fondato sulla esclusività del sentimento e del legame.

E’ l’idea, anzi la convinzione, che un amore non escluda altri amori, che più amori possano convivere serenamente e apertamente in contemporanea, senza sotterfugi e inganni (come, purtroppo, è avvenuto in passato – per secoli, anzi millenni – e come avviene anche oggi nella maggior parte dei casi), se il sentimento del possesso e quello della gelosia (che scattano inevitabilmente quando un amore nuovo insorge in presenza di un amore “vecchio”, ma ancora vivo) vengono educati e superati.

Non è, insomma, niente affatto la ricerca ossessiva, spasmodica e, quindi, anche per me del tutto nevrotica, se non addirittura psicotica, di più legami amorosi e sessuali; in questo caso, a dire il vero, in genere più sessuali che amorosi.

E’, invece, la disponibilità serena, tranquilla, niente affatto ossessiva, a viversi più legami amorosi, laddove se ne presentassero le condizioni, le opportunità e laddove questi fossero occasioni di crescita e di arricchimento di tutti i legami amorosi in atto.

Il poliamoroso, dunque, non ha niente a che fare con gli archetipi del don Giovanni e del Casanova, i quali vivono le loro conquiste amorose come trofei da aggiungere ad una metaforica galleria/bacheca, da ostentare con fanatico e narcisistico orgoglio.

Il poliamoroso è semplicemente una persona aperta, che rimane aperta anche quando vive un legame amoroso solido e ancora valido, perché sperimenta che un nuovo amore non cancella quello precedente e che gli amori (se sono veri amori) non si escludono a vicenda.

Il poliamoroso è oltretutto una persona che (al contrario del dongiovanni) dà molta più importanza all’amore che al sesso; anche se non sottovaluta affatto il sesso, perché ha sperimentato ed è convinto che il sesso è (o, almeno, può essere) una delle manifestazioni dell’amore, in molti casi la sua espressione più intima e profonda.

3. I due argomenti precedenti se ne tirano dietro un terzo, che è il seguente: almeno in linea teorica, anche una persona anziana può essere aperta alla poliamorosità; perché questo non comporta nessun velleitarismo, nessuna smania di prestazioni sensazionali, nessuna ricerca spasmodica e ossessiva di nuove performance amorose e, meno che mai, sessuali.

Comporta solo un’apertura mentale e il superamento di alcuni tabù consolidati che le epoche precedenti ci hanno trasmessi e di cui un po’ tutti quanti noi, anche i più disponibili ai cambiamenti, facciamo fatica a liberarci.

Sono convinto che anche una persona anziana possa, anzi debba, rimanere aperta a nuovi incontri e possa assaporare addirittura nuovi amori; questi, se gli capiteranno, non potranno che fare bene alla sua salute, a quella fisica e a quella psicologica.

Ovviamente, però, non dovrà confondere i nuovi amori col “primo vero grande amore”; non dovrà confondere il nuovo amore con l’amore dei suoi sogni, secondo l’idea romantica, ancora dura a morire e largamente prevalente anche tra gli anziani.

Ma, soprattutto, non dovrà perdere la testa confondendo la “novità” con la “superiorità” del nuovo amore rispetto a quello “vecchio”, già in corso e, oramai, datato; dovrà conservare la lucidità di pensare che un amore nuovo non cancella (necessariamente) l’amore che lo ha preceduto, ma che i due amori possono convivere benissimo, se ci si educa ad un modo meno rigido e convenzionale, più aperto e flessibile, di vivere i propri rapporti.

Infine, con l’avanzare sempre più incalzante dell’età dovrà, forse, prendere atto che la stagione degli amori plurimi per lui è finita e che, nel migliore dei casi, egli oramai sarà in grado di viversene uno solo.

Ma questo dato di realtà non gli chiederà affatto di rinnegare la teoria e la pratica poliamorose; che, se non varranno più per lui, saranno valide comunque per quelli più giovani di lui; e, quindi, comunque degne di essere da lui condivise e propagandate, almeno in teoria, se non nella pratica reale.

Che è esattamente il mio caso; per questo mi capita di parlarne spesso, anche a costo di sottopormi all’ironia benevola di amici e conoscenti.

Non certo perché io pensi che alla mia età si possa realisticamente mettere in pratica la teoria poliamorosa.

Ma perché penso che parlarne possa favorire (specie nei molto più giovani di me) un nuovo modo di pensare l’amore e la sessualità e contribuire quindi alla nascita di una società più aperta, più libera, più tollerante, oltre che meno ipocrita, di quella attuale.

© Giovanni Lamagna

Pigrizia e tracotanza

Noi dobbiamo fare tutto ciò che siamo chiamati a fare.

Non dobbiamo fare più di quello che siamo chiamati a fare.

Fare meno di quello che possiamo e dobbiamo è pigrizia.

Fare di più è tracotanza e orgoglio, frutti velenosi del narcisismo.

© Giovanni Lamagna

Pigrizia e tracotanza

Noi dobbiamo fare tutto ciò che siamo chiamati a fare.

Non dobbiamo fare più di quello che siamo chiamati a fare.

Fare meno di quello che possiamo e dobbiamo è pigrizia.

Fare di più è tracotanza e orgoglio, frutti velenosi del narcisismo.

© Giovanni Lamagna

Nietzsche e Dio

Nietzsche si assume il compito di uccidere Dio a nome dell’Umanità.

In contraddizione con l’orgoglio smisurato che manifesta all’esterno, è sommerso dai sensi di colpa per il gesto compiuto.

Io così me lo immagino.

E forse per questo impazzisce, dilaniato dalla pulsione di morte.

© Giovanni Lamagna

Bisogna rinunciare all’Io?

3 settembre 2015

Bisogna rinunciare all’Io?

È una idiozia totale pretendere di rinunciare all’io, all’amor proprio, alla vanità e all’orgoglio; è impossibile superarli, e quando si crede di averli vinti, si cade in una serie di menzogne senza fine. L’io è incurabile. Non parliamone più. Non si guarisce dall’io.” (E, Cioran; “Quaderni 1957 – 1972”)

Commento:

Cioran, a mio avviso, fa parecchia confusione tra nozioni diverse. Ad esempio, accomuna l’Io all’amor proprio, alla vanità e all’orgoglio, come se fossero un tutt’uno indistinto. Cosa che per me non è.

Anch’io penso che sia “una idiozia totale pretendere di rinunciare all’io” (che io scriverei con la “i” maiuscola, “Io” alla Freud, insomma).

Rinunciare all’Io è una contraddizione in termini. Nel momento in cui pretendessi di rinunciare al mio Io, lo starei anche in quel momento affermando o riaffermando.

Altra cosa è rinunciare all’amor proprio, alla vanità e, perfino, all’orgoglio. L’Io, infatti, non si identifica affatto inevitabilmente con l’amor proprio e con la vanità, che più che l’Io esprimono una ipertrofia dell’Io.

Già l’orgoglio va considerato in una maniera diversa, perché c’è (starei per dire) un orgoglio sano e uno insano.

C’è l’orgoglio che tende a difendere le giuste prerogative dell’Io e della sua identità: ognuno di noi ha un suo orgoglio da difendere, che coincide sostanzialmente con la sua dignità e i suoi diritti di persona, di essere umano.

C’è invece un orgoglio che ci impedisce di ammettere e di riconoscere anche le debolezze e i difetti del nostro Io, i nostri sbagli, quando li commettiamo, perfino quando sono clamorosi e, addirittura, quando ne diventiamo consapevoli.

Il primo è, secondo me, sano, il secondo è insano.

Rivendicare il ruolo dell’Io e considerare un’idiozia la rinuncia ad esso equivale a considerare impossibile ogni superamento dell’amor proprio, della vanità e dell’orgoglio insano? Per me no!

Certo, forse, il superamento totale di essi è impossibile e una certa loro quota parte persisterà sempre in ognuno di noi, nonostante gli sforzi che possiamo fare per eliminarli.

Ma questo non vuol dire che essi facciano parte intrinseca e irrinunciabile dell’Io stesso.

Certo, non si guarisce (e, in fondo, non bisogna neanche provarci a guarire) dall’Io. Ma dalle manifestazioni della sua ipertrofia (vanità, superbia, narcisismo, egocentrismo, esibizionismo, guasconeria, orgoglio insano…) si può e (aggiungo) si dovrebbe provare a guarire.

Giovanni Lamagna