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La meraviglia e l’assurdo di esistere.

Effettivamente, come evidenzia Pierre Hadot nel suo “La filosofia come modo di vivere” (pag.176), per molti pensatori esistenzialisti (egli pensa soprattutto a Sartre e Camus) dopo la “morte di Dio” la vita non ha più un fondamento e quindi è diventata un assurdo.

Ora questa conclusione è del tutto logica e giustificata, se andiamo in cerca di un fondamento metafisico, cioè di un fondamento che vada oltre la vita e che si ponga prima della vita.

E tuttavia le cose possono essere viste anche da una prospettiva diversa, tutta interna alla vita stessa: in questa prospettiva la vita ha un fondamento in sé stessa e, quindi, ritrova un senso.

Io voglio vivere perché un impulso vitale mi porta a voler vivere.

Che non ha bisogno di alcuna giustificazione: esiste e basta!

Semmai sono portato a chiedermi come mai esista in me questo impulso.

E qui in alcuni sopravviene il sentimento della meraviglia, dello stupore.

In altri, come, ad esempio, in Sartre e Camus, quello dell’assurdo.

Ma tali sentimenti non traggono origine dal pensiero filosofico, dall’aver trovato o meno un fondamento razionale, metafisico, quindi filosofico, alla vita in generale, bensì, piuttosto, dalla condizione esistenziale singolare della persona che li prova.

Addirittura la stessa persona, in fasi diverse della sua vita, può provare gli uni o gli altri: la meraviglia e, quindi la gioia, in certi momenti, addirittura, la felicità di esistere; o il dolore, perfino l’angoscia, e quindi l’assurdo di esistere.

© Giovanni Lamagna

L’esistenza che si apre all’Essere: la via estetica, la via filosofica e la via mistica.

La via estetica.

Se l’esistenza umana è pura contingenza e precarietà senza senso, perché senza alcun fondamento che la trascenda, in altre parole senza alcun fondamento metafisico, non per questo l’esistenza umana è condannata irrimediabilmente e fatalmente a restare prigioniera di questa pura contingenza e, quindi, dell’assenza di ogni senso.

L’essere umano ha, infatti, la capacità/possibilità di trovare “dei varchi, degli spiragli” nella “fatticità irrimediabile dell’esistenza”. Ciò accade per Sartre – secondo la lettura che ne dà Recalcati, nel suo “Ritorno a Jean-Paul Sartre”; 2021; pag. 24-26 – principalmente attraverso l’esperienza estetica.

Attraverso l’immaginazione, l’uomo ha la possibilità di trascendere la pura e opprimente fatticità dell’esistenza, di darle respiro, di aprirla all’Essere, come “ciò che può sottrarre l’esistenza dal peso dell’esistenza”. Un Essere che “non ha però nulla di metafisico, non è al di là del mondo poiché non appare se non nel mezzo del mondo.”

Nel suo studio sull’immaginario (“L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione”)Sartre riconosce all’immaginazione il potere di annullare, come scrive Recalcati, “l’orrore del reale catapultandoci in un altro mondo”: il mondo della bellezza, della pura “Forma dell’Essere”.

“Il reale – infatti, come scrive Sartre – non è mai bello. La bellezza è un valore che possiamo riferire solo all’immaginario e che implica l’annullamento (néantisation) del mondo nella sua struttura essenziale”. La Forma estetica ci libera (almeno per un momento: quello del godimento dell’opera d’arte) dal peso assurdo dell’esistenza.

Non ho obiezioni da muovere a Recalcati e Sartre: la Forma estetica, attraverso l’opera d’arte (sia nella dimensione della fruizione, sia soprattutto nella dimensione della produzione), è senz’altro una via privilegiata per sfuggire alla trappola oppressiva dell’esistenza, per – in qualche modo – trascenderla e per cogliere l’Essere, sia pure l’Essere come viene inteso da Sartre e da Recalcati.

Penso, però, che la “via estetica” non sia l’unica via, l’unico varco, l’unico spiraglio che l’uomo possa aprirsi nella “massa informe dell’esistenza” per accedere alla Forma dell’Essere. Credo che ce ne siano almeno altre due: proverò a indicarle.

La via filosofica.

La prima di queste altre due vie è, a mio avviso, quella filosofica.

La filosofia nasce, infatti, dalla stessa condizione esistenziale da cui nasce l’opera d’arte: dall’ “incontro traumatico del soggetto con un pieno (quello dell’esistenza) che non necessita di altro se non di sé stesso, di un assoluto privo di significato” (Recalcati; ibidem; pag. 19).

La filosofia nasce “dall’urto sconcertante con la pura contingenza dell’esistenza” (ibidem; pag.19), dalla constatazione che “l’esistenza non ha senso, non porta con sé alcun significato a priori, nessuna essenza…”; che l’esistenza “è, in sé, assurda” (ibidem; pag. 23).

Ma (aggiungo io) la filosofia nasce anche dall’esigenza, che è quasi un bisogno impellente, di trascendere questa contingenza e di trovarle un qualche senso.

Un senso che (come la Forma dell’Essere a cui aspira l’opera d’arte) “non ha però nulla di metafisico, non è al di là del mondo poiché non appare se non nel mezzo del mondo” (ibidem; pag.25).

Un senso che “ci libera dall’eccesso assurdo dell’esistenza”, ma allo stesso tempo “… non è rivolto a una trascendenza metafisica” (ibidem; pag.26).

E’ quel quid che può aiutarci a vivere, a sopra-vivere, a restare in vita, anche dopo che abbiamo preso coscienza che il vivere è orientato alla morte e che non ha nessun fondamento; così come il galleggiare sull’acqua “facendo il morto” ci consente di non sprofondare pur senza avere uno scoglio, una boa, una zattera, su cui trovare appiglio.

In altre parole con la via filosofica – come già con la via estetica, tracciata da Sartre ne “La nausea” – “non si tratta di ricostruire alcun senso metafisico del mondo di cui la Nausea ha svelato impietosamente e irreversibilmente l’assenza, ma di dare all’esistenza, che resta ontologicamente priva di senso, la possibilità di avere un senso singolare sullo sfondo di questo non senso.” (ibidem; pag. 31).

La via mistica.

Una terza via, oltre a quella estetica e a quella filosofica, per non sprofondare nel vuoto, anzi negli abissi senza fondo del non senso, è, a mio avviso, quella mistica.

Non certo la mistica come viene comunemente intesa, la mistica delle religioni tradizionali, ovverossia l’affidarsi cieco, infantile e perciò nevrotico all’Altro, capace di dare “un fondamento ontologico” alla nostra esistenza.

Sia chiaro – anche per me come per Recalcati – la vita umana non ha nessun fondamento, è “priva di ogni possibile giustificazione, di ogni possibile garanzia” (ibidem; pag. 11).

La ricerca, anzi la “passione umana per la propria giustificazione” è per Lacan “il perno del fantasma del desiderio nevrotico… E’ il tratto infantile che contrassegna il nevrotico soprattutto nel suo rapporto con l’Altro materno.” (ibidem; pag. 11).

In cosa consiste allora la via mistica come fuoriuscita dalla gabbia del puro esistere e apertura (mi verrebbe di dire “trascendimento”) verso la forma dell’Essere?

Non certo nella regressione verso l’ “illusione nevrotica dell’Altro come luogo della giustificazione della propria esistenza” (ibidem; pag. 12).

Non certo nell’esperienza religiosa che sta alla base “della passione umana per “essere”, per farsi essere”, che “rivela il fantasma fondamentale del … desiderio” degli uomini: vivere rassicurati all’ombra dell’esistenza del grande Altro” (ibidem; pg. 12) cioè di un Dio trascendente.

Non certo nella credenza “che l’esistenza possa avere un suo senso a priori, che il suo essere trovi fondamento nel grande Altro della garanzia”, che l’esistenza sia un “dono di Dio, giustificata alla sua origine” (ibidem, pg 13).

Non certo nella vocazione ad una vita ordinata, stabile e pianificata.

Non certo nella “idealizzazione retorica” di un “uomo che ha un Mandato, un Compito, che ha, appunto, Diritto ad esistere…” e si sente inoltre il “centro del mondo”. (ibidem; pg.13).

Ma al contrario nella presa d’atto radicale (non solo intellettuale, ma soprattutto emotivo-affettiva) della propria mancanza d’essere, nello scontro scabroso e scandaloso del non senso dell’esistenza e allo stesso tempo nella possibilità di non rimanere impantanati in questo non senso, ma di generare dalla ferita dell’esistenza una chance altra.

Come?

Attraverso l’esperienza da parte dell’uomo della condivisione intima, profonda, della stessa ferita esistenziale con gli altri suoi simili, addirittura con tutti gli altri viventi, perfino con l’Universo mondo, attraversato spesso da disastri e cataclismi che alludono alla stessa sofferenza radicale, ontologica, dell’essere umano.

In altre parole attraverso l’esperienza della com-passione, di quello che il letterato francese Romain Rolland, amico di Sigmund Freud, definì il “sentimento oceanico”.

Anche questa esperienza, come quella che facciamo quando godiamo di un’opera d’arte o quando la nostra mente si illumina per un’intuizione filosofica, ha nell’uomo l’effetto di “attenuare analgesicamente il dolore della ferita che lo attraversa” (ibidem; pag. 33), di trasmettere “un po’ di calore per attenuare il gelo del nostro comune viaggio nella neve” (ibidem; pag. 31).

© Giovanni Lamagna

Trascendenza ontologica e trascendenza logica

Credo che si possa e si debba parlare di due tipi di trascendenza: una trascendenza logica-gnoseologica e una trascendenza ontologica-metafisica, che hanno due diverse nature.

L’idea di “cavallo”, ad esempio, o quella di “uomo” fanno parte del primo tipo di trascendenza, perché indubbiamente non si risolvono, esauriscono nei singoli enti che rimandano, corrispondono alla categoria di “cavallo” o a quella di “uomo”, ma – almeno mentalmente, logicamente – la trascendono.

L’idea di “cavallo” o quella di “uomo” non corrispondono esattamente, precisamente, a nessun cavallo e a nessun uomo concreti, ma ne comprendono le caratteristiche essenziali e comuni.

In questo senso (e solo in questo senso: logico, gnoseologico) trascendono quindi gli enti concreti di “cavallo” e di “uomo”.

Non hanno, invece, nessuna consistenza ontologica, nel senso che (almeno fino a prova contraria, tutta da dimostrare, quindi) non abitano in nessun mondo a parte, superiore (trascendente, appunto!), altro da quello da noi abitato, come invece aveva pensato Platone, il quale si era inventato l’iperuranio, cioè il mondo abitato dalle idee.

L’idea di “Dio”, invece, o quella di “vita ultraterrena” fanno parte (o, meglio, vorrebbero far parte) di quella che possiamo chiamare “trascendenza ontologica”, in quanto non sarebbero pure categorie logiche, ma realtà veramente esistenti e però di un mondo altro, diverso da quello nel quale siamo immersi noi umani, un mondo, appunto, trascendente quello fisico e, perciò, metafisico.

Questo mondo, però, per me non esiste realmente (almeno fino a prova contraria), non è quindi ontologicamente trascendente (come vorrebbero farlo essere certe teologie ed anche certe filosofie), ma è anch’esso un’idea; o, meglio, “solo” un’idea, una supposizione logica, una pura invenzione della mente; senza alcun riferimento ad enti concreti, fisici, realmente esistenti.

Al contrario, invece, dell’idea di “cavallo” o di quella di “uomo”, che si riferiscono ad enti di cui la mente umana ha fatto e può fare continua e concreta esperienza.

Di fronte ad idee come quella di “Dio” e come quella di “vita ultraterrena” la mente umana, che indubbiamente le può immaginare e supporre (questo di certo non le è impedito) deve (quantomeno) sospendere il giudizio sulla loro reale consistenza ontologica.

Perché, mentre nel caso dell’idea di “cavallo” o dell’idea di “uomo” ha il supporto degli enti concreti che a quelle idee si riferiscono, nel caso dell’idea di “Dio” e dell’idea di “vita ultraterrena” questo supporto manca totalmente.

Diversa è l’idea di un Dio principio unificatore e unificante di tutto quanto esiste in natura (“Deus sive natura”), come lo aveva pensato Spinoza e dopo di lui Einstein, che condivideva lo stesso pensiero (“Credo nel Dio di Spinoza”).

Come diversa è l’idea di una “vita post mortem” di ciascun vivente, una vita che continua, anche se sotto forme (del tutto, radicalmente) diverse, ma qui sulla Terra, in questo mondo fisico; e non in un “mondo altro” (trascendente, metafisico).

Questa idea riprende semplicemente quella (“nulla si crea e nulla si distrugge”) del chimico e naturalista francese del XVIII secolo Antoine Lavoisier.

In questo caso le due idee (quella di Spinoza ed Einstein e quella di Lavoisier) alludono ad una trascendenza di tipo logico e gnoseologico, ma non ammettono nessuna trascendenza sul piano ontologico.

In Spinoza si può parlare tutt’al più di un Dio immanente alla natura; ma “trascendente” e “immanente” sono due concetti diversi, anzi per certi aspetti opposti, reciprocamente escludentesi.

© Giovanni Lamagna

Il fondamento dei valori

Senza la metafisica viene a mancare il fondamento esterno dei valori.

Ma i valori non perdono per questo ogni fondamento.

Perché resta loro un fondamento interno.

Posto non più in un altro mondo (metafisico), ma (potremmo dire) in questo mondo (fisico).

Che cosa, infatti, trattiene la mia mano (potenzialmente assassina), quando sono preso dall’ira, che (quasi) mi acceca?

C’è, indubbiamente, un qualcosa, qui in questo mondo visibile (non in un presunto mondo invisibile), che ferma la mia mano prima di compiere il delitto (anche se per un solo attimo) pensato.

Che la ferma, anche se non credo (più) in un Dio che me lo comanda.

© Giovanni Lamagna

Cosa vuol dire l’espressione “dare un senso alla nostra esistenza”?

Un amico mi ha chiesto tempo fa: cosa vuol dire l’espressione, che adoperi spesso, “dare un senso alla nostra esistenza”; che cosa intendi dire con la parola “senso”?

Così gli ho risposto.

Hai ragione: la tua domanda è molto fondata; la parola “senso” è, infatti, una parola vaga, generica, imprecisa, che può dire una cosa e anche il contrario di essa; quello che può dare senso alla mia vita non è detto che lo dia alla tua e viceversa.

Né, d’altra parte e meno che mai, io ritengo sia possibile attribuirle un valore assoluto ed universale, un fondamento che poggi su un che di metafisico, cioè di esterno alla vita stessa.

In questo senso… la parola “senso” è un… “non-senso”, per fare un gioco linguistico (alla Wittegestein, per intenderci).

Allora, torniamo alla domanda: cosa è “il senso della vita”?

Che io radicalizzo, per arrivare a chiedermi: possiamo parlare di “senso della vita”?

Nel provare a dare una risposta a queste domande prendo spunto da una lettura che sto facendo proprio in questi giorni. Sto leggendo il testo dattiloscritto della conferenza che Sartre tenne nel 1945, dal titolo “L’esistenzialismo è un umanismo”. Nella quale Sartre affronta il tema della nostra riflessione, quello del senso della vita, e così scrive:

Prima che voi la viviate, la vita di per sé non è nulla, sta a voi darle un senso, e il valore non è altro che il senso che scegliete. Così vedete c’è la possibilità di creare una comunità umana”.

Come possiamo leggere, nel primo rigo e mezzo l’affermazione di Sartre sembra sfociare in un relativismo assoluto, abissale, senza ritorno né speranza. Senonché nel secondo rigo e mezzo Sartre parla della “possibilità di creare una comunità umana”.

Viene da chiedersi: come è possibile “creare una comunità umana”, se il senso che diamo alla nostra vita è quello che ciascuno di noi sceglie di darle? se è questa la condizione fondamentale dell’uomo, non è egli allora condannato all’incomunicabilità e all’isolamento più assoluti?

Evidentemente per Sartre non è così: è vero che ognuno di noi sceglie liberamente (mi verrebbe di dire “anarchicamente”) i valori, il senso da dare alla propria vita.

Non esistono, dunque, valori già belli e pronti, che gli uomini trovano stampati sulle tavole della legge (come quelle di Mosé) e che devono solo apprendere ed applicare.

Però è anche vero – anche questo è un dato di fatto – che gli uomini si ritrovano, nella loro realtà esistenziale concreta, a dare un valore comune, condiviso, ad alcune “cose”: idee, comportamenti, scelte…. Questo dà loro la possibilità di “creare una comunità”.

Una comunità estremamente fragile, mobile, precaria, fondata su scelte che possono essere messe continuamente in discussione da altre riflessioni, da altri comportamenti, da altre scelte degli stessi uomini che li avevano fatti in altri momenti, magari anche pochi momenti prima.

E, però, pur sempre una comunità. Che ci consente di riconoscerci in qualche modo simili, accomunati dalla stessa condizione, portati a trovare tra di noi delle consonanze e non solo delle dissonanze, a provare com-passione e non solo odio reciproci.

La storia degli uomini è fatta di tremende carneficine ma anche di atti sublimi di altruismo e generosità, di piccole miserie ed egoismi, ma anche di costanti e quotidiane forme di mutuo aiuto.

Il destino degli uomini è quello di essere irrimediabilmente separati gli uni dagli altri, dal momento della nascita e fino alla morte: quindi, strutturalmente soli. E però ciascuno di noi è dotato (anche) di una capacità empatica che lo porta (può portarlo, se esercitata) a condividere simpateticamente la condizione degli altri.

Nel cogliere, intuire, percepire questa drammatica antinomia, che è fatta di una radicale “mancanza a” ma anche di una grande opportunità, e nel comportarsi e agire di conseguenza, l’uomo può (forse) trovare e riconoscere il senso della propria vita.

Sta qui il “senso della vita”? Per me, sì, questo è il senso della vita.

© Giovanni Lamagna