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Tra il piacersi tanto e il non piacersi per nulla…

Tra il piacersi tanto (quello del narcisista, che si considera senza pari) e il non piacersi per nulla (quello del depresso, che si considera un aborto della natura) esiste, può esistere una via di mezzo.

Che è l’accettarsi per quello che si è, con le proprie luci e le proprie ombre, i propri pregi e i propri difetti.

E provare – senza alcuna hybris – a migliorarsi, a crescere, a evolvere.

© Giovanni Lamagna

Non mi piacciono i tiepidi.

Gramsci diceva: “Odio gli indifferenti.”

Io dico: “Non mi piacciono i tiepidi.”

Gli uomini delle mezze misure, quelli che non fanno mai scelte nette, ma stanno sempre un po’ da una parte e un po’ dall’altra.

Non perché io pensi che il mondo sia fatto solo di bianco e di nero e che non esistano i chiaroscuri.

Ma perché penso che ciascuno di noi sia chiamato a realizzare un compito; il suo compito; a seguire il suo daimon, ovverossia la sua vocazione particolare.

E questa chiamata esige sempre una qualche radicalità, non mezze misure.

Qui mi sovviene l’episodio riportato nei tre Vangeli sinottici; io cito quello raccontato da Matteo (19; 16 – 22):

Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?».

Egli rispose: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti».

Ed egli chiese: «Quali?».

Gesù rispose: «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso».

Il giovane gli disse: «Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?».

Gli disse Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi».

Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze.”

Questo racconto per me è estremamente esemplificativo della tesi che ho sostenuto in premessa.

C’è una vocazione che è comune a tutti gli uomini: quella di seguire le norme della morale, quelle che rendono civile la convivenza tra gli umani, quelle che hanno istituito il “contratto sociale”.

Queste norme non esigono una particolare virtù; non distinguono cioè un uomo dall’altro uomo.

Tutt’al più lo distinguono dal “degenere”, da colui cioè che è uscito fuori dal “genere”, che non rispetta le norme “generali”, che fanno un “genere”; in questo caso il genere animale.

Ed esiste poi una vocazione particolare, che è singolare e non “generale”; una vocazione che è propria di ciascuna persona e non di altre.

Il giovane ricco ebbe – come ogni uomo – questa chiamata, ma non la seguì; perché era attratto anche da altre cose (nel suo caso dalle molte ricchezze che possedeva).

Il suo cuore era diviso; da un lato era attratto dalla figura del Cristo; dall’altro era trattenuto dal suo status sociale.

Fu incapace di compiere la scelta radicale, progressiva, evolutiva, a cui lo chiamava Gesù, e fece una scelta altrettanto radicale, ma regressiva, involutiva, che obbediva solo ad una parte di sé, alla parte più gretta e meschina, quella che lo legava alle cose, che lo rendeva prigioniero delle sue (false) sicurezze e gli impedì di spiccare il volo, di perseguire la “perfezione”.

Ovverossia la realizzazione del suo essere persona, che non si riduce (per nessun uomo può ridursi) al possesso di cose, ma sottende una crescita spirituale e, quindi, inevitabilmente un distacco, una separazione dalle cose materiali, che danno indubbiamente sicurezze (quanto solide?), ma tolgono libertà e, quindi, non sono in grado di assicurare la gioia.

E, infatti, il giovane ricco se ne andò triste; la scelta da lui compiuta, quella della mediocrità, non poteva dargli gioia.

Ed è questo, a mio avviso, il destino degli uomini mediocri, che non fanno mai scelte radicali, ma preferiscono restare nel mezzo, un po’ da una parte e un po’ dall’altra.

Magari sono anche brave persone, ma non persone che mirano a quella che Gesù chiama la “perfezione”.

Che non consiste, a mio avviso, nel diventare “santi”, cioè senza macchie e senza difetti, ma nel perseguire il più possibile la propria compiutezza, il proprio essere persone del tutto singolari e uniche: diverse da tutte le altre.

© Giovanni Lamagna

Tre tipi di relazione.

Con la lettura di un libro io instauro un vero e proprio rapporto: quello con il suo autore.

Solo che questo rapporto è incompleto, parziale e, quindi, non del tutto soddisfacente; perché è unidirezionale: l’autore parla a me, ma io non posso parlare all’autore.

Con un libro, in altre parole, non si può dialogare, se non in una maniera molto, molto virtuale: io parlo con l’autore, ma egli non mi ascolta e, quindi, non mi risponde, non può rispondermi.

Al rapporto con il libro, perciò, io preferisco e di gran lunga (o, meglio, preferirei in linea teorica) il rapporto, il colloquio, la conversazione diretta con un essere umano in carne ed ossa, non mediati cioè dalle parole scritte su un foglio di carta o su un tablet.

Quando il rapporto, il colloquio, la conversazione si rivelano ricchi, interessanti, stimolanti, educativi, fattori di crescita umana, emotiva, spirituale e non solo intellettuale.

Il problema è che non è facile trovare persone in carne ed ossa con le quali sia interessante entrare in relazione, avere cioè delle conversazioni davvero avvincenti, stimolanti, arricchenti.

Per cui molti di noi alle relazioni con le persone in carne ed ossa – spesso banali, convenzionali e noiose – preferiscono la relazione, che viene ad instaurarsi attraverso le pagine di un libro con il suo autore, relazione in genere molto più ricca e stimolante delle prime.

Ma questo tipo di relazione, a mio avviso e almeno per me, è comunque surrogatoria di relazioni interessanti e stimolanti in carne ed ossa, che desidereremmo avere e che spesso ci mancano o, quantomeno, sono carenti nella nostra vita.

Nessun libro, infatti, riuscirà mai a sostituire il calore, l’empatia, di una relazione in carne ed ossa, di una conversazione vis a vis.

Oggi, da quando esiste internet, ci viene offerta una terza possibilità di relazione: quella cosiddetta virtuale, nella quale la persona con cui interloquiamo, con cui instauriamo in certi casi una vera e propria conversazione, non è presente fisicamente.

Ma questa relazione è comunque bidirezionale, diversamente dalla relazione che viene a crearsi quando leggiamo un libro, che è invece unidirezionale.

Ora io mi accorgo che tra la lettura di un libro e questa terza possibilità di relazione personalmente tendo (perlomeno tendo) a preferire, privilegiare, quest’ultima.

Perché mi offre comunque la possibilità di instaurare una relazione bilaterale, per quanto solo virtuale.

E non poche volte con persone interessanti e stimolanti, quasi come gli autori di un libro; e molto spesso più interessanti e stimolanti delle persone che di solito frequento, le persone in carne ed ossa.

Mentre la lettura di un libro è una relazione solo unidirezionale, per quanto alle volte molto ricca, in certi casi addirittura ricchissima.

Quasi sempre più ricca di quella virtuale, che ti offre Internet, e molto spesso più ricca anche di quella che ti offre la relazione vis a vis con una persona in carne ed ossa.

In conclusione, ciascuno dei tre tipi di relazione che ho descritto poc’anzi presenta pregi e difetti, limiti e potenzialità.

Per cui, a me sembra, l’ideale è farle convivere, in alternanza l’una con le altre.

© Giovanni Lamagna

L’uomo e la donna sono tendenzialmente poligami non monogami

Io penso che nessun uomo e nessuna donna siano in grado di soddisfare appieno, totalmente le aspettative erotico-sessuali, emotivo-affettive, intellettuali- culturali, spirituali in senso lato, di un altro uomo o di un’altra donna.

Ci sarà uno o una che ne soddisferà soprattutto quelle erotico-sessuali, un altro o un’altra che ne soddisferà soprattutto quelle emotivo-affettive, altri o altre ancora che ne soddisferanno soprattutto quelle intellettuali-culturali o quelle spirituali.

Sarà difficile, molto difficile anzi io dico impossibile, che li soddisferanno tutti allo stesso modo e in uguale misura; soprattutto nessuno/a che li soddisferà tutte in maniera totale, completa.

In altre parole non esiste per me la cosiddetta “anima gemella”, sulla cui esistenza l’amore romantico ha costruito un vero e proprio mito.

Ma l’avevano fatto già molti secoli prima Platone e poi, per certi aspetti, anche Dante e, con lui, i “dolcestilnovisti”.

D’altra parte la natura ci ha voluto diversi, ognuno con i suoi pregi e i suoi difetti, coi suoi pieni e i suoi vuoti, con le sue doti e le sue défaillances.

Perché, dunque, un uomo o una donna in particolare dovrebbero corrispondere in tutto e per tutto al nostro ideale di uomo o di donna?

Siamo tutti diversi/e l’uno/a dall’altro/a ed è difficile a volte stabilire chi è più amabile o più desiderabile; né più e né meno di come è difficile stabilire se è più bella una rosa o una gardenia, più bello un garofano o un girasole, più buona e saporita una mela o una pera o una pesca.

Penso, quindi, sia naturale che ogni uomo ed ogni donna, trascorsa la fase inevitabilmente transitoria dell’innamoramento per una singola donna o per un singolo uomo, quello o quella che ci fa perdere la testa per un singolo uomo o una singola donna, come se al mondo non esistessero altri uomini e altre donne, avverta prima o poi, in maniera più o meno forte o appena latente, delle spinte centrifughe, delle attrazioni, dei desideri per altri uomini e per altre donne.

A mio avviso tali spinte sono del tutto normali e naturali, non hanno niente di perverso e disdicevole; anzi trovo strano che alcuni/e (almeno stando a quello che dicono) non le avvertano.

In altre parole ritengo che la natura abbia dotato ciascun uomo e ciascuna donna di una propensione poligama e non monogama nelle relazioni affettive.

Non solo nelle amicizie (cosa questa su cui tutti concordano, ovviamente), ma anche nelle cosiddette relazioni amorose (cosa su cui i più, invece, dissentono profondamente, a volte addirittura violentemente; forse perché una tale tesi va a smuovere in loro pulsioni profondamente sepolte o del tutto rimosse).

Ora, se la natura ci ha fatti così, non vedo perché dovremmo andare contro natura, imponendoci delle restrizioni, che non solo non ci danno – come è ovvio – piacere (perché limitano la nostra libertà, inibiscono i nostri desideri, ci fanno sentire costretti e non spontanei) ma ci fanno anche psicologicamente (e talvolta persino fisicamente) del male.

Nel senso che limitano la nostra possibilità di realizzazione, di arricchimento umano sotto molteplici aspetti: erotico-sessuale, emotivo-sentimentale, intellettuale-culturale, spirituale in senso lato.

Io sostengo, quindi, che, una volta assolti i propri compiti, diciamo pure i propri doveri, genitoriali nei confronti dei figli, un uomo e una donna, quand’anche provassero ancora amore l’uno per l’altro (cosa che io reputo – sia ben inteso – del tutto auspicabile e desiderabile), dovrebbero poter liberare la loro propensione poligama e poter costruire una molteplicità di altre relazioni di amore, anche (perché no?) sessuali, oltre a quella (basica, di partenza) costituita dalla relazione con il padre o con la madre dei propri figli.

Ciò non solo non danneggerebbe questo primo e originario rapporto d’amore, ma potrebbe addirittura favorirlo, costringendolo a vincere la pigrizia della routine e a rinnovarsi continuamente, per poter reggere così alla “concorrenza” (il termine è infelice, lo so, ma non ne trovo adesso un altro ugualmente efficace) dei nuovi amori che ciascuno dei due partner incontrerà (o quanto meno potrebbe incontrare) sul proprio cammino di vita.

Ovviamente la condizione perché questo si verifichi è che i due partner abbiano la capacità di controllare e di vincere il male oscuro dell’istinto di possesso e della gelosia che dall’istinto di possesso inevitabilmente consegue, rinunciando alla pretesa (in fondo, a pensarci bene, un po’ infantile) di avere il partner tutto, sempre e solo, per sé; e dimostrandosi all’incontrario disponibili a “condividerlo” con altri/e partner.

Privilegiando quindi rispetto al fattore quantità del tempo trascorso insieme, (magari spesso in maniera routinaria e perciò in molti casi scialba e noiosa) quello di una sua migliore e maggiore qualità.

© Giovanni Lamagna

Amore angelicato, amore romantico e amore di amicizia

Voglio affrontare ancora una volta il tema dell’amore. In premessa dico subito che io non credo nell’amore romantico e, meno che mai, in quello che (almeno per alcuni aspetti) fu un suo precedente storico, l’amore angelicato, dei dolcestilnovisti e, in modo particolare, del suo massimo esponente, Dante Alighieri.

Non credo nell’amore angelicato per motivi che oggi risultano addirittura ovvi e quindi possono apparire persino banali: l’amore angelicato esalta la figura di una donna idealizzata, ridotta o elevata (a seconda del punto di vista col quale la si guardi) a puro spirito, quindi non più di natura umana, ma (appunto!) angelica.

Riduzione o elevazione che sono (in entrambi i casi) pure mistificazioni, in quanto la donna/angelo semplicemente non esiste ed è la pura proiezione di un sentimento del tutto sublimato, quindi disincarnato, “depurato” cioè della sua dimensione corporeo/sessuale, che la cultura dell’epoca evidentemente considerava di livello inferiore, se non addirittura del tutto spregevole.

E’ naturale che oggi, in un’epoca in cui c’è stata una larga e del tutto legittima, anzi necessaria, rivalutazione della corporeità e della sessualità (fino a raggiungere e superare, semmai, il limite opposto, con una esaltazione unilaterale ed esagerata di queste due ultime dimensioni) la concezione dell’amore angelicato appaia del tutto superata, insostenibile e non condivisibile.

Anche se permangono tuttavia, ancora oggi, singole persone e aree culturali, per quanto oramai largamente minoritarie e residuali, che continuano a sostenere e privilegiare un tale modo di sentire, pensare e vivere l’amore.

Io, tuttavia, come dicevo nell’introduzione, non condivido e difendo manco l’amore romantico, che invece ancora oggi trova miriadi di sostenitori, specie tra le donne e anche tra molti giovani, per i quali la rivoluzione dei costumi del ’68 pare non esserci mai stata e che rispetto a quella generazione sembrano aver preso le distanze, operando in qualche modo una cesura, se non proprio una regressione (almeno a mio giudizio) a modelli di sentire, di pensare e di comportarsi ad essa antecedenti.

Perché non condivido la concezione dell’amore romantico?

Innanzitutto perché non lo considero neanche vero e proprio amore. L’amore romantico è, infatti, piuttosto una forma di innamoramento. E l’innamoramento, come tutti sappiamo, è cosa ben diversa dall’amore vero e proprio.

E’, invece. una forma di infatuazione, che ci porta a stravedere per l’altro, ci fa vedere come attraverso una lente di ingrandimento i pregi e le qualità dell’altro e ce ne oscura (quasi) completamente i difetti e le mancanze: è, insomma, quasi una forma di allucinazione.

In secondo luogo (forse proprio perché è una forma di innamoramento e non di amore, di travisamento quasi allucinatorio della realtà e non di sentimento pienamente lucido e consapevole di sé) l’amore romantico tende a mettere la persona amata su una sorta di piedistallo, ad isolarla dal contesto degli altri rapporti, i quali – per chi vive appunto l’amore nella sua forma romantica – vengono quasi oscurati, messi del tutto in secondo piano.

E questo – lungi dal costituire un fatto positivo – provoca effetti negativi nella persona coinvolta in un tale tipo di amore, la quale è portata a togliere importanza ad altre realtà (ad esempio, il lavoro, i legami familiari, le amicizie, a volte perfino le amicizie più intime), a declassarle, quasi svalorizzarle e, quindi, a trascurarle.

La vita di una persona che vive un amore romantico ne è quindi in qualche modo sconvolta. E, a mio avviso, (quasi) mai in modo positivo, in un modo cioè che valorizzi la vita della persona coinvolta in questo tipo di amore, ne promuova in altri termini la crescita emotiva, affettiva, intellettuale, psicologica e spirituale in senso lato.

Qual è allora il tipo di “amore” in cui credo io? Io credo nell’amore che definirei “amore di amicizia”.

Di solito per amicizia noi intendiamo un legame più o meno profondo tra due persone, fatto innanzitutto di una istintiva consonanza emotiva, ovvero di empatia e simpatia, e poi di una condivisione di interessi, che possono andare dal gioco ai passatempi, dal tempo libero alle vacanze, dalla ricerca intellettuale agli ideali di natura spirituale: politici, filosofici, filantropici, religiosi…

Per amicizia non si intende (almeno nel modo di pensare comune) un legame in cui ci sia anche un’attrazione fisica e una pratica sessuale. Anzi è proprio questo il discrimine che di solito viene posto alla base della distinzione tra una “semplice” amicizia e quello che normalmente viene definito un amore.

Come se nell’amicizia non ci fosse un coinvolgimento emotivo, affettivo, intellettuale, spirituale, molto affine al rapporto che siamo soliti definire “d’amore”; e come se l’amore non fosse (a meno di non volerlo considerare fondato principalmente, se non esclusivamente, sull’attrazione sessuale) un legame molto affine all’amicizia.

Quando io parlo di “amore-amicizia” intendo allora, in primo luogo, superare la rigida divisione, che – nel sentire comune e da tempi immemorabili, che si perdono nella notte dei tempi – normalmente separa e distingue queste due forme di rapporto.

Intendo dire allora e con la massima chiarezza possibile che per me l’amicizia è una forma di amore e, soprattutto, che l’amore o è anche amicizia o è una ben povera cosa.

In secondo luogo intendo far scendere il rapporto d’amore da quel piedistallo su cui lo hanno messo diverse concezioni dell’amore che si sono succedute nel corso dei secoli, in primis le due che ho criticato nella prima parte di questa mia riflessione: l’amore angelicato e l’amore romantico.

Ed è questo forse l’aspetto più nuovo ed originale, anche se non del tutto nuovo e originalissimo del mio ragionamento, dal momento che qualche precedente storico comunque ce l’ha.

Questo deporre l’amore dal piedistallo non equivale affatto, però, – anche questo sia ben chiaro – ad una svalutazione del sentimento dell’amore.

L’amore per me è e resta (non dico un sentimento: perché – questo sì – sarebbe svalutarlo!) una dimensione dei rapporti nobilissima, apprezzabilissima e desiderabilissima.

Non è, però, – ed è questo che vorrei sottolineare – più nobile, apprezzabile e desiderabile di quanto lo sia l’amicizia.

Perché l’amore (anche quello che contempla la pratica del sesso) per me altro non è che una forma di amicizia, anzi è essenzialmente e in primo luogo un’amicizia. Un’amicizia che tra i vari e molteplici interessi condivisi ha anche quello erotico-sessuale.

Da questo punto di vista, allora, sono fermamente contrario all’idea dell’amore come rapporto esclusivo, monogamico, se non addirittura eterno; che vorrebbe essere un’esaltazione della peculiarità di questo tipo di rapporto, mentre ne rappresenta solo una gabbia, che lo imprigiona e ne limita le enormi, immense potenzialità. Per la crescita delle persone che ne sono coinvolte.

Io sono fermamente convinto, invece, che si possano vivere più amori in contemporanea, senza per questo far scadere l’amore a rapporto frivolo e banale, come pensano, invece, la maggioranza degli uomini e, soprattutto, delle donne.

Sono convinto che si possano vivere più amori in contemporanea, allo stesso modo di come si possono vivere più amicizie in contemporanea, senza rendere banali e frivole le amicizie; e questo nessuno lo contesta, anzi tutti lo danno per scontato.

Non riesco a capire perché nell’immaginario collettivo tutti gli interessi (da quelli più frivoli del gioco e dei passatempi a quelli più elevati degli ideali e delle visioni del mondo) possano essere condivisi legittimamente, senza la minima obiezione da parte di alcuno, in un rapporto di amicizia.

E, invece, non lo possa essere il sesso; come se il sesso fosse un “inter-esse” (letteralmente ciò che c’è, che passa, tra un soggetto e un altro soggetto) per sua natura “diverso”, “altro”, quindi strutturalmente e intrinsecamente monogamico, quando tutte le verifiche scientifiche sembrano semmai dirci esattamente il contrario.

La tesi che sostengo – quella dell’amore-amicizia – intende smontare questo preconcetto, questo stereotipo, e affermare la piena libertà dell’amore. In tutto “simile a” e in nulla “dissimile da” quella che vige nei rapporti di “semplice” amicizia.

Per questo arrivo alla conclusione che per me “amore” e “amicizia” pari sono, in fondo sono la stessa cosa: la loro natura profonda, la loro essenza sono identiche.

© Giovanni Lamagna

I chiamati e gli eletti

28 settembre 2015

I chiamati e gli eletti.

Mi è stato detto più volte: “Ogni uomo ha una sua vita spirituale. Per lo stesso fatto che è uomo. Ogni uomo con le sue modalità, i suoi tempi e la sua intensità.”

D’accordo, messa così, non posso non condividere una simile affermazione. Eppure c’è in essa qualcosa che non mi convince.

Perché?

Perché, se fosse vera del tutto, non si capirebbe per quale motivo alcune persone le vedi sempre uguali a come erano anni fa. Sono come ferme, spiritualmente immobili, spesso depresse, afflitte da un indecisionismo cronico. Mettono in atto (quasi) sempre le stesse dinamiche, fanno mille propositi senza mantenerne mai nessuno, in molti casi addirittura peggiorano, involvono, regrediscono rispetto ai livelli di partenza.

Altre persone , invece, divenute consapevoli dei loro difetti e dei loro limiti, fanno di tutto per superarli (almeno in parte), si pentono degli errori compiuti e si impegnano seriamente per uscirne e non ripeterli più, fanno progetti e (almeno parzialmente) li realizzano anche. Sono in genere contente, soddisfatte della vita che conducono, anche se non mancano, pure per loro, come per tutti, dolori e afflizioni. E così le vedi crescere, progredire, evolvere, maturare con gli anni, anzi addirittura migliorare con l’età avanzata.

Ora, siccome uno dei segni della presenza della vita spirituale in una persona è senz’altro il fatto che essa evolve, migliora, cresce, si espande e procura un senso inconfondibile di pienezza, soddisfazione e autorealizzazione, allora vuol dire che la vita spirituale non è presente indiscriminatamente in tutte le persone, quasi come se fosse una qualità strutturale e innata dell’essere umano; vuole dire che in alcune persone essa è presente, e viva, in altre è assente, è morta (o quasi).

In conclusione a me pare che in alcuni uomini la vita spirituale è presente in potenza (da questo punto di vista “molti sono i chiamati”, anzi – per me – tutti sono chiamati). Ma non lo è in atto, cioè nei fatti (da questo punto di vista “pochi sono gli eletti”).

Come, non a caso e giustamente, ci ricorda il Gesù dei Vangeli (Matteo 22: 11 – 14).

Giovanni Lamagna

Innamoramento e amore.

giugno 2015

Innamoramento e amore.

Un altro equivoco che insorge spesso nelle cose dell’amore – dice Fromm – è quello di confondere l’amore con l’innamoramento.

Questa confusione è un’altra delle ragioni che induce l’idea, piuttosto diffusa tra gli umani, che nelle cose dell’amore non ci sia nulla da imparare, ma che l’amore sia un sentimento del tutto naturale, che sorge spontaneo, che è anzi del tutto connaturato all’animo umano.

Infatti, una delle caratteristiche tipiche dell’innamoramento è che esso sopraggiunge il più delle volte improvviso, quando meno te lo aspetti, come un colpo di fulmine.

E’ un sentimento che ci raggiunge (significativa l’immagine della freccia che ci trafigge il cuore) e non uno stato d’animo verso il quale siamo noi ad andare, a cui ci disponiamo e verso cui ci prepariamo.

E’ una situazione psicologica nella quale siamo sostanzialmente passivi e non attivi, trascinati come una barca dalla corrente di un fiume in piena e non nocchieri padroni del suo timone.

Un’altra caratteristica tipica dell’innamoramento è che esso è un sentimento più o meno di breve durata, destinato in ogni caso a non durare oltre un certo tempo più o meno prolungato.

E che spesso gli uomini lo confondano con l’amore stesso è dimostrato dal fatto che quasi sempre, quando si esaurisce la fase dell’innamoramento, essi usino dire “è finito l’amore”.

Un’altra caratteristica che contraddistingue l’innamoramento dall’amore è che l’innamoramento è un sentimento molto forte, in alcuni casi violento, che procura emozioni molto intense e tipiche, di grande eccitazione ed esaltazione. Mentre l’amore è un sentimento più pacato, più ordinario, a più bassa intensità emotiva.

Solo che, siccome gli uomini in genere sono innamorati dell’innamoramento, perché sono attirati dai sentimenti forti, violenti, intensi, essi non considerano l’amore un sentimento veramente degno, all’altezza dei loro bisogni e delle loro aspettative.

Preferiscono così chiamare amore quello che è semplice innamoramento e non considerare amore quello che non corrisponde all’innamoramento.

Di qui la confusione, l’equivoco, di cui abbiamo parlato finora.

E’ importante dissipare questa confusione, chiarire questo equivoco?

Sì, se non si vuole andare incontro a inevitabili e, magari, continue frustrazioni e delusioni.

L’innamoramento è, infatti, un sentimento molto piacevole e intenso (specie quando – come in genere avviene – si accompagna all’attrazione sessuale), ma destinato fatalmente a durare poco.

E’ un sentimento (forse) necessario per avviare un rapporto, per spingerci gli uni verso gli altri. Se non scattasse dentro di noi questo sentimento, quasi sempre violento e improvviso, forse nessuno di noi riuscirebbe a vincere la pigrizia o la diffidenza che ci inducono a restare chiusi in noi stessi piuttosto che ad aprirci agli altri.

Ma l’innamoramento è anche una forma di infatuazione, se non di vera e propria allucinazione, che (quasi sempre) ci fa vedere nell’altro/a cose che (magari) non ci sono (le qualità, i pregi) e che non ci fa vedere, invece, cose che ci sono (i limiti, i difetti).

E’ un sentimento di tipo proiettivo, che ci fa vedere l’altro/a come ci piacerebbe che fosse, in base alle nostre aspettative, bisogni e desideri, e non come, invece, effettivamente è.

E’ un sentimento la cui intensità, come dice Fromm, segnala più la gravità della nostra solitudine, il nostro bisogno di compagnia, di attaccamento, di dipendenza, che il desiderio (reale e non fantasioso, genuino e non immaginato) di donarsi, darsi, dedicarsi a qualcuno/a.

E’ importante, anzi è necessario, quindi, che dall’innamoramento (che ha una indubbia funzione all’inizio di un rapporto per avviarlo, farlo partire) si esca e si passi ad un’altra fase del rapporto: quella viene definita dell’amore.

Questa fase nuova è caratterizzata innanzitutto da una presa di consapevolezza maggiore di chi è l’altro/a, di chi sono io, coi miei bisogni e i miei desideri.

Con essa finisce la fase dell’infatuazione, in cui vediamo l’altro/a (e anche noi stessi) con occhi un po’ deformati, e inizia una fase in cui vediamo l’altro e noi stessi con occhi un po’ più obiettivi.

In questa nuova fase dell’altro vediamo non solo i pregi e le qualità, ma anche i difetti e i limiti.

E questa evoluzione (è a mio avviso importante segnalarlo) avviene in qualsiasi tipo di rapporto, non solo in quello che siamo solito definire di coppia, il cosiddetto legame erotico.

Accade, ad esempio, anche nel rapporto di amicizia, che, dopo una prima fase di entusiasmi e di attrazione reciproca, vede emergere anche i contrasti e a volte i dissapori, se non i veri e propri conflitti.

Accade, perfino, nel rapporto genitori/figli.

Cosa è, infatti, il sentimento che provano i bambini (in genere) nei confronti dei genitori per una lunga fase (quella dell’infanzia) se non una forma di infatuazione, di allucinazione, di distorsione ottica, dovute alla dipendenza fisica, materiale, oltre che affettiva?

E non accade lo stesso anche nei genitori alla nascita dei loro figli? Se questa fase nei genitori dura meno a lungo, ciò è forse dovuto solo al fatto che i genitori sono persone adulte, quindi non dipendenti materialmente dai figli e meno dipendenti di loro dal punto di vista affettivo.

La fase che segue alla fine dell’innamoramento non ci vede più passivi, cioè mossi da una passione, ma esige che diventiamo attivi, richiede quindi una scelta. Si sceglie, infatti, si decide di amare. Mentre non si sceglie, non si decide di innamorarsi. Si è piuttosto scelti dal sentimento dell’innamoramento.

Ecco perché l’amore è un sentimento (ammesso che sia solo un sentimento) molto più maturo e adulto dell’innamoramento.

Si sceglie, infatti, si decide, di amare l’altro/a, nonostante se ne vedano i difetti, nonostante se ne siano conosciuti i limiti, nonostante che molte sue qualità e molti suoi pregi, che all’inizio ci avevano fortemente attratti, si siano più o meno grandemente ridimensionati ai nostri occhi.

Si sceglie, si decide di amare, perché si prende consapevolezza che in natura, nelle cose umane non esiste la perfezione, che questa è un feticcio, un fantasma, e che la sua ricerca spasmodica e ossessiva ci condannerebbe alla solitudine, a un triste isolamento.

Si sceglie, decide di amare, perché si diventa consapevoli, che l’Altro rappresenta la nostra ombra, che insomma non è mai totalmente Altro, ma è anche una parte di noi. Che, attraverso l’Altro, possiamo entrare in contatto con la parte di noi che è in ombra e, quindi, crescere, evolvere, arricchirci di nuove dimensioni.

Cosa che ci sarebbe impedita, se restassimo prigionieri del nostro narcisismo. Narcisismo che non viene per nulla intaccato dalle esperienze (per quanto molteplici) di innamoramento. Anzi queste semmai lo rinforzano e gli danno alimento ulteriore. Ma può essere messo in crisi e vinto in maniera significativa solo da reali esperienze di amore.

Giovanni Lamagna