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Sui concetti di laicismo e di illuminismo
Io mi considero un laico a tutto tondo. Per il quale la libertà di pensiero e della sua espressione è un valore sacro. Memore della celebre frase: “Non condivido le tue idee, ma darei la vita perché tu le possa affermare liberamente”.
Ma non penso che il laicismo sia sinonimo di supponenza e presunzione, tale da portarmi a considerare (per fare un esempio calzante con alcuni recenti avvenimenti) tutti coloro che hanno fede in Dio come dei poveri diavoli, ai quali sia normale mancare continuamente di rispetto per la loro “superstiziosa ignoranza”.
Ora – sia chiaro- con queste mie affermazioni non voglio giustificare affatto (anzi li condanno senza se e senza ma; e penso che vadano perseguiti e puniti severamente dalla legge i loro autori) le quattro uccisioni avvenute in questi ultimi giorni in Francia da parte di alcuni fanatici islamici.
Credo, però, che vada compreso – proprio in nome di una laica e quindi direi scientifica razionalità – il contesto nel quale esse sono avvenute, se non si vuole ulteriormente avvelenare il clima dei rapporti tra culture ed etnie diverse e favorire così il ripetersi di altri episodi criminali simili.
Da questo punto di vista ritengo sia un dato obiettivo (difficilmente controvertibile) che una certa supponenza laica (presunta illuminista, in realtà stupida perché – se non intollerante – quanto meno inopportuna) le abbia in qualche modo oggettivamente provocate (nel senso letterale del termine: di “chiamate a sé”).
Chi non si rende conto che determinate sue affermazioni, fossero pure perfettamente razionali e irreprensibili sul piano del costume e della morale occidentale, sono invece inopportune e fuori luogo (anche in società laiche e non confessionali come le nostre), perché poco rispettose di una cultura altra, non è un vero illuminista, ma solo uno sciocco, perché presuntuoso, irresponsabile.
Una cosa è argomentare e criticare anche severamente le idee diverse dalle nostre (e questo è “illuminismo”, sano e del tutto legittimo, anzi sacrosanto), altra cosa è disprezzare e irridere le idee diverse dalle nostre, fosse pure utilizzando “l’arma” della satira (e questo, almeno per me, è il contrario dell’illuminismo, perché è una forma di intolleranza speculare, anche se opposta, a quella che si vuole criticare).
© Giovanni Lamagna
Sul concetto di “natura umana”.
29 marzo 2016
Sul concetto di “natura umana”.
Comincio col pormi una domanda che mette alla radice in discussione la fondatezza stessa del concetto: “Esiste una “natura umana”?” Una domanda di quelle che hanno attraversato e segnato la storia del pensiero. A cui hanno tentato di dare una risposta innanzitutto la filosofia. Poi le varie scienze naturali e il diritto. Infine l’antropologia, come scienza moderna tra le più recenti.
Il diritto più antico ha dato ad essa una risposta decisamente positiva, tanto è vero che in questo campo per secoli ha avuto egemonia teorica il cosiddetto “giusnaturalismo”, ovverossia una concezione del diritto che aveva la pretesa di ricavare, dedurre le norme giuridiche da ciò che veniva considerato naturale o, quantomeno, conforme alla natura.
Il giusnaturalismo dava per scontato, quindi, che esistesse una realtà che si potesse definire “natura”, cioè un qualcosa di ipostatizzato, di sostanzialmente immutabile ed eterno, al quale si dovessero conformare in primo luogo l’etica (come norma interiore) e poi il diritto positivo (come norma esteriore, codificata nelle leggi di una determinata comunità o società).
Una posizione più o meno simile ha avuto e mantenuto per secoli il pensiero filosofico, di cui in fondo quello giuridico era una branca ed una emanazione.
Probabilmente questa concezione della natura si fondava e giustificava in un contesto culturale piuttosto ristretto, limitato geograficamente, e, tutto sommato, piuttosto omogeneo: quello greco/ebraico/romano/cristiano.
Essa è entrata in crisi nel momento in cui il mondo ha cominciato (e sempre più) a diventare multicentrico, quindi multiculturale.
E’ emerso, allora, con sempre maggiore evidenza che il concetto di “natura” era culturalmente, quindi antropologicamente condizionato. In differenti condizioni economiche, sociali, geografiche, storiche, quindi culturali, esso mutava. E spesso in maniera profonda, significativa, tanto da renderlo piuttosto evanescente e del tutto discutibile come dato universale, oltre che statico e immutabile.
La filosofia moderna, oltre che le scienze, in primis l’antropologia, hanno dovuto registrare questo dato, questa mutazione.
Tanto è vero che oggi è difficile trovare qualche pensatore, che continui a parlare (per restare nel solo campo del diritto) di giusnaturalismo.
Questo che cosa vuol dire? Che tutto – oggi – è da considerare relativo? Che è impossibile rintracciare degli “universalia” nella condizione umana, intesa come l’insieme delle caratteristiche fisiche, psichiche, sociali e culturali dell’uomo? Che quindi è inutile provarci? Che è meglio rinunciarci? Che è meglio accontentarsi di descrivere determinate condizioni di vita prevalenti in determinati contesti storici e geografici, senza nessuna pretesa di trovare in essi dei denominatori (anche minimi) comuni? Bisogna rinunciare quindi a definire l’umanità come specie, in quanto esisterebbero solo i singoli individui (o tutt’al più le singole società, come aggregati numericamente delimitati e circoscritti storicamente e geograficamente) ognuno con la sua individualità e la sua specificità, irriducibili a quelle di tutti gli altri?
Alcuni pensatori (pochi, a quanto ne so io) a queste domande rispondono affermativamente e in maniera drastica. Sono coloro che si fanno portatori di un relativismo estremo, assoluto.
Io non condivido questo pensiero. Penso che, nonostante tutte le differenze esistenti tra le varie culture (e, addirittura, tra i diversi individui) sia possibile rintracciare tra di esse delle costanti, delle affinità, che, seppure non riescono (forse) a fondare scientificamente (e manco filosoficamente) il concetto di “natura umana”, perlomeno vi alludono, come realtà flessibile, plastica quanto vogliamo, ma non del tutto insussistente o inesistente.
Se non ci fosse, infatti, un quid che accomuna le diverse culture e società (pur nella estrema varietà che le caratterizza nei diversi contesti storici e geografici) e, perfino, tra i singoli individui che formano le varie culture e società, se non ci fosse un “logos” in qualche modo affine, non sarebbe possibile alcun “dia-logos”, non sarebbe possibile, quindi, alcuna convivenza, alcuna convivialità, alcuna familiarità, alcuna “civile conversazione” (come avrebbe detto Bruno) tra gli uomini.
Questi sarebbero condannati a vivere come vasi non comunicanti tra loro, come monadi chiuse nel loro silenzio, incapaci di aprirsi e di entrare in contatto gli uni con gli altri. Realtà che la nostra esperienza sembra contraddire con tutta evidenza, anche quando il dialogo con gli altri si fa duro, difficile, anche quando (come a volte, anzi spesso, capita) il dialogo si trasforma in aperto conflitto.
Giovanni Lamagna
Recensione del film “Non sposate le mie figlie”
30 novembre 2015
Recensione al film “Non sposate le mie figlie”.
Ho appena visto un delizioso film francese “Non sposate le mie figlie” (2015) del regista Philippe de Chauveron.
E’ la classica commedia brillante: leggera, allegra, solare, che affronta però una tematica oltremodo seria e oltretutto tremendamente (anzi, alla luce di quanto è successo negli ultimissimi giorni, tragicamente) attuale: quella della immigrazione e della integrazione tra razze e culture diverse.
Il film ha la capacità di affrontare questa tematica (con tutti i pregiudizi, i tabù e le difficoltà ad essa connessa, senza rimuoverne e sottovalutarne nessuno) col piglio della favola e dell’umorismo, a voler dimostrare come problemi drammatici possono (o potrebbero) trovare soluzioni in grado di far bene a tutti: autoctoni/indigeni ed eteroctoni/immigrati.
E’ la storia di una famiglia della provincia francese, che vive in un paesino distante qualche decina di chilometri da Parigi, menage benestante (il capofamiglia è un ricco notaio), una villa molto grande e con un giardino molto bello e lussureggiante, mentalità borghese, benpensante, cattolica, anche piuttosto tradizionalista. Quattro figlie nate a pochi anni di distanza l’una dall’altra e tutte più o meno in età da marito.
Questa situazione, fin troppo tranquilla e serena, viene ad un certo punto sconvolta: la prima figlia vuole sposare un mussulmano. I genitori, che non sono per nulla preparati né tantomeno predisposti ad assorbire un colpo del genere, devono fare, dopo molte riluttanze, buon viso a cattivo gioco e ad un certo punto si adattano alla nuova situazione.
Gli equilibri in famiglia sembrano assestati, quando la seconda figlia porta in casa un ebreo e vuole sposarlo. Di nuovo la pace familiare ne risulta sconvolta, ma di nuovo i due coniugi assorbono il colpo: accettano, più o meno di buon grado, anche questo secondo genero.
Senonché la terza figlia arriva a turbare nuovamente i fragili equilibri appena ritrovati: presenta ai genitori un fidanzato cinese. Anche questa volta il notaio e la moglie accettano la situazione dopo aver parecchio riluttato.
L’armonia familiare sembra finalmente raggiunta: sono nati nel frattempo dei nipotini, che diventano la gioia dei nonni; i tre generi che prima litigavano continuamente, anche per delle banalità, adesso sono molto affiatati, sono diventati più che amici, si trattano come dei fratelli.
Questa armonia trova il suo acme durante un Natale, quando i coniugi Verneuil, le loro figlie e i tre generi trascorrono una meravigliosa giornata con la signora Marie Verneuil che ha cucinato il tacchino in tre maniere diverse, quella araba, quella ebrea e quella cinese, per fare cosa gradita ai suoi “amati” generi. E la cosa riscuote un grande successo, perché durante il pranzo i tre giovani assaggiano l’uno il tacchino degli altri due e sono in grado di apprezzarlo come il proprio. Addirittura a mezzanotte si recano tutti insieme nella chiesa cattolica del paesino e partecipano con grande devozione alla messa di Natale.
Il film sembra volare quindi verso un lietissimo fine, senza altri colpi di scena, quando anche la quarta figlia si innamora. E questa volta (era ora!) il fidanzato è cattolico. Dà la notizia ai genitori e questi esultano: finalmente un matrimonio come lo avevano sempre desiderato, nella loro amata chiesina di paese (di cui sono assidui frequentatori) e non nel “freddo” Municipio, come avevano fatto le altre tre figlie!
Senonché la storia riserba ancora una sorpresa, che sembra far saltare l’ultimo lieto fine: e qui il racconto del film diventa esilarante, nella migliore tradizione della commedia brillante.
Ma pure questa volta i pregiudizi e i tabù vengono (anche se faticosamente) superati. Il matrimonio dei due giovani fidanzati dopo mille imprevisti e contrattempi riesce finalmente a celebrarsi ed è una vera festa della tolleranza, anzi della integrazione tra culture e razze diverse.
Un film che, per le problematiche affrontate e per il modo in cui le tratta, forse solo in Francia poteva essere realizzato.
Proprio la Francia che oggi, in questi giorni, è sconvolta dal terrore che a questa tolleranza e a questa integrazione (pur con tutti i suoi limiti e le sue deficienze) vorrebbe opporsi in nome del fanatismo culturale e religioso.
Giovanni Lamagna