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Sulla regola d’oro

Nel suo “La filosofia come modo di vivere” Pierre Hadot a pag. 255, a proposito della famosa regola “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, sostiene che “questo principio non si fonda su nessuna filosofia, è legato all’esperienza umana”.

Io sono fondamentalmente d’accordo, ma allo stesso tempo non sono del tutto e completamente d’accordo con una tale tesi.

Sono fondamentalmente d’accordo, perché a mio avviso la “regola d’oro” di cui parla Hadot è figlia piuttosto di un pre-giudizio che di un vero giudizio (ovverossia di un atto compiutamente filosofico).

La regola d’oro si fonda su un certo tipo di esperienza umana piuttosto che su una considerazione teorica, intellettuale.

Un’esperienza umana tutto sommato positiva, potremmo anche dire “buona” e perfino – almeno in una certa misura – ottimistica, che sorride alla vita e non ne è rattristata.

Non certamente un’esperienza di (acclarata o latente) depressione, da cui non può derivare che pessimismo, se non addirittura disperazione.

Bisogna tuttavia mettere in conto che per molti uomini l’esperienza della vita non è stata e non è affatto positiva, che essi nella vita hanno ricevuto più male che bene e che, di conseguenza, sono portati a dare dell’esistenza un giudizio piuttosto negativo, sono portati dunque al pessimismo, se non proprio alla disperazione.

Per questo tipo di uomini la regola d’oro non ha senso, non ha valore, è inapplicabile. Per essi vale piuttosto l’ “homo homini lupus” o il “bellum omnium contra omnes” di Hobbes.

Possiamo dunque concluderne che il giudizio sulla vita più che a considerazioni di carattere teorico-filosofico è legato ad esperienze di vita (soprattutto primarie; quelle che facciamo nell’infanzia, in modo particolare nella primissima infanzia).

E tuttavia è anche vero però (e in questo non sono d’accordo con Hadot) che quello che potremo definire una specie di pregiudizio esistenziale si trasforma in un vero e proprio giudizio teorico.

Che fonda addirittura l’orientamento filosofico, potremmo anche dire “la visione del mondo”, di cui ciascuno di noi (più o meno consciamente, più o meno consapevolmente) è portatore.

Per cui le nostre azioni, il nostro agire, perfino il nostro stesso stile di vita complessivo, si adeguano, si conformano a questo giudizio teorico.

Di conseguenza sono portato a dire (su questo in dissenso con Hadot) che ogni orientamento etico-morale si fonda necessariamente (anche) su una (per quanto minima e appena abbozzata) teoria dell’uomo e dell’Umanità (intesa come l’insieme delle relazioni tra gli uomini).

Questa teoria , quindi, nasce indubbiamente e in primo luogo da un’esperienza pratica di vita. Ma la teoria a sua volta influenza e rafforza l’esperienza e la pratica di vita della persona che la professa.

In un circolo che alle volte è virtuoso, quando la pratica di vita è stata positiva e da essa è derivata una concezione del mondo tutto sommato positiva, se non proprio ottimistica.

Altre volte è vizioso, quando la pratica di vita è stata negativa, perché i dolori e le angosce hanno di gran lungo sopravanzato le gioie e i piaceri, e da questa è derivata, quasi come suo frutto naturale, una visione pessimistica dell’esistenza.

A me pare che la storia della filosofia, con la sua sequela di filosofi e delle loro rispettive concezioni del mondo, ci dia una conferma inoppugnabile di tale assunto, cioè del rapporto intrinseco, strettissimo, che esiste tra una determinata weltanschauung e la biografia del filosofo che ne è autore.

Ora ciò che vale per i filosofi affermati e universalmente riconosciuti può non valere (a maggior ragione) per gli uomini comuni?

© Giovanni Lamagna

Due modi (opposti) di vivere il piacere.

Ci sono due modi – molto diversi, potremmo anche dire opposti – di vivere il piacere.

Il primo è il modo aggressivo, violento, predatorio, veloce di vivere il piacere. Fatto di un mordi e fuggi. Come se fosse incapace di reggere per troppo tempo la tensione, l’adrenalina, che sempre sono connesse alle situazioni di piacere.

E’ l’atteggiamento di chi è attratto, come è ovvio, dal piacere, ma, allo stesso tempo, ne è turbato. Vive quindi nei confronti del piacere un sentimento ambivalente e contraddittorio.

Per costui/costei il piacere, quindi, deve essere breve, veloce. Intenso, ma non troppo prolungato. Il godimento deve accompagnarsi ben presto al momento della sua risoluzione, con relativa latenza del desiderio.

Un piacere troppo esteso o prolungato è quindi vissuto con imbarazzo, se non addirittura con disgusto. In questo caso il desiderio può trasformarsi nel suo opposto: in un sentimento di fuga dal piacere, di rifiuto delle sensazioni ad esso collegate. Che non sono manco più piacevoli, ma diventano (soggettivamente, ma molto realmente) sgradevoli.

In questo caso il piacere si accompagna sempre a un più o meno latente senso di colpa, che si manifesta o attraverso un senso del pudore eccessivo a attraverso una vera e propria vergogna del proprio agire.

Chi vive il piacere in questo modo alterna spesso momenti di euforia e di eccitazione a momenti di stanca malinconia, se non di conclamata depressione.

Chi vive il piacere in questo modo si accompagna anche a persone diverse a seconda del modo di vivere il piacere. Frequenta alternativamente persone che lo aiutano a vivere il piacere e altre che lo immalinconiscono o addirittura lo buttano in depressione.

Le seconde gli servono a bilanciare le prime. Come se frequentare solo le prime fosse troppo. Costasse sensi (innaturali e illogici, eppure ben reali) di colpa. E quindi abbisognasse di pagare pedaggio ai momenti di piacere. Come se frequentare le une e le altre servisse a trovare uno strano e paradossale equilibrio, utile a gestire sia il piacere che i sensi di colpa.

Ovviamente chi vive il piacere in questo modo non potrà mai crescere nei suoi livelli di piacere. Dovrà sempre accontentarsi di una certa soglia di piacere, oltre la quale non potrà mai andare.

C’è poi un altro modo di vivere il piacere, che si distingue dal primo fondamentalmente perché, al contrario del primo, è vissuto senza significativi sensi di colpa. Oppure è in grado di riconoscere i sensi di colpa connessi al piacere che si sta vivendo e li sa gestire, controllare e, infine, superare.

E’ in grado, quindi, di viversi il piacere senza significative contraddizioni. E’ perciò capace di viverlo in maniera prolungata e distesa senza eccessive e avide voracità, ma anche senza inutili e “sprucide” avarizie.

E’ capace di avventurarsi in nuovi territori dello stesso piacere, senza troppe angosce, ma anzi col gusto dell’esplorazione e della sperimentazione, se non della vera e propria trasgressione.

E’ capace di sfidare perfino le convenzioni sociali, i tabù consolidati nel pensiero comune, quando si rende conto, diventa consapevole che il piacere desiderato non fa danni a nessuno, anzi procura maggiore benessere a se stesso e a colui/colei/coloro con cui esso viene condiviso.

Chi vive il piacere in questo modo ha un buon rapporto con il suo inconscio e , quindi, con le sue pulsioni libidiche. Ha ridotto al minimo l’influenza del Super Ego e tiene conto, nel porre limite ai suoi desideri, solo del principio (ovviamente fondamentale) della realtà.

Soffre di rado di sbalzi di umore. Vive una situazione stabilizzata e placida di benessere psicofisico, che ogni tanto viene piacevolmente “turbata” da picchi di godimento, ma non sprofonda mai (o quasi mai) negli abissi del dispiacere e della malinconia. Non sa manco cosa sia la depressione.

Tende a frequentare persone che come lui/lei sono altrettanto gaudenti, nel senso che vivono un rapporto positivo col piacere. E ad evitare, al contrario, le persone che hanno un rapporto complicato col piacere. A maggior ragione si tiene lontano da quelle che propendono verso il masochismo.

Giovanni Lamagna

Dopo aver visto il film “Perfetti sconosciuti”.

16 aprile 2016

Dopo aver visto il film “Perfetti sconosciuti”.

“Perfetti sconosciuti” (nelle sale italiane dall’11 febbraio di quest’anno) è un bellissimo film. Nella tradizione delle migliori commedie all’italiana.

Bellissimo e affiatatissimo cast (Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher, Giuseppe Battiston, Marco Giallini, Kasia Smutniak, Anna Foglietta, Edoardo Leo). Buonissima recitazione (sciolta, leggera, sempre coi tempi giusti, a tratti ironica e divertente a tratti dolente e, perfino, drammatica). Buona regia di Paolo Genovese. Ma, soprattutto, bel soggetto e bellissima sceneggiatura (dello stesso Genovese, di Filippo Bologna, Paolo Costella, Paola Mammini, Rolando Ravello), che stimola molte riflessioni su di noi, sulla nostra vita e sulle nostre relazioni.

La trama si può raccontare in poche parole: quattro coppie di amici si riuniscono a cena a casa di una di loro. Ad un certo punto della serata la padrona di casa propone un gioco: mettiamo tutti i nostri cellulari sul tavolo e quando arriveranno sms o telefonate leggiamoli o ascoltiamole insieme.

All’inizio la proposta ingenera qualche turbamento e quindi una certa resistenza. Poi tutti/e i convitati accettano di mettersi in gioco. Il film vive tutto su quello che le telefonate e gli sms che via arrivano a ciascuno/a degli otto protagonisti rivelano della loro vita (quella segreta, tenuta nascosta perfino ai rispettivi partner).

Ovviamente (non è difficile immaginarlo) la vita segreta degli otto amici è legata essenzialmente al sesso. Per cui il film diventa una specie di panoramica sulle fantasie e sulle (piccole) trasgressioni sessuali oggi più diffuse.

E’ anche facile immaginare le reazioni di ciascuno/a dei protagonisti della storia: all’inizio soprattutto di sorpresa di fronte alle scoperte che ciascuno/a fa sull’altro/a, poi (per lo più) di grande smarrimento e confusione emotiva, infine di rabbia, invidia, gelosia, in certi casi e momenti perfino di grande, violenta aggressività.

Uscendo dal cinema e mentre tornavo a casa, ho fatto le considerazioni e mi sono posto le domande che provo a raccontare.

E’ senz’altro vero che “ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata e una segreta” (il trailer del film attribuiva questa frase a Gabriel Maria Marquez).

E, forse, è inevitabile che nelle nostre vite sussista questa tripartizione. E, quindi, una buona dose di ipocrisia e di insincerità.

Ma non sarebbe bene che ognuno di noi lavorasse su di sé, per rendere sempre meno estesa la terza vita e sempre più pubblica e trasparente (come in una casa di vetro) anche la seconda?

Non sarebbe meglio se nessuno di noi avesse segreti per gli altri?

E che ognuno di noi potesse comunicare tranquillamente le proprie fantasie e desideri di evasione/ trasgressione senza ingenerare traumi, paure, angosce di abbandono?

Non sarebbe meglio se nessuno di noi considerasse l’altro come una sua proprietà esclusiva e che considerasse normale che si possa desiderare (e perfino amare) una persona e contemporaneamente amarne anche un’altra?

Non vivremmo tutti/e una vita più semplice, serena e felice, se abbandonassimo le nostre gelosie ed invidie e fossimo disposti a rendere pubblica anche la nostra vita segreta e quella privata?

Non ci eviteremmo angosce e patimenti inutili?

Se la nostra vita segreta (più o meno quella di tutti/e) è fatta anche (perché negarlo?) di simili fantasie ed esperienze, perché considerarle ancora tabù e non sdoganarle come normali modi di essere e di comportarsi?

Non ne guadagneremmo in onestà e sincerità e, quindi, nella qualità delle relazioni?

Non ci liberemmo del fardello inutile di faticose e dispendiose (in termini di energia psichica) ipocrisie?

Forse queste mie riflessioni e domande sono frutto di utopie e di sogni.

Ma non è bello uscire da un cinema sognando? Non è nato il cinema proprio per farci sognare?

E non sono le utopie che fanno progredire l’umanità? Non sono gli uomini che hanno osato immaginare un mondo diverso che hanno poi contribuito a trasformarlo davvero?

Giovanni Lamagna