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Desiderio e responsabilità.

La coscienza si muove (o dovrebbe muoversi) sempre al confine tra desiderio e responsabilità.

Se non abita questo confine semplicemente non è o non è ancora: è in-coscienza.

Il desiderio è, per sua natura, un’istanza potenzialmente illimitata.

Nasce nell’infanzia, anzi già al momento della nascita, all’insegna del “voglio tutto, subito e sempre”.

Quindi all’insegna dell’egocentrismo, del narcisismo, del sogno allucinatorio di onnipotenza.

Ovviamente ben presto e sempre di più, anche se gradualmente, questo tipo di desiderio (oggettivamente delirante, giustificato solo dall’età) deve confrontarsi con la realtà.

Innanzitutto con la realtà della natura, che gli pone (anzi impone) dei limiti: io vorrei volare, ma non posso farlo, perché la natura non mi ha dotato di ali come agli uccelli.

Ma anche con la realtà del desiderio degli altri, che quasi mai coincide col mio e talvolta (o spesso) addirittura confligge col mio.

Di qui il senso di responsabilità.

Che (attenzione!) non è, non deve essere, rinuncia totale, sic et simpliciter, al mio desiderio.

Anzi, la prima forma di responsabilità (proprio nel senso letterale del termine, che deriva dal verbo latino “respondere”) è quella di cor-rispondere al proprio desiderio.

Lacan diceva, non a caso, che “il peccato più grande è quello di cedere sul proprio desiderio”.

Ma il mio desiderio va realizzato compatibilmente con i limiti che mi impone la Realtà – la natura delle cose – e che mi pone il desiderio dell’Altro.

E, siccome non posso aggirare, evadere, la realtà e non posso fregarmene del desiderio dell’altro (perché una delle componenti principali del desiderio è proprio quella di incontrare il desiderio altrui) ecco che desiderio e responsabilità devono viaggiare di pari passo; l’uno non può fare a meno dell’altro.

Se il desiderio vuole trovare una risposta, una soddisfazione vera, buona e giusta, che fa crescere la vita, e non sfociare in un “godimento mortifero” (come lo definiva Lacan), che invece ammazza la vita.

© Giovanni Lamagna

Raccontare la sofferenza.

Trovare le parole per dirla è uno dei modi per non dico eliminare completamente la sofferenza che ci affligge (sarebbe troppo bello!), ma quanto meno per lenirla, alleviarla, addolcirla un po’.

© Giovanni Lamagna

Solitudine e Sè.

Chi cerca e vuole trovare sé stesso deve scendere nel fondo più profondo di sé stesso, laddove rimarrà solo, completamente, al primo impatto anche desolatamente, solo, come chi si avventura in abissi marini, senza alcuna compagnia ed assistenza.

Nella solitudine più totale, quando più nessun appiglio per rimanere a galla ci rimane, tocchiamo un fondo oltre il quale non possiamo più scendere.

Questo fondo è il nostro Sé; o, meglio, lì troviamo il nostro Sé, siamo messi a confronto con il nostro vero Sé.

Che poi, se ci pensiamo bene, è in realtà un Altro-da-sé, un Alter-ego, qualcuno con cui il nostro Ego è costretto da quel momento in poi a confrontarsi, a dialogare.

Solitudine (la solitudine più assoluta e radicale, non quella provvisoria e, quindi, un po’ finta, che tutti abbiamo sperimentato o sperimentiamo di tanto in tanto) e Sé (o Altro-da-sé) fanno la pariglia, sono, dunque, la stessa cosa, sono (quasi) sinonimi.

Non possiamo trovare il secondo, il Sé (o l’Altro-da-sé), se non sperimentiamo (fino in fondo) la prima (la solitudine).

Fin qui ho parlato di solitudine; bisogna dire, però, che, superato il primo impatto e nel momento in cui incontriamo l’Altro-da-sé, questa solitudine, non è più tale, perché in realtà non siamo più veramente soli, ma siamo in compagnia di qualcuno che, se vorremo, non ci abbandonerà mai, ci farà perenne compagnia.

Eppure, invece, una volta che abbiamo fatto, nella solitudine più profonda, questa esperienza di incontro col Sé, con l’Altro-da-sé, la tentazione immediata è quella di risalire subito a galla.

E non per tornare a riveder le stelle (come disse quel tale, che aveva appunto fatto questa discesa), ma per ritrovare immediatamente il conforto della compagnia (fisica) di altri corpi.

I motivi di questa tentazione sono fondamentalmente due: 1) la presenza dell’Altro-da-sé non ci sembra vera, perché non è una presenza fisica, corporea, ma del tutto spirituale, quindi ci apparirà in un primo momento non reale, ma fantasmatica; 2) il rapporto con l’Altro-da-sé ci appare, soprattutto all’inizio, difficile, faticoso, perché esigente, perché non si accontenta di quello che siamo già, in atto, ci chiede di diventare altro, di realizzare quello che siamo in potenza.

In questo caso, nel caso cioè in cui decideremo di abbandonare questo fondo appena raggiunto e di risalircene a galla, da dove siamo venuti, l’esperienza sarà stata completamente banale, superficiale, quindi vana, inutile.

Perché, invece, l’esperienza risulti utile, decisiva, un’esperienza radicale e di svolta nella nostra vita, occorre che, una volta toccato il fondo dell’abisso, da lì non risaliamo mai più, che decidiamo di vivere in solitudine o, meglio, in compagnia del nostro Alter-ego, il resto della nostra vita.

Intendiamoci: non sto dicendo qui che bisogna da questo momento in poi rinunciare ad avere rapporti con la gente altra, con le persone in carne ed ossa, per fare una scelta di natura monacale.

Dico solo che i rapporti con gli altri in carne ed ossa dovranno tenere presente d’ora in poi questa esperienza “fondamentale” che abbiamo fatto, dovranno convivere con questo rapporto primario che abbiamo finalmente trovato dentro di noi, il rapporto con l’Altro-da-sé.

E avere la consapevolezza che, anche quando siamo in compagnia di altri, perfino quando siamo in mezzo a una folla, siamo in realtà soli, che nulla e nessuno potrà sconfiggere ed annullare mai questa nostra solitudine fondamentale, diciamo pure ontologica.

Questo ci consentirà, ci darà modo, di non vivere gli altri come appoggio, come conforto, come appiglio illusorio, ma di stabilire con loro un rapporto vero, autentico perché basato su un “principio di realtà” e non di illusione.

I rapporti, i rapporti veri, non quelli, ad esempio, fondati sulla chiacchiera e sulla consuetudine, sono sempre incontri di due solitudini, perfettamente consapevoli di questa loro strutturale e insuperabile condizione.

E, in fondo, manco desiderosi di prescinderne, di farne a meno.

Per non rischiare di smarrire l’unico rapporto dal quale, se vogliamo, possiamo non separarci mai: quello col nostro vero Sé, l’Altro-da-sé; l’unico rapporto, dunque, davvero non precario.

Da considerare, infine, – cosa non da poco – che è dalla solitudine (e dal silenzio ad essa indissolubilmente legato) che nasce la parola che ha un senso, un peso, un valore; che non sia, insomma, un puro flatus vocis, quello del chiacchiericcio che normalmente ci circonda, che caratterizza la maggior parte dei rapporti tra gli uomini.

© Giovanni Lamagna

Cercare… trovare… (5)

Ognuno trova solo quello che sta (magari inconsciamente) cercando.

Quindi, in un certo senso, si trova solo ciò che è già dentro di noi.

Anche se non ne siamo ancora coscienti.

© Giovanni Lamagna

Cercare… trovare… (4)

Chi non vuol trovare non trova e chi non vuol vedere non vede.

Manco quello che sta a portata delle sue mani e proprio davanti ai suoi occhi.

© Giovanni Lamagna

Cercare… trovare… (3)

Taluni cercano a livello inconscio proprio ciò che poi si lamentano a livello conscio di trovare.

E non cercano a livello inconscio ciò che dicono o credono a livello conscio di cercare.

© Giovanni Lamagna

Cercare… trovare… (2)

A volte crediamo, in perfetta buona fede o come diciamo a parole, di stare a cercare.

In realtà non stiamo cercando veramente, perché nel profondo non vogliamo davvero trovare.

E, infatti, non troviamo.

Come è ovvio!

© Giovanni Lamagna

Cercare… trovare…

Chi non sa cercare – per quanto si dia da fare – è destinato a non trovare.

Mai.

© Giovanni Lamagna